Se al generale non piacciono un’Italia e un mondo di uguali

Meno male, caro generale, che il mondo va al contrario. Meno male che chi è considerato “diverso“, con non poche sofferenze, con tanti pregiudizi da affrontare e ridurre a...

Meno male, caro generale, che il mondo va al contrario. Meno male che chi è considerato “diverso“, con non poche sofferenze, con tanti pregiudizi da affrontare e ridurre a quel che sono, ossia dei preconcetti, degli artefatti della vera realtà dei rapporti umani, si è fatto largo nel corso degli ultimi cinquant’anni in una società che l’avrebbe voluto sempre e soltanto altro dagli altri, separato dal contesto, ghettizzato e ghettizzabile, appellabile con sostantivi ed aggettivi che per lei, oggi, sono stati ingiustamente posti nell’elenco degli insulti.

Meno male, caro generale, che oggi dire ad una persona LGBTQIA+ “finocchio“, “buliccio“, “femminiello“, “frocio“, “checca“, “invertito“, “uranista“, “pederasta“, “ricchione“, “culo“, “culo sfondato“, “piglianculo“, “rotto in culo“, è un comportamento immorale ed incivile e non più la dimostrazione mascolina e machista di uomini che si ritengono tali in quanto appartenenti ad una “maggioranza” naturale destinata alla perpetuazione della specie.

Quella specie che lei suddivide in etnie, persino in razze. Quella specie che annovera tra i suoi, di lei, eccellenti antenati niente po’ po’ di meno che Enea, Giulio Cesare, Mazzini e Garibaldi. Il primo era greco di nascita, mezzo troiano e infine migrante nell’Italia che sarebbe divenuta romana. Il secondo era bisessuale e, per quanto ci dicono Svetonio e gli altri storici, ha promosso politiche sociali contrastando le più vetuste idee e tradizioni, sconfessando l’immarcescibilità della conservazione.

Gli ultimi due, per carità di patria davvero, per evitare altri torti alla Storia, lasciamoli in pace. La Repubblica che aveva in mente Mazzini non è la sua. Le idee di uguaglianza e di libertà per cui Garibaldi ha lottato per tutta la vita non le si addicono in minima parte: quando si creano dei pantheon tutti e soltanto propri, si finisce col commettere qualche esagerazione nell’associare persone, tempi, modi e tradizioni così differenti fra loro.

Successe anche ai postfascisti che tentavano a Fiuggi di rinverdirsi, di rifarsi una verginità: presero a prestito Antonio Gramsci. Fu una mossa più propagandistica che altro. Funzionò alcune settimane e poi si scordarono, come era naturale, del grande comunista sardo. E meno male che il mondo, dunque, va al contrario di quello che lei, generale, pensa. Va al contrario, si capovolge fin troppe volte, fino a ritrovarsi al punto di partenza.

E non sempre quando tutto il giro è compiuto e si ricomincia, si può essere certi di essere andati oltre certe ottusità del passato. La dimostrazione, ogni giorno, sono le dichiarazioni di chi pretenderebbe di fondare una nuova morale per un nuovo Stato: basata sulla considerazione, oltre che del maggioritario nelle leggi elettorali, anche della maggioranza come criterio assoluto di valutazione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, di quello che, alla fine, deve essere permesso e di quello che deve essere vietato.

Lei considera tutti gli insulti che un tempo venivano rivolti a noi persone LGBTQIA+ come “termini da tribunale“. Se ne deduce che dovrebbero, nel suo mondo giusto e non capovolto, retto, dritto, impettito e obbediente come tanti soldatini, vi sarebbe libertà di chiamare un giovane omosessuale con uno o più degli epiteti da lei elencati o di stigmatizzare Rocco, che si fa chiamare Aurora, pur continuando – letterale – «ad essere dotato di batacchio in mezzo alle gambe».

L’eleganza è roba da femminelli. La durezza muscolare del linguaggio, sprezzante qualunque conformismo e buonismo di sorta, le fa parlare del cazzo come di un batacchio di una campana, senza avere nemmeno il coraggio di uscire dalla metafore, di dire apertamente che stiamo parlando del membro maschile, del sesso contro il genere e viceversa.

Se il maschio non è uomo e l’uomo non è maschio, viene a cadere inevitabilmente anche la ragione di una vita spesa per difendere la Patria (con la pi maiuscola, si intende) e intenderla come il ricettacolo di una realtà che, se corrispondesse al suo mondo non capovolto, sarebbe un’Italia spinta indietro di cento anni. Lei è un caso eccezionale. Si spera. In tutti i sensi, ma proprio tutti.

