A Vilnius ha preso avvio ieri un vertice Nato tra i più importanti, ed enigmatici, degli ultimi anni. A seguito dell’invasione russa in Ucraina del febbraio 2022 l’Alleanza sembrerebbe oggi in piena salute e sicuramente lontana da una routine sterile. E poco determinante, la stessa che portò il presidente francese Macron a definirla in «stato di morte cerebrale» meno di quattro anni fa. Ma una serie di elementi smentisce questa lettura poco attenta.
Il primo indizio di una situazione di acque turbolente sotto una superficie calma è chiaramente la decisione di allungare il mandato, naturalmente in scadenza, del segretario Jens Stoltenberg per mancanza di accordo sul nome del successore. Evento non consueto per una organizzazione come l’Alleanza Atlantica abituata a ricambi regolari e senza scossoni.
Negli ultimi giorni altro elemento di tensione si è avuto a causa della fornitura all’Ucraina di munizioni a grappolo statunitensi, con le poco usuali prese di posizione critiche (anche molto esplicite) di tanti Governi dell’Alleanza, quasi tutti aderenti alla Convenzione internazionale che proibisce questo tipo di armi inumane. E poi il dilemma sull’adesione dell’Ucraina, con gli stessi Usa titubanti ma Zelenskyj e molti «falchi» nei Paesi membri in continua pressione.
Senza dimenticare il tira e molla con Erdogan sull’ammissione della Svezia (un colpo duro per tutti quelli che hanno sempre apprezzato le posizioni di neutralità politica proattiva), pare risolto solo in extremis grazie ad una contrattazione tra Ankara e Washington che ha coinvolto la fornitura dei caccia F-16 e l’appoggio all’entrata nell’Unione europea.
La vera sconfitta di tutta questa dinamica, con un processo di erosione delle proprie prospettive di trasformazione in attore politico (e di difesa) internazionale iniziato con il Concetto Strategico Nato approvato l’anno scorso a Madrid e conclusosi con le decisioni di riarmo forzato che sanno sempre più avvantaggiando l’industria militare statunitense. Una questione su cui sarà opportuno ritornare a ragionare.
Proprio l’aumento delle spese militari sembra essere l’unico aspetto su cui è presumibile una convergenza non solo di dichiarazioni ma anche di decisioni conseguenti. È risaputo come il tema del raggiungimento della soglia del 2% rispetto al Pil sia sul tavolo da tempo, con una prima dichiarazione in tal senso definita nel 2009 da una riunione dei ministri della Difesa e la conferma nel Summit ai capi di Stato e di governo del 2014 in Galles, dopo l’invasione della Crimea. Il trend verso quella che, diversamente dall’obbligo che viene spesso millantato, la stessa Nato considera una “guideline” non era stato però preso davvero sul serio e realizzato prima dell’inizio del conflitto in Ucraina del 2022.
Le stime dell’Alleanza per il 2023 sono in tal senso significative: la Polonia con il 3,9% ha superato gli Usa (3,5%) al vertice di questa classifica, con poi Grecia, Estonia, Lituania, la neo entrata Finlandia, Romania, Ungheria, Lettonia, Regno Unito e Slovacchia sopra il 2%. Tutti gli altri sono sotto: dalla Francia all’1,9% alla Germania all’1,57% all’Italia con l’1,46% previsionale.
Ma sono i valori assoluti a dare l’idea di quanto sia stata forte l’accelerazione: l’Alleanza Atlantica proietta sul 2023 un aumento annuo percentuale dell’8,3% per un totale a valori correnti di circa 1.260 miliardi di dollari (a valori costanti comparabili l’aumento netto in 10 anni è stato di circa 200 miliardi). La comparazione possibile sul 2022 grazie ai dati Sipri è chiara: la Nato (con 1.232 miliardi) spende 14 volte più della Russia (87 miliardi) e oltre 4 più della Cina (292 miliardi): come si può giustificare un ulteriore apertura della forbice (che accumulando gli anni diventa ancora più marcata) evocando come minaccia chi è chiaramente sovrastato in spesa militare?
Senza peraltro che ci sia un miglioramento globale: nonostante un quasi raddoppio della spesa militare globale in questo secolo secondo il Global Peace Index negli ultimi 15 anni il mondo è diventato meno pacifico, con un aumento dei conflitti del 14% e un crollo del tasso di sicurezza del 5,4%.
Su tutti questi aspetti problematici rimane il silenzio di gran parte della politica, anche progressista, sui due lati dell’Atlantico. Incapace di pensare a possibili scenari alternativi rispetto a quello che sembra ormai essere davvero un sistema di guerra (o quantomeno un sistema militarizzato) nonostante la gran mole di problemi globali che il mondo sta affrontando. Tutti chiaramente non risolvibili con le armi.
Per questo è ancora più cruciale il ruolo della società civile, e non a caso proprio in concomitanza con il Vertice Nato la Campagna Sbilanciamoci, Greenpeace Italia e la Rete Italiana Pace e Disarmo hanno deciso di rilanciare una serie di richieste incentrate sullo spostamento delle risorse attualmente destinate all’ambito militare verso impieghi di natura civile più urgenti, utili ed efficaci. In collegamento con la Global Peace Dividend Initiative promossa da decine di Premi Nobel e con la Campagna Globale contro le spese militari.
FRANCESCO VIGNARCA
Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace Disarmo
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