Il termine “ecoansia” è poco rigoroso sul piano scientifico se lo si usa per designare una condizione di malessere psichico individuale clinicamente significativo. Rende bene, tuttavia, l’allarme collettivo provocato dal deterioramento climatico e dalla percezione dell’irreversibilità del danno finora fatto.

Come accade in tutte le situazioni di forte disagio della collettività, questo allarme alimenta le ansie presenti in noi e anche le tendenze depressive. Al tempo stesso ci offre un oggetto riconoscibile di paura che svolge una funzione (precaria) di contenimento di angosce inconsce.

Esiste il rischio reale che sia trattato come disturbo psichiatrico, cioè come problema del singolo individuo da curare con i farmaci o con interventi psicologici mirati. L’idea che si possa fare fronte al disagio emotivo che la nostra società instancabilmente produce, senza rimuoverne le cause, ma ricorrendo a dispositivi ansiolitici e antidepressivi, è pervasiva.

Il nostro timore del disastro ambientale è sano e necessario. È molto preoccupante che in tanti non lo avvertono, rifugiandosi nel diniego o in un ottimismo superficiale.

Sarebbe auspicabile che esso evolvesse in senso “tragico”, che producesse phobos e eleos: il primo di questi sentimenti è la profonda inquietudine, prossima al terrore, che sconvolge il nostro mondo interno, attivando in noi una consapevolezza non eludibile dei nostri errori; il secondo è la compassione nei confronti della nostra umana miseria che ci aiuta a non chiuderci nel giudizio morale o nell’autocommiserazione e ci consente di rivivere l’amore nei confronti degli altri e di noi stessi.

I due sentimenti tragici rimettono in gioco la nostra umanità tormentata, attivano il senso della sua mancanza e sbloccano il desiderio per la vita (neutralizzato dall’assoggettamento al bisogno che ricorre il sollievo e l’oblio) senza il quale le catastrofi non sono riparate.

Abitiamo, purtroppo, in uno spazio anti-tragico – il regno di ogni psicosi collettiva – e ne dobbiamo diventare consci. La globalizzazione selvaggia che ci sta imprigionando sempre di più nella sua gabbia, mossa da un’unica spinta incontrollabile, l’accumulo oligarchico di ricchezza, non conosce il senso della misura e perverte il senso di responsabilità in calcolo preventivo e predeterminante di ogni nostro pensiero e di ogni nostra azione.

La paura se non evolve attraverso i dispositivi tragici (l’elaborazione del dolore e del lutto) in una trasformazione profonda del proprio modo di sentire, pensare e vedere, resta dissociata dal desiderio e inevitabilmente anche dalla ragionevolezza. Produce forte destabilizzazione psichica (perché si trova priva di soluzioni valide e di contenimento) e diventa angoscia.

L’attenzione non è più rivolta al pericolo esterno, ma al pericolo interno: la perdita di coerenza della rappresentazione della realtà e di sé stessi. Si ricorre a schemi mentali e comportamentali del tutto impropri, ma capaci di scaricare la tensione interna, che puntualmente, prima o poi, sfociano in azioni sconsiderate.

L’ecoansia può essere usata per distrarci da ciò che c’è dietro la catastrofe ambientale: un ordine mondiale irragionevole, insieme uniformante e anarchico, producente precarietà affettiva, politica e economica e una grave dissoluzione delle relazioni umane. Bisogna spezzare la tenaglia che formano da una parte la conduzione oligarchica/totalitaria delle sorti dell’umanità e, dall’altra, la precarietà e la destabilizzazione psichica che essa senza posa produce.

La nostra condizione attuale è del cane che si morde la coda: la negligenza crea rovine e ansia e l’ansia crea nuova negligenza e rovine. Abbiamo di fronte a noi un importante impegno politico che sarebbe disastroso mancare. Combattere il sistema che produce precarietà e anche la cultura che lo sostiene: l’anestesia psichica e il diniego della realtà mediante la costruzione di mondi artificiali.

SARANTIS THANOPULOS

da il manifesto.it

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