Il regime dei padroni

La citazione iniziale da “Ombre rosse” di John Ford è un po’ l’epitaffio per il moderno Stato liberale che si trasforma in quello liberista, quindi si mette al servizio...
Charlie Chaplin in "Tempi moderni"

La citazione iniziale da “Ombre rosse” di John Ford è un po’ l’epitaffio per il moderno Stato liberale che si trasforma in quello liberista, quindi si mette al servizio di un capitalismo che pretende delle istituzioni certamente forti e intransigenti, sicure di sé stesse e, quindi, capaci di reggere gli urti delle crisi economiche e sociali; al contempo, però, le asservisce completamente alle prerogative del privato e, per così dire, fa del pubblico una appendice di tutto ciò che proprietariamente risponde alla logica del mercato, del profitto e dell’accumulazione dei capitali.

Fa bene Giorgio Cremaschi a citare il dialogo del banchiere che sulla diligenza sta scappando con la cassa che ha rubato: questo è quello che è successo tante, troppe volte nella storia di quella che chiamano la “modernità” e che altro non è se non una esasperazione delle franchigie che imprenditoria media e alta si sono date per sfuggire alla ciclicità di un eterno ritorno al disastro che, per il più, si riversa sulle fasce più deboli di ogni paese.

I rappresentanti della grande produzione di merci, dell’alimentazione di un vero e proprio regime dello sfruttamento a più non posso del lavoro, con contratti sempre più precari, privi di garanzie per la sicurezza nei cantieri, nelle fabbriche, hanno in questi ultimi decenni, proprio a partire dalla segmentazione della classe operaia, spezzettata, ridotta e costretta ad una lotta contro sé stessa, fatto della instabilità dei diritti sociali una condizione paradossalmente unificante per le lavoratrici e i lavoratori.

Il regime dei padroni” che Cremaschi denuncia del suo libro uscito nel 2010 per Editori Riuniti, quando imperversava ancora la coda del berlusconismo e prendeva piede il “modello Marchionne“, è la restaurazione innovatrice di un paradosso che fuoriesce dalla contraddizione massima rappresentata dal capitalismo: mostrarsi sostenitori dello sviluppo nazionale (e continentale) ma con capitali privati che vengono impiegati in investimenti privati che, alla fine, beneficeranno di grossi introiti pubblici.

La politica, dunque, e così l’intero impianto dello Stato devono sposare il punto di vista del liberismo e adeguare le riforme sociali, economiche e, ovviamente, istituzionali a questa prospettiva di innestamento, di raccordo, di congiunzione tra la fine di un Novecento che ha visto la nascita della prima fase del nuovo sviluppo capitalistico globale e il nuovo millennio.

Un excursus storico nei secoli in cui il sistema di produzione capitalistico si afferma e, pertanto, diventa oggetto della critica sociale, politica ed economica, è necessario per l’autore, così da spiegare come mai si sia passati dalla caritatevole benevolenza delle Dame di San Vincenzo alle grandi multinazionali che spostano impianti di produzione, licenziano e assumono indiscriminatamente, senza badare alle formalità rappresentate dal diritto dei singoli Stati.

L’idea di agglomerati interstatali dal respiro più profondo, dalla sopportabilità maggiore rispetto al ristretto ambito delle nazioni di origine ottocentesca, è certamente una idea moderna ma è anche un segno della trasformazione economica, della mutazione ricostituente del capitale e del suo tratto distintivo liberista.

Cremaschi evidenzia con accuratezza i passaggi per i quali il mondo del lavoro è stato costretto a transitare, lasciandosi guidare da un sindacato che, sovente, ha ceduto la sua rappresentanza ad una serie di compromessi con una politica ritenuta “amica”.

Il centrosinistra, come nuova forma mentis di una pace sociale che avrebbe messo insieme il ceto medio benestante e quello (anche qui) modernamente proletario, lasciando illudere la gran parte dell’elettorato di essere il nuovo aggregato su cui dare vita ad una sinistra moderata e riformatrice, ha, dalla fine degli anni ’90 sostenuto la bipolarizzazione di una politica che non avrebbe più avuto alcuna spinta progressista, ma solo una alternanza tra due similitudini, tra due somiglianze, tra due analogie.

Nel nome della “governabilità“, quindi di una stabilità sociale che si fondasse sulla piena condivisione della compromissione tra socialdemocrazia e liberalismo, è stata emarginata e marginalizzata quella alternativa di sinistra che opponeva alle pretese di Confindustria una “perequazione dei diritti” reclamata dagli stessi padroni come compensazione per i loro profitti e, pure ultimamente, per i loro esorbitanti extraprofitti.

