La telenovela del PNRR apre una nuova stagione: quella estiva della ricollocazione della terza rata che, dovendo transitare giocoforza, entro i termini temporali della quarta rata non fa altro se non palesare tutta l’inefficienza del governo in merito alla programmazione degli interventi che si sarebbero dovuti realizzare da sei, sette mesi a questa parte.
In realtà non si tratta soltanto degli alloggi per gli studenti che non sono stati neppure messi in cantiere, ma di una logica ben più perversa che, ennesimamente, mette l’interesse pubblico e sociale in secondo piano rispetto a quello privato.
Due terzi delle risorse che erano destinate alla riqualificazione di strutture per la creazione, appunto, di nuove sistemazioni per gli universitari in trasferta, sono finite nelle mani di chi non lavora per accrescere la ricchezza nazionale anche in questo senso, ma solo per il proprio particolare interesse.
E’ la conferma di un impianto politico-economico che verte esclusivamente sul privilegiare le aziende, gli istituti e le agenzie private piuttosto che espandere quel piano di condivisione tra cittadini e servizi che dovrebbe stare a cuore di un escutivo che, oltre tutto, sbandiera l’interesse nazionale ad ogni capatina dei suoi rappresentanti in televisione e ad ogni comizio elettorale.
Si tratta di uno degli aspetti di una serie di problemi che oggi la politica ha con le risorse collettive, con i soldi pubblici e, per estensione e correlazione, con i beni comuni.
A partire non certo dal governo Meloni, ma con la sua chiara responsabilità politica in perfetta continuità con molti dei governi che lo hanno preceduto, l’impronta economica segnata dalle mosse dei partiti che hanno guidato Palazzo Chigi, è ormai consuetudinariamente abbarbicata ad un tradizionalismo liberista che risponde ad una chiara determinazione continentale e globale.
Il privato è, nella logica illiberale e invece prettamente liberista di oggi, la fonte della ricchezza di pochi che dovrebbe, per quale mai irragionevole, antiscientifica ed antieconomica ragione, far convivere interesse esclusivo ed interesse comune, pubblico e sociale
Si tratta, ovviamente, di una presunzione dettata da una narrazione neocapitalista che, con tutti i compromessi necessari per esercitare quella che un tempo era definita “l’arte di governo“, tenta di uniformare Stato e mercato e fonderli insieme, subordinando ovviamente il primo alla tutela del secondo, alla protezione anche legale, in punta di diritto, di quelli che sono i privilegi che vengono così garantiti a scapito delle ragioni delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari e di chi il lavoro se lo sogna da troppo tempo…
In questa disorganizzazione interministeriale dell’epoca meloniana, in questa incapacità a “mettere a terra” le risorse europee del PNRR, rinverdisce un filo di continuità con la prepotenza di governi che provavano a far presumere di essere lì nell’interesse nazionale, quello “esclusivo” di tutto il Paese, mentre, dopo due anni di pandemia e l’inizio della guerra imperialista tra NATO e Russia sul territorio ucraino, non trovavano di meglio da fare se non riorganizzare il disastro economico italiano dentro alla più grande matrioska europea.
La notizia buona è che la CGIL ha deciso di contrastare, insieme al progetto divisorio, ed anche questo altamente privatizzante, dell’autonomia differenziata, l’impianto complessivo della politica economica e fiscale del governo di Giorgia Meloni. Si va verso un’autunno si spera più infuocato dell’estate, ma questa volta non meteorologicamente parlando (anche se le temperature sono ormai più alte in tutti i dodici mesi e non solo nella cosiddetta “bella stagione“).
La via dello sciopero generale sembra ormai aperta, vista la guerra di classe che il governo fa ai più deboli di una società in cui il regime di sopravvivenza ha sostituito quello della sopportabilità della vita, nonostante le pastoie burocratiche, le tasse e l’aumento dell’inflazione che spinge il ministro Urso ad ipotizzare persino la calmierizzazione dei prezzi di generi di prima necessità.
Se qualcuno avesse anora dei dubbi sulla natura liberista e filopadronale di questo esecutivo, basterebbe che si rileggesse le dichiarazioni fatte da Meloni e dai suoi ministri sulle proposte di salario minimo sociale: anzitutto quella fatta dalle opposizioni (quasi unite) che poneva a nove euro all’ora la retribuzione non derogabile, seppure lorda e seppure sganciata dall’effetto inflazionistico.
La risposta della maggioranza è stata non quel «E’ sacrosanto» che Matteo Salvini aveva pronunciato quando ancora non si ritrovava al governo con tutto il coacervo delle destre nazionaliste e liberiste; bensì una diga di decisi NO messa ad argine di una proposta che nel Paese trova quel riscontro positivo che deve avere, visto che riguarda l’interesse della maggioranza della popolazione, di quei veri produttori che permettono agli imprenditori di fare i loro profitti in un sottobosco, poi, di illegalità fiscali a cui i salariati non hanno “diritto“.
La proposta del salario minimo sociale, dopo la sperimentazione del perfettibile reddito di cittadinanza, il presupposto economico, politico ed anche ideologico che di più ha sconvolto la dialettica governativa, le risposte degli esponenti dei partiti di una destra abituata a blaterare di condizioni migliori per il mondo del lavoro e della precarietà, mentre agisce nell’esatta direzione contraria.
La piattaforma di lotta che Landini e la CGIL mettono in cantiere per l’autunno è, unitamente all’azione delle piccole forze della sinistra di alternativa, come Unione Popolare, il punto di ripartenza per un campo largo del progressismo a cui il PD potrebbe avvicinarsi, condividendo la proposta di legge di iniziativa popolare proprio sul salario minimo: 10 euro all’ora lordi, ma agganciato automaticamente all’inflazione.
Fin troppo evidente è oggi una vera povertà che riguarda il lavoro stesso e che si somma alle tante altre povertà che si vivono: la povertà dei diritti sociali fa il paio con quella dei diritti umani e civili. Si rischia così un vero e proprio collasso di una comunità nazionale e di tante particolarità locali sganciate da una rete di solidarietà e di mutualismo che lo Stato dovrebbe riprendere in mano e incentivare, anche con le risorse del PNRR.
Invece, come si diceva all’inizio, queste vengono per la maggiore dirottate ai privati, anche e soprattutto nell’espletazione di servizi non secondari, ma dirimenti per lo sviluppo delle giovani generazioni, per garantire loro quel diritto allo studio che pesa già così tanto sui conti delle famiglie.
Il cambiamento climatico, molto efficacemente tradottosi in una estate veramente insostenibile, avvicina le questioni della sopportabilità ecosistemica mutata a quelle di una esistenza che unisca ambiente e lavoro in una condivisione di prospettive e di sviluppo nell’esclusivo interesse comunitario e non nel favorire progetti che hanno il solo scopo di essere nuovi incentivi per le imprese e niente di più.
La drammatica questione della disoccupazione e della precarietà è un tuttuno con i salari da fame che fanno dell’Italia un paese arretrato e sempre meno capace di innovazione, quindi di investimenti che assorbano le specializzazioni, che diano ai giovani laureati una prospettiva così come intesa dalla nostra Costituzione: una esistenza dignitosa e una qualificazione, dentro il contesto sociale, delle peculiarità per cui si sono impegnati e hanno raggiunto i massimi livelli di studio e di conoscenza.
Invece, tutto quello cui è possibile assistere è il degrado, proprio in estate, del lavoro e dei lavoratori: gli stagionali, che non così infrequentemente sono soprattutto studenti secondari o universitari, vengono impiegati per la maggior parte in nero, retribuiti con paghe da fame, fatti lavorare senza sosta per intere settimane, senza alcun diritto al riposo, alle ferie…
I diritti un tempo riconosciuti come conquiste della classe lavoratrice, oggi sono intese e fatte passare come delle specie di privilegi reclamati da chi non ha troppa voglia di impegnarsi. Per sette euro l’ora… Ed anche meno.
La condizione salariale è tornata ad essere al centro non solo della discussione politica ma, fatto ancora più importante, della presa di una rinnovata coscienza sociale, veramente di classe.
L’avanzare delle nuove povertà mette in luce tutta una serie di contraddizioni che prima erano offuscate dall’apparenza di un benessere indotto dal consumismo sfrenato e dallo slancio globalizzatore che, ora, sembra rallentare per una saturazione dell’offerta prodotta da un restringimento della domanda.
Lo scoppio della pandemia prima e quello della guerra poi hanno permesso a determinati settori industriali di fare quelli che vengono chiamati “extraprofitti“. Profitti sui profitti, profitti al di là dei profitti stessi. La tassazione su queste vere e proprie vergogne dell’accumulazione capitalistica è risibile.
Se un piano di riconversione economico-sociale deve essere predisposto, questo, oltre alla riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore a parità di salario e al salario minimo sociale, deve contenere anche la tassazione degli extraprofitti e delle grandi rendite: chi ha di più – lo dice la Carta del 1948, oltre al “Manifesto” di Marx ed Engels – deve pagare di più.
La questione salariale, dunque, sta al centro di una rimodulazione complessiva dei rapporti di forza tra le classi e non esclude tutte le altre lotte necessarie per far avanzare parimenti diritti sociali, civili, umani.
Occorre rimettere in moto una dialettica marcatamente di parte, classista nel senso più genuino del termine, per dare al moderno mondo del lavoro e della precarietà, dell’inoccupazione e della disoccupazione quegli strumenti necessari a contrastare la prepotenza padronale, l’arroganza governativa ed anche, a volte, il collaborazionismo di certi sindacati.
Se un ruolo la sinistra di alternativa e i comunisti possono avere oggi, ebbene questo non può che andare in questa semplice ma anche molto articolata e complessa direzione.
MARCO SFERINI
21 luglio 2023
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