Cambia la latitudine, non cambia il nazionalismo di frontiera: politiche-specchio dal confine tra Usa e Messico al Mediterraneo, dall’Europa che esternalizza i confini sempre più in profondità nel continente africano al Golfo dei ricchi che fanno profitto sui poveri.

Succede così che nelle economie rette dalla subordinazione di altri esseri umani, quando questi non servono ai neoliberismi nazionalisti, diventano letteralmente carne da macello in confini sempre più militarizzati, confini tra «noi e loro». Questo dicono le 73 pagine in cui Human Rights Watch raccoglie il rapporto They fired on us like rain prodotto di un monitoraggio lungo più di un anno, dal marzo 2022 al giugno 2023, oltre 350 foto e video visionati, immagini satellitari e interviste ai sopravvissuti. L’esito: non iniziative personali ed estemporanee di qualche soldato saudita di frontiera, ma una politica mirata, di Stato, di uccisioni e detenzioni di massa di migranti etiopi.

Ieri era la notizia di apertura dei più importanti quotidiani internazionali e, scorrendo un po’ a lungo le homepage, notizia anche in quelli italiani. Eppure, a ieri sera, non erano pervenuti commenti da parte di quegli esponenti della politica italiana ed europea impegnati da anni nel rafforzamento di relazioni commerciali e diplomatiche con uno dei regimi più feroci e segregazionisti della regione mediorientale. Da parte sua il Dipartimento di Stato Usa ha chiesto all’alleato saudita l’avvio di un’inchiesta.

I numeri sono impressionati, centinaia e centinaia di uccisioni stimate. Come impressionanti sono le immagini catturate dai satelliti (fosse comuni, campi di prigionia, crescenti infrastrutture per la detenzione e l’espulsione) e le testimonianze di chi è scampato a una macchina di morte sistematica e diffusa lungo il confine tra Arabia saudita e Yemen: il fuoco di esplosivi e mortai per ore consecutive, vere e proprie esecuzioni sul posto, corpi senza vita ammassati l’uno sull’altro che «parevano dormire, poi ho capito che non stavano dormendo intorno a me, erano cadaveri. Mi sono svegliato ed ero solo», il racconto del piccolo Hamdiya, 14 anni.

Dopo gli attacchi con l’artiglieria (che Hrw ha potuto confermare facendo valutare le ferite dei sopravvissuti e dei morti all’Independent Forensic Expert Group), le guardie di frontiera catturano i migranti e li detengono in campi di prigionia.

Detengono tutti: feriti lievi, mutilati, anche i cadaveri. Secondo le stime dell’organizzazione basate sulle testimonianze orali, su undici tentativi di attraversamento della frontiera gli etiopi uccisi nell’ultimo anno sarebbero almeno 655. In altri nove casi di attraversamento, i sopravvissuti non hanno saputo dare stime precise delle vittime. Conoscono però il numero di chi è rimasto in vita ed è stato poi detenuto: 281 persone su 1.630.

C’è anche chi ha provato a tornare indietro per recuperare i propri morti: ha trovato i resti «sopra una pila di venti corpi, è impossibile contarli, è qualcosa che va oltre l’immaginazione». C’è chi racconta di essere stato costretto ad abbandonare i feriti perché doveva correre per la propria vita. E chi di persone uccise da colpi di mortaio ma anche da esecuzioni sul posto, con i fucili. Tantissimi i feriti da colpi ravvicinati da arma da fuoco, da lastre di metallo, da pietre.

E poi i pestaggi, gli stupri. Infine, le fosse comuni: una decina quelle individuate tra la provincia saudita di Jizan e quella yemenita di Saada. Una zona montagnosa, piccoli sentieri tra le rocce, luogo che non doveva essere penetrato dalle denunce internazionali: nei video si vedono gruppi di migranti camminare uno in fila all’altro prima delle raffiche.

La carneficina rientra nella politica lanciata dal principe ereditario saudita, e reggente de facto, Mohammed bin Salman, un «prima i sauditi» che richiama altri lidi ma identici nazionalismi. Da almeno cinque-sei anni Riyadh ha avviato campagne di deportazione di migliaia di migranti, accusati di togliere lavoro ai cittadini sauditi pur essendo da sempre sfruttati come manodopera a poco costo e zero diritti. Tantissimi arrivano dal Corno d’Africa: è la cosiddetta rotta orientale, collega – via mar Rosso – l’Etiopia e la Somalia allo Yemen.

Gli etiopi si imbarcano a Gibuti, la tratta fino a qualche tempo fa non era nemmeno troppo costosa se paragonata al Mediterraneo: 150 euro per 20 chilometri in barca sul Golfo di Aden. Più cara, almeno il doppio, quella dai porti somali di Berbera e Lughaya, direzione le città yemenite di Hodeidah e Aden.

Nel tempo i numeri sono lievitati. Se nel 2017 e nel 2018 l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) stimava 100mila arrivi annui in Yemen (di cui il 73% somali e il 25% etiopi), tra gennaio e ottobre del 2022 per la rotta orientale sono transitate 206mila persone. Il doppio: migranti economici, climatici, rifugiati in fuga dalla guerra in Tigray e le violenze jihadiste in Somalia. Un terzo sono donne, scrive l’Oim, il 6% bambini con i genitori e il 18% minori non accompagnati.

Di questi 206mila, 120mila sono entrati in Gibuti prima di tentare la via del mare. E la «bilancia» si è ribaltata: cinque anni fa la maggior parte dei migranti verso il Golfo erano somali, ora il 90% sono etiopi. Scappano dalla guerra tigrina ma anche dalla siccità che ha colpito vaste zone del paese riducendo al lumicino la possibilità di entrate economiche sufficienti a sfamare le famiglie.

Quasi nello stesso periodo, tra il primo marzo e il 25 novembre 2022, l’Arabia saudita ha deportato con la forza 73.697 migranti etiopi, per un totale di 500mila dal 2017. Nella monarchia ne restano comunque molti, se ne stimano 750mila (che si aggiungono ad altri milioni di lavoratori stranieri, quasi il 40% della popolazione totale).

Per arrivarci, nel regno dei Saud, c’è da attraversare una lingua di mare pericolosa ma soprattutto una guerra, quella yemenita, oggi a bassa intensità ma che continua a frammentare il paese in autorità diverse che nei rifugiati vedono possibilità di lucro. E abuso: decine di migliaia di migranti, secondo i racconti degli stessi a Hrw, sono detenuti in campi di prigionia, torturati, affamati e costretti a pagare per proseguire il loro viaggio, con l’aiuto di trafficanti in affari con quelle stesse autorità.

Lo fa il governo ufficiale in auto esilio ad Aden e lo fa il movimento Ansar Allah, espressione politica degli Houthi, a Saada e Sana’a. Da lì in poi c’è solo la frontiera saudita.

CHIARA CRUCIATI

da il manifesto.it

foto: screenshot You Tube