Si sono dovuti inventare anche nuovi linguaggi per descrivere i livelli di sfruttamento aberrante che sono stati raggiunti con i contratti a chiamata, con una precarizzazione così allucinante del lavoro da renderlo molto simile ad una forma di schiavismo, di interdipendenza tra imprenditore e maestranze in cui il controllo totale del primo sulle seconde è deciso in base alle esigenze produttive e non secondo i canoni di quello che un tempo era lo “Statuto dei lavoratori” e che si propose di chiamare “Statuto dei lavori“.

Confindustria intendeva mettere al centro di tutte le questioni sollevabili il fatto che d’ora in poi si sarebbe trattato di parlare di regole e non di persone.

Quindi la riduzione dell’individuo a semplice fattore merceologico era ritornata a fare capolino dopo decenni di conquiste operaie, studentesche e femministe in cui aveva prevalso il punto di vista degli sfruttati, ponendo i bisogni sociali al di qua dei profitti, interpretando così giustamente anche il patto costituzionale, per cui la proprietà privata non può mai essere di ostacolo al benessere comune.

La trasformazione del mercato globale, la formazione delle grandissime industrie di vendita di qualunque cosa su Internet, ha ridotto e dimezzato i tempi di mutamento radicale di una economia capitalistica che ha messo a margine la piccola impresa costringendola ad aggregarsi ai colossi mondiali oppure a scegliere una lenta morte, una consunzione destinata alla liquidazione di marchi storici che avevano, in un certo modo, caratterizzato anche lo sviluppo socio-civile di un paese come l’Italia.

Il sottotitolo del libro (“da Berlusconi a Marchionne“) conferisce al ragionamento complessivo un incastonamento temporale di cui va tenuto conto. Perché proprio a ridosso del nuovo millennio, nel suo primo ventennio appena trascorso, la crisi economico-finanziaria del 2008-2009 si rovescia dalle banche verso il debito pubblico e utilizza ancora una volta – perfettamente in linea con i dettami liberisti – lo Stato per attenuare e assorbire gli effetti di una devastazione che pare incontrollata e incontrollabile.

La “liberalizzazione” diventa, esattamente come il termine “governabilità“, un mantra ripetuto in ogni dibattito pubblico, in ogni canale televisivo che pretende di fare informazione, e assurge ad elemento caratterizzante i programmi politici di una “unità nazionale” antesignana rispetto a quella dell’ultima tipicità tecnica draghiana.

Il centrosinistra di Prodi è esattamente questo: un tentativo di battere la forma più aggressiva di matrimonio tra il liberismo e la questione della sua rappresentanza istituzionale.

La caduta dei governi di Prodi è, in questa lettura, la sconfitta del “temperamento” degli eccessi del capitalismo, la fine della sperimentazione di un compromesso tra impresa e lavoro, tentato senza un reale consenso della classe degli sfruttati. Messo in piedi come parte integrante di un progetto di riconsiderazione complessiva di una democrazia che screpola da tutte le parti, che rovina poveramente sulle piagate sopravvivenze di grande parte della popolazione.

Il centrosinistra è sempre stato questo: il meno peggio rispetto alle destre, ma non sul terreno squisitamente economico e sociale. Quello è rimasto appannaggio di una logica interpartitica e trasversale che si è retta su una alternanza costruita sulle rovine di una proporzionalità del voto che era anche equipollenza dello stesso.

Non c’era bisogno, prima dell’introduzione del sistema maggioritario, di affermare che “uno vale uno“. Almeno sul piano formale, quello del diritto da poter esprimere in cabina elettorale, così era.

Le leggi elettorali sono state, tutte quante, dopo il 1994 delle formule quasi matematiche che segnalavano fin prima dello svolgersi delle politiche o delle regionali e comunali chi avrebbe vinto e quale squadra sarebbe andata al governo del Paese. La democrazia è stata fragilizzata, impedita nelle sue articolazioni primarie di movimenti che ne erano il fondamento e la propulsione.

La crisi del 1989 ha fatto quindi sentire tutti i suoi effetti in un lungo arco di tempo, arrivando a lambire le soglie del nuovo millennio. Il sindacato ha subito sconfitte non da poco: prima fra tutte il doversi adeguare ad una politica fintamente progressista, ideologicamente liberista, apparentemente liberale. Ma anche il mondo imprenditoriale e il regime dei padroni ha avuto il suo bel da fare nel sostenere il confronto con una organizzazione di rivendicazioni che si facevano sempre più impellenti visto l’aggravarsi della condizione economica dei ceti più deboli ed indigenti.

All’inizio degli anni ’90, dopo decenni di compressione dei salari e dopo una uguale e contraria contrazione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, la linea di Confindustria risponde di sì alle indicazione del Fondo Monetario Internazionale: bisogna far pagare i costi della crisi a chi sta più in basso, alla moltitudine, a chi si pensa non possa dire di no se intende lavorare, se intende poter sopravvivere.

Scrive Cremaschi a proposito:

«L’attacco al contratto [dei metalmeccanici] ripropone gli stessi argomenti che furono utilizzati per distruggere la scala mobile. L’eccesso di uguaglianza di uno strumento che distribuisce gli stessi aumenti dalla Valle d’Aosta alla Calabria, nella piccola come nella grande azienda, nell’impresa che va bene come in quella che va male».

Chi regna sovrano grazie alle diseguaglianze che rappresenta e che mantiene in quanto base su cui perpetuare il proprio stato di privilegio è, dunque, il primo a denunciare una uguaglianza di trattamenti che deve finire nel nome della diversificazione da territorio a territorio, da fabbrica a fabbrica, perché nel disporre allo stesso modo per tutte le lavoratrici e i lavoratori si dimostra ineguale per i padroni.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro, quindi, è un nemico dell’impresa come lo è l’articolo 18 contro i licenziamenti senza giusta causa e come lo sono ancora oggi le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore a parità di salario o l’introduzione di un salario sociale minimo e garantito per 10 euro all’ora. Proprio questa lotta, che si sta facendo strada in Italia in modi diversi, con proposte non molto lontane fra loro ma comunque non convergenti, è un varco in cui far entrare le criticità della sinistra, per elaborarle, e far uscire poi una ripresa della coscienza di classe, una ripresa della lotta di classe stessa.

La vittoria del padronato è inequivocabile: dagli anni ’70 in poi l’avanzata del capitalismo liberista è stata continua e  la sconfitta del mondo del lavoro è sotto gli occhi di tutti. I salari sono fermi, i diritti sono sempre meno, le condizioni in cui si lavora sono prive delle più elementari garanzie. Tanto in materia di sicurezza personale quanto in prospettiva, per un futuro previdenziale.

I cambiamenti strutturali del confronto ormai tri-quadripolare nel mondo (America, Europa, Cina/India e Russia/Paesi BRICS) disegnano uno scenario completamente nuovo rispetto anche soltanto a trent’anni fa. La progettazione di una nuova stagione di lotte che vada oltre i confini nazionali e continentali è, senza alcuna ombra di dubbio, un percorso molto lungo che, soprattutto oggi, si propone ad una classe degli sfruttati smarrita, divisa, parcellizzata e messa contro sé stessa ancora di più rispetto all’impiego dei livelli contrattuali.

I mutamenti del clima, le guerre e le economie imperialiste di guerra spingono il capitalismo liberista a fare i conti con la sopportabilità di uno sviluppo che sta frenando per la contrazione della domanda, per l’eccesso di scambi commerciali, per le eccedenze produttive e la ricerca di forza-lavoro a sempre minore costo.

La sinistra ha bisogno di un piano globale di analisi e di sintesi che prenda in considerazione un nuovo schema di stato-sociale adeguato ai cambiamenti epocali in essere: gli sconvolgimenti climatici – dicono le menti della destra che si mostrano in televisione – non sono colpa dell’essere umano. Sono eventi naturali e quindi non ascrivibili alla volontà nostra. Si fa avanti un negazionismo pericoloso, una tentazione revisionista che pretende far passare tutte le crisi sociali da sei lustri a questa parte come qualcosa di “naturale“, di endemicamente congenito nella “modernità” di uni sviluppismo senza freni.

Il banchiere che scappa con la cassa sulla carrozza inseguita dagli indiani si preoccupa di tenere ben stretti i “suoi” soldi, mentre a cercarlo sono le autorità federali e mentre i pellerossa, ai canti di guerra, cavalcano verso di lui e tirano frecce e schioppettate. Provate a sostituire la Legge con la rabbia popolare e gli indiani col cambiamento climatico ed avrete un liberismo che in carrozza va verso il disastro più totale. Il problema è che molti di noi preferiscono ancora stare a bordo di quella carrozza…

IL REGIME DEI PADRONI
GIORGIO CREMASCHI
EDITORI RIUNITI, 2010
€ 8,00

MARCO SFERINI

26 luglio 2023

foto: screenshot da “Tempi moderni” di Charlie Chaplin


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