Perché avevamo iniziato a pensare che anche le forze armate potessero essere modernamente comprese nella democratizzazione di una società che la Costituzione della Repubblica prevede egualitaria, senza distinzioni di razze, di colori, di idee: dove la generosità di questi processi istituzionali, associata ad una benevolenza indotta da un certo opportunismo politico, ha consentito persino ai postfascisti di arrivare al governo del Paese. E non dal 22 settembre scorso. Ben da prima.

Colpa di quel mondo capovolto che le fa tanta paura? No, colpa dell’inadeguatezza di un progressismo che è stato troppo indulgente sul terreno delle riforme sociali, dell’attacco al regime delle merci e dei profitti e che ha pensato di poter includere lo sviluppo civile dentro un inviluppo sociale, decretando così la fine di una cultura avanzata, che aveva fatto del costituzionalismo la punta di diamante dell’agire politico, sindacale, sociale, singolo e collettivo.

Persino il governo e l’Esercito hanno preso le distanze dalle sue dichiarazioni, caro generale. Uno che non rappresenta proprio il mondo capovolto che lei anatemizza, il ministro Crosetto, ha definito le sue delle “farneticazioni“. Si potrebbe dire che è stato fin troppo generoso nel sintetizzare la miriade di condanne e di dita puntate contro tutto e tutti che lei ha sciorinato dalle pagine del libro che si è autoprodotto.

Ma, per lo meno, la dissociazione c’è stata. E non era affatto scontata in un clima di revanchismo di un antisocialità e di un anticulturalismo che avanzano prepotentemente, inducendo la RAI ad essere il megafono della propaganda governativa, esaltando tutti i disvalori possibili provenienti da un egotismo che surclassa l’obiettività, la capacità di discernere le differenze come ricchezza essenziale per chiunque di noi, per una crescita emotiva, psicologica, interdisciplinare e trasversale.

Meno male, generale, che il mondo va al contrario quando si parla di crisi ambientale e che, quei giovani che lei disapprova, quelli che imbrattano i muri, interrompono il traffico e fanno dimostrazioni e sit in che saltano all’onore delle cronache, hanno una carica passionale così forte da essere pienamente consapevoli dei rischi cui vanno incontro. Sono la quinta colonna del coraggio che molti di noi dovrebbero lanciare oltre l’ostacolo del “politicamente corretto“.

Hanno capito, prima di molti di noi quarantenni e cinquantenni, che – direbbe Guccini – «il nemico si fa d’ombra e s’ingarbuglia la matassa»: il cambiamento del clima cui assistiamo da anni, e che oggi sta mostrando le prime avvisaglie di un ridimensionamento ulteriore della vivibilità per gli animali umani (saremmo noi) e per quelli non umani sulla Terra, è un percorso che è già indirizzato all’orizzonte dell’irreversibilità e, quindi, della esponenzializzazione dei fenomeni per noi estremi, incontrollabili, che travolgono anche quel bel Paese che lei chiama pomposamente “Patria“.

Lei, caro generale, sostiene che saranno «povertà e sottosviluppo a produrre più di ogni altro l’inquinamento». Siamo d’accordo, capovolgendo il suo assunto: perché saranno proprio la povertà di investimenti nelle nuove tecnologie verdi ad impedire al fossile di uscire di scena; perché così vuole una economia animalicida, omicida, econegazionista, annichilitrice di tutte le grandi potenzialità del pianeta, dedita solamente all’accrescimento delle grandi ricchezze per pochi, della salvezza momentanea per alcuni popoli a discapito di tutti gli altri.

Come si possa sostenere che la povertà e il sottosviluppo siano alla base dell’inquinamento, davvero è una tesi così stupefacentemente a-scientifica da risultare parossistica, perculante, estremizzazione di una qualche idiosincrasia non ben definibile e lasciata solo alla valutazione psicoanalitica di qualche bravo studioso del metodo freudiano di penetrazione nella verità che l’inconscio fa emergere diurnamente in forma di nevrosi, di scritture di libri che non hanno né capo e né coda.

I froci non possono essere più chiamati froci, l’ambiente stravolto è colpa dei poveri e di una mancata evoluzione da età dell’oro… come non aggiungere a questa “dittatura delle minoranze” anche quel presupposto che obbliga gli uomini tutti d’un pezzo, i veri italiani, quelli bianchi, ben riconoscibili in quanto tali, a considerare Paola Egonu una di loro? L’atleta sarà anche «italiana di cittadinanza, ma è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità».

Qual’è l’italiano modello? Perché se andiamo per luoghi comuni e stereotipi della peggiore specie, allora possiamo dire che più vicino all'”idea di italianità” può essere un sardo basso, con la coppoletta in testa e il bastone per badare alle pecore? Oppure lo è il milanese che passeggia per via Montenapoleone, sorseggia un Campari e parla con il tipico accento cantilenante del ricco cafone cinepanettoni natalizi? Oppure, ancora l’italiano vero e proprio è il romano, nato e cresciuto nella capitale, magari anche lui erede di Enea e di Cesare?

Meno male, generale: abbiamo due idee completamente diverse dell’italiano medio che, per quanto mi riguarda, è quello che tutti i giorni si spacca la schiena e la mente, le braccia e il cervello per fare andare avanti la propria vita precaria, la propria famiglia indigente, cercando di far crescere una nuova generazione che stia lontana da tutto quell’odio che le rivendica come un diritto. E’ un diritto odiare? E su quale base? C’è solo un odio che dovrebbe essere considerato quello adeguato alle lotte di chi non ha niente o poco e niente: l’odio di classe.

Un odio che non presuppone altro se non la lotta di classe, quindi la difesa intransigente degli interessi dei più deboli, di tutti gli sfruttati, di chiunque, grazie alle politiche dei governi che si sono avvicendati e che hanno sostenuto i privilegi padronali, oggi si trovi in condizioni di vera e propria disperazione (anti)sociale.

Lei, generale, scrive che «si spende di più per un immigrato irregolare che per una pensione minima di un connazionale». Le necessità quindi hanno un colore etnico, sono classificabili a seconda della provenienza, della nascita, dell’autctonia o meno di chi chiede di poterle soddisfare? La risposta che, anche qui, se ne deduce è: sì. Somiglia molto a quel “prima gli italiani” che veniva esibito nei comizi elettorali quando un partito secessionista, tutt’altro che patriottico, era appena involuto nella versione opportunisticamente nazionalista di sé stesso.

Meno male, generale, che il mondo, che l’Italia va al contrario rispetto al pensare che sia in atto «il lavaggio del cervello di chi vorrebbe favorire l’eliminazione di ogni differenza compresa quella tra etnie, per non chiamarle razze». C’è stato un attimo in cui tutte quelle che Crosetto chiama “farneticazioni” potevano sembrare la premessa ideale per libri già tristemente noti e scritti in anni in cui il mondo è stato trascinato nel guerra totale, nel disastro globale…

Noi gay, lesbiche, transgender, difensori del clima e dell’ambiente, antirazzisti, egualitari, democratici, italiani bianchi o neri, alti o bassi, poveri e sfruttati, non siamo al di fuori della normalità. Noi siamo la Normalità, con la enne maiuscola: quella di un mondo in cui, nonostante si stia faticosamente superando una serie di pregiudizi millenari sul colore della pelle, sul sesso, sui rapporti interpersonali, con la Terra stessa e con gli animali non umani, restano ingiustizie titaniche, davvero incommensurabili che costringono milioni di persone a spostarsi per sopravvivere, senza alcun intento di sostituire etnicamente nessuno in nessun luogo.

Noi siamo la Normalità, e non perché siamo la maggioranza, ma perché siamo nelle sofferenze e nelle sopravvivenze tutti uguali. Chiunque voglia provare a dividerci, a metterci gli uni contro gli altri perché siamo nati, cresciuti e vissuti in paesi diversi, perché abbiamo religioni differenti o perché siamo atei o agnostici, ha perso la sua inutile, sterile, disumana lotta.

Il trucco può aver funzionato per qualche tempo, anche oltre la nascita e la crescita del movimento internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori; ma poi ha mostrato che il povero non è nemico di un altro povero e che è il ricco che sfrutta il lavoro altrui ad avere interessi completamente opposti a quelli dello sfruttato.

Noi, caro generale, siamo la Normalità, perché ci riconosciamo senza se e senza ma nella Costituzione della Repubblica: che non fa differenze tra italiani per colore della pelle, per tratti somatici, per cultura e per provenienza. Di alcun tipo.

Se è ancora vero che «E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», non ci sono alibi che tengono e nemmeno richiami al non trarre conclusioni dalle proprie parole che possano portare ad atti o gesti inconsulti.

Noi tutte e tutti, la Repubblica per prima può fare a meno di chi dice di volerla servire con onore e scrive, perché pensa, una serie di scempiaggini a cui tocca dedicare persino troppo spazio. L’antica “ignominiosa missio“, il congedo con disonore, esiste ancora? Se sì, è la risposta più giusta a tutto questo. Punto e basta.

MARCO SFERINI

18 agosto 2023

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli