Mentre la grande crisi economica postbellica mostrava tutti i segni evidenti di una recessione un po’ ante litteram rispetto ai tempi moderni in cui siamo abituati a declinare questo concetto, la politica nazionale degli Stati europei nella prima metà della metà del Novecento si scopriva alle prese con una difficile mediazione nei confronti delle forze estreme. Soprattutto quelle di estrema destra.
Il nazionalismo, in Italia, in Germania, in Austria ed anche in paesi di nuovissima formazione, come la Cecoslovacchia o la Polonia (seppure con una lunga storia alle spalle) assumeva i connotati di un ritorno sulla scena di rigurgiti etnici, fortemente xenofobi in alcuni casi, rivolti con lo sguardo comunque all’indietro, ad eroiche gesta di tempi passati: dalla Roma imperiale dei Cesari per Mussolini, alle gesta di Arminio ed alla mitologia germanica per Hitler sublimata, nemmeno a dirlo, dalla grandiosità delle note wagneriane.
Ciò che ha un po’ sempre incuriosito gli storici e i commentatori è il campo libero che ebbero queste forze fasciste, naziste, populiste e conservatrici al tempo stesso, per potersi fare largo tra un tradizionalismo che, nel bene o nel male, non aveva connotazioni smaccatamente vincolate ad una ideologia intollerante, repressiva, aggressiva e violenta. Il liberalismo di allora, acerrimo nemico del bolscevismo, provava ad instaurare nella Germania di Weimar una sorta di democrazia plurale, nonostante l’occupazione dei territori tedeschi, l’inflazione alle stelle e la disoccupazione crescente.
Il baricentro economico è dirimente nella descrizione e nel racconto della storia di una influenza direttissima tra struttura e sovrastruttura. La crisi sociale dei primi anni ’20 del Novecento ha in qualche modo accelerato le contraddizioni che stavano sedimentando da tempo in seno ai grandi imperi centrali, nonché fin dentro gli ambiti più reconditi di quello ottomano.
Situazione più complicata quella della Turchia che, almeno dentro il suo cuore anatolico, era invulnerabile alle spinte separatiste, ma ai bordi della grande costruzione di Solimano era fragile e preda degli appetiti della potenze occidentali e d’oltreoceano.
In ognuno di questi grandi contenitori di popoli e di storie millenarie, Germania, Austria, Turchia (per non parlare della Russia che ebbe, va riconosciuto, un seguito molto, molto diverso dagli imperi che le erano stati simili e a cui aveva essa stessa somigliato fino al principio della Grande guerra), le lotte indipendentiste si erano palesate fin dalla prima metà dell’800 con le rivolte, per l’appunto, liberali che chiedevano autodeterminazione, costituzioni parlamentari, riconoscimenti di autonomie e rispetto delle minoranze.
Il ruolo egemone della Prussia, emerso con Federico il Grande, è paragonabile a quello concorrente dell’Austria di Maria Teresa, mentre la Turchia decadente e sconfitta per terra e per mare, iniziava a vedersi palesare il grande dilemma balcanico.
Ma quello che ci interessa è qui rilevare il primordiale nesso tra bisogno democratico unitamente a quella necessità di indipendenza dei singoli popoli da troppo tempo assoggettati da poteri che avevano ignorato le peculiarità sociali, culturali, etiche e civili di intere grandi comunità e che, a fine ‘800 erano divenute il cardine su