Nel corso degli ultimi trentacinque anni ho visto sulle copertine delle riviste, su quelle dei quotidiani e poi su Internet decine, centinaia di fotografie di bambini brutalmente devastati dalle bombe di quelle grandi potenze mondiali che si fanno chiamare i “Grandi 20“, i “Grandi 8” e che sono per lo più nazioni in spietata concorrenza imperialista fra loro.
Sulla pelle della povera gente, di quei popoli costretti a schierarsi con fanatici nazionalismi, spietati autoritarismi o finte democrazie che si richiamano ad un liberalismo ormai ampiamente superato dalla logica neoliberista a tutto tondo.
Non ho potuto, per ragioni squisitamente anagrafiche, aprire i giornali dell’epoca che parlavano quotidianamente della sporca guerra del Vietnam. Ma le foto dei massacri perpetrati con il napalm sono ovunque in rete e sono disponibili in tanti luoghi della memoria, del ricordo di un conflitto in cui, sulla contrapposizione tra “mondo comunista” e “mondo libero” si è giocata la contesa globale già prima che il capitalismo prendesse la sua strada iperbolica, si totalizzasse ovunque e diventasse l’unico orizzonte immaginabile dell’umanità.
Poi la guerra Iran-Iraq: dieci anni di altri massacri, di contrapposizioni etniche, politiche, religiose, con quest’ultimo elemento ancora in disparte rispetto alla preminenza di un ruolo egemone del laicismo del partito Baath da un lato, sul fronte di Baghdad, e della invece crescente radicalizzazione islamica nella repubblica fondata da Khomeini e dalla sua rivoluzione. Poi tante guerre locali: da quelle per la liberazione dal colonialismo in Africa a quelle per la reale indipendenza degli Stati americani del sud dall’opprimente presenza di Washington.
Non c’è stato un giorno, se ci penso bene, nella mia vita in cui non abbia sentito parlare di guerra. Strutturale, congenita al potere, protesi della politica, anche quando riesce ad arrivare ai suoi scopi, per oltrepassarli e creare i presupposti di un dominio ancora maggiore nella gara planetaria fatta di concorrenza e concorrenza, di profitti che ne conseguono, di egemonia militare, economica e finanziaria se non su tutto il pianeta, almeno su nuove vaste aree modernamente colonizzate.
Le guerre nel Golfo persico fecero fare un salto di qualità all’orrore bellico: comperavo “il manifesto” e vedevo foto di ragazzi che, invece di giocare tra i ruderi delle case del deserto, si trascinavano con stampelline, senza una o due gambe. Alcuni senza un occhio, altri senza un braccio. Altri con la pelle talmente arsa dal fosforo bianco da non sembrare nemmeno più umani. Erano gli “effetti collaterali” del conflitto, della risposta americana all’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein.
Lui le armi chimiche le aveva usate contro i curdi e, per questo, diventerà – almeno per i mass media occidentali – l’unico criminale contro l’umanità, mentre il fosforo bianco statunitense sarà elevato al grado di “necessità” bellica, di punta delle baionette antiche su cui si portavano, già allora, gli allori della libertà tra le nazioni, di fraternità tra i popoli. A metà degli anni ’90 del secolo scorso come nel ‘700 e nell’ ‘800, i passaggi delle truppe “liberatrici” si lasciavano dietro i saccheggi, gli stupri di migliaia di donne e una devastazione irriconoscibile da quella che già c’era.
La lunga fase della guerra al terrorismo qaedista ha consolidato il principio dell'”esportazione della democrazia“, assegnando sempre e soltanto all’Occidente il ruolo di etico gendarme del mondo, di soldato che fa il suo dovere nel nome della convivenza tra le genti, nel reciproco rispetto del diritto nazionale ed internazionale.
Nessun altro interesse. Salvo quello di occupare intere regioni dove giacimenti di petrolio e di gas non aspettavano altro che di passare da un padrone indipendente e sovrano ad un colonizzatore americano.
Il terrorismo era una minaccia aperta sul mondo, ma il suo avversario non era migliore quando mostrava tutta la brutalità con cui agiva: l’aviazione dei novelli paesi alleati sorvolava il deserto dell’Iraq prima, della Somalia e dell’Afghanistan poi lanciando attacchi aerei che facevano ben più di preparare il terreno alla fanteria che sarebbe arrivata: radevano al suolo intere città e villaggi.
Là nella vecchia Mezzaluna fertile, culla delle civiltà; là nella miseria e nella piatta, solitaria, silenziosa pianura desertica che parlava ai liberatori di fame, miseria, degrado e, con l’arrivo dalle guerra, di una miriade di cadaveri sepolti o rimasti a fermentare sopra la gentilezza apparente della sabbia, la morte delle tirannie era anche la sconfitta delle democrazie liberali.
Quando scoppiò il conflitto balcanico, i ponti di Belgrado saltavano sotto l’impatto delle bombe degli aerei della NATO, la gente moriva per le ferite riportate nelle lotte interetniche di un paese dissoltosi come neve al sole dopo la morte di Tito, così come per le bombe di quell’alleanza occidentale che, anche in questo caso, e col supporto italiano, dovevano riportare un equilibrio umano, civile e sociale nella ex Jugoslavia.
Nelle guerre in Cecenia, poi in quelle civili in Africa, dalla Libia ai paesi subsahariani, passando per i tanti conflitti interstatali nel Medio Oriente, dall’apartheid israeliano nei confronti del popolo palestinese al massacro siriano nella lunga parentesi di follia del DAESH, il fosforo bianco, le bombe a grappolo e ogni altra sorta di macchina omicidiaria di massa ha fatto il suo ingresso nella triste storia dei popoli balcanici (perché dire europei sarebbe estendere un po’ troppo il raggio di azione di questi ordigni…), mediorientali, asiatici e africani.
Da “Pappagalli verdi” in avanti, Gino Strada non ha fatto altro, con tutta Emergency, insieme a molte altre associazioni umanitarie, mediche e di volontariato sociale e civile, se non denunciare l’utilizzo di vere e proprie armi improprie (ammesso che ne esistano che si possano definire “proprie” e quindi con una legittimità tale da stare nel contesto di una altrettanto legittimità del “fare la guerra“): come le mine anti-uomo, le PFM-1, quelle che gli afghani chiamavano, proprio dal loro colore e per la loro forma, “pappagalli verdi“. Ci sono saltati sopra migliaia di ragazzini che le hanno scambiate per giocattoli.
Ma questo per le grandi potenze mondiali, Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, era sempre e soltanto un cinico, barbaro, incalcolabile effetto collaterale. Qualcosa che veniva messo in conto ma che non si poteva prevedere. Come se i morti civili fossero degli accidenti che capitano tra le marce forzate delle truppe che avanzano, tra i droni moderni che sorvolano gli edifici e i fronti, tra carri armati e batterie di missili che lanciano, sprizzanti di luce accecante nei cieli, missili di lunghissimo raggio.
I palestinesi conoscono tutto questo orrore. Così come lo conoscono i serbi e i bosniaci. Così come lo conoscono gli afghani e i somali, gli iracheni e gli iraniani, i siriani, i libanesi e i curdi. Noi popoli europei possiamo solamente immaginare questa sofferenza, provare a tastarla mentalmente attraverso, foto, video e testimonianza agghiaccianti del dolore, degli stermini e delle ferite che, nonostante siano cicatrizzate, rimangono dentro l’animo sempre più oscuro di intere generazioni che sono passate soltanto attraverso dei conflitti armati.
Il popolo del Donbass dal 2014 e quello ucraino dal 2022 hanno sperimentato e sperimentano cosa significhi essere dentro i gangli perversi della guerra moderna: non la fanno le macchine, distruggendosi tra loro e determinando, in una sorta di Risiko reale, quante truppe corazzate restano ad uno o all’altro giocatore. La fanno sempre gli esseri umani e la subiscono tutti gli altri esseri viventi.
La fanno i grandi interessi imperialisti tradotti dai governi nazionali in interessi “del popolo“, quand’anche pure estesi al mondo intero. La fanno ingannando, mentendo, stabilendo una narrazione che risponde – come sempre – ad una dualità dialettica cui si deve obbedire: aggressore e aggredito, cattivo e buono, mondo tirannico contro mondo libero.
Ma il nostro Occidente, la NATO, gli Stati Uniti d’America sono la caricatura della libertà e non hanno nessun diritto, soprattutto oggi, guardando alla storia da cui provengono, di dirsi paladini della democrazia, ma solo difensori di un determinato interesse privato fatto di tanti interessi altrettanto privati che, confliggendo con quelli di agglomerati economico-finanziari delle altre potenze mondiali (Russia e Cina anzitutto), avanzano nelle zone di tangenza laddove gli opposti imperialismi arrivano.
Il confine tra Unione Europea e Russia è una di queste linee di demarcazione. L’Ucraina è un ibridatura: storicamente orientale, politicamente occidentale, ed è il giusto terreno su cui Putin, Stoltenberg e Biden hanno deciso di confrontarsi per tentare nuove espansioni: verso ovest l’uno e verso est gli altri. L’ormai celebre assioma dell’allargamento dell’Alleanza atlantica verso lo spazio egemonico di Mosca non può essere trattato come una conseguenza della guerra in Ucraina. Semmai ne uno dei motivi principali.
Ma questo, a parte che da papa Francesco che tenta una visione obiettiva degli eventi fondata su una equidistanza che si ispira ai principi pacifici e pacifisti della fede cristiana, viene negato come elemento dirimente del conflitto da un po’ tutti i governi, obbedienti alla linea riarmista e bellicista della NATO, nonché – ovvio – dalle grandi testate giornalistiche che ripetono il refrain ufficiale delle ragioni dell’invio di armi, addestratori e soldi ad una Ucraina in cui la questione dei diritti umani e civili non è meno grave rispetto alla Russia.
Le bombe a grappolo che si citavano all’inizio, protagoniste di quasi tutti i moderni conflitti sparsi per il mondo, sono state bandite da oltre un centinaio di paesi. Tranne, guardate il caso…, Israele, Cina, Stati Uniti, Russia e Ucraina. Queste testate contengono delle “submunizioni” che vengono sparse nell’aria appena prima dell’impatto: a seconda delle tipologie, possono esplodere prima di toccare terra, una volta sul terreno o rimanere inesplose e diventare delle vere e proprie trappole anti-uomo.
Gli esperti di armamenti le descrivono per quello che, in effetti, sono: degli ordini a largo raggio di azione, capaci di perforare persino la corazza dei carri armati e di fare grandi stragi una volta lanciate sull’obiettivo. Joe Biden le sta per inviare all’Ucraina, affinché le utilizzi là dove la controffensiva di Zelens’kyj sta incontrando gravi difficoltà per stagnazione del fronte, per approvvigionamenti di munizioni, per risposta agli attacchi russi.
Si tratta – eccolo qui ennesimamente pronto e servito – di un nuovo, tragico, cinico, spietato salto di qualità del conflitto che porterà la Russia ad una risposta uguale e contraria nel “migliore” (molto tra virgolette) dei casi, ad una esponenzializzazione dell’offensiva di Mosca nel peggiore di questi casi… L’allarme del premio nobel per la fisica Parisi, che paventa la probabilità alta di un ricorso alla guerra atomica, è significativo del livello di allarme cui siamo giunti e su cui sembriamo indugiare.
Dice il professore: «La crisi di Cuba è stata risolta con un accordo che andava al di là di Cuba. L’unico modo per risolvere la crisi ucraina è con un accordo che vada al di là dell’Ucraina, per esempio dare alla Russia garanzia di zone demilitarizzate in Europa. Se si cerca di fare un accordo discutendo solo in Ucraina è difficile uscirne, mentre se si allarga il campo, come fatto con la crisi di Cuba, si possono risolvere le cose». Siamo perfettamente d’accordo con lui, perché questa è una strada che porta alla pace.
Quanto potrà essere duratura dipenderà dall’impegno che tutte e tutti metteremo nel trasformare questa società, nel farle superare un giorno il sistema capitalista, il liberismo e l’imperialismo che la connaturano e che le sono nel DNA. Intanto, però, facciamo tacere le armi e se pensiamo ai pappagalli verdi, sinceramente il primo che ci viene in mente è Portobello. Quello di una tv che proprio non c’è più. Ma questa è un’altra storia…
MARCO SFERINI
9 luglio 2023
Foto di Werlley Meira da Pexels