Qualcuno ricorderà forse quella scena del film “C’eravamo tanto amati”, capolavoro di Ettore Scola, in cui il giovane insegnante Nicola Palumbo, ispirato alla figura di Camillo Marino, viene tacciato dai notabili di Nocera Inferiore di “fomentare l’odio sociale”.
Contro di lui viene scatenata una caccia alle streghe che giunge fino all’allontanamento dalla scuola da parte del preside, un reazionario della più bell’acqua. Ciò per essersi egli, cinefilo e comunista, prodotto in un’appassionata apologia di “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica, proiettato nel cineforum locale e inviso ai concittadini più retrogradi.
Agli occhi di questi inossidabili difensori dell’ordine costituito, i “panni sporchi” nell’Italia del neo-centrismo dovevano essere lavati, andreottianamente, in famiglia, e il neorealismo appariva intrinsecamente sovversivo, il che giustificava perciò la messa all’indice delle sue opere.
La rappresentazione della realtà in tutte le sue contraddizioni, a partire dalla povertà endemica nel Paese, voleva dire inoltre incrinare l’egemonia culturale di un sistema che si sorreggeva su pochi rudimentali principi, nel quale la suddivisione della società in classi – “signori” da una parte, “cafoni” e lavoratori in genere dall’altra – costituiva una certezza granitica, un dato cristallizzato ed immutabile.
Non abbiamo potuto fare a meno di pensare a quei personaggi di un’Italia in bianco e nero, il cui misoneismo di lana grossa pure non risultava privo, se non altro per la “naiveté” con cui veniva espresso, di qualche tratto di umanità, nel registrare la sequenza di reazioni livide e scomposte delle destre di fronte alle critiche e alle proteste originate dalla soppressione, dai primi di agosto, del reddito di cittadinanza per una cospicua quota di beneficiari.
In quella locuzione, “fomentare l’odio sociale”, adoperata tra gli altri dal vicepresidente della Camera, il meloniano Rampelli, spira un’aria consunta e stantia, da vecchio mattinale della questura, un’atmosfera che proietta verso epoche in cui i subalterni venivano ascritti automaticamente alle “classi pericolose”.
Non solo. Quella fraseologia rimanda direttamente al reato di “istigazione all’odio tra le classi” contenuto in quella summa della dottrina penale fascista che è il codice Rocco e transitato indenne fino alla Repubblica (venne cancellato dalla Corte Costituzionale soltanto nel 1978), a cui hanno attinto a piene mani in negli anni Cinquanta e Sessanta i governi democristiani e i solerti apparati dello Stato per tentare di reprimere ogni conato di lotta politica e sociale.
Ma di quale odio di classe, “fomentato” o “istigato”, stiamo parlando? Nell’Italia del 2023 l’unico tangibile odio di classe è quello dei possidenti verso i nullatenenti, dei ceti dominanti verso quelli dominati, del governo verso i non abbienti, stigmatizzati spesso e volentieri come nullafacenti o, come si dice dalle nostre parti, “sfaticati” che quasi si compiacciono della loro sorte.
Ora si cambia però. Demolito il RdC, padroni e padroncini possono ballare il loro perfido sabba sulle spoglie dei diritti dei reprobi che avevano osato sottrarsi per una breve stagione, grazie a una misura sicuramente imperfetta ma preziosa, alla sferza del ricatto e dello sfruttamento. Cessa finalmente il pianto greco in perenne favore di telecamere di ristoratori e affini finora, a loro dire, alla vana ricerca di personale.
Levano in alto i calici le caste degli imprenditori di regime, quelle delle Santanche’ e dei Briatore, i veri intellettuali (altro che Dante), con il loro grezzo neo-darwinismo sociale, di questa maggioranza. Fa corona a tutti costoro la gioventù dorata dei nuovi figli della lupa, ancora più spregiudicata famelica dei padri. Stia tranquillo comunque Rampelli insieme ai suoi camerati.
Il proletariato non ha bisogno di essere “fomentato” da alcuno, ma farà valere le proprie ragioni con la serietà dell’impegno e la perseveranza nella lotta, riprendendosi quel maltolto sottrattogli dal governo con una ferocia che conferma, una volta per tutte, che non possono esistere delle destre popolari, ma soltanto populiste. Oltretutto la nostra storia dimostra che spesso dopo le estati dello scontento arrivano gli autunni caldi e qualche volta, pensate un po’, anche i bienni rossi.
LUIGI CAPUTO
Rifondazione Comunista – Unione Popolare
Avellino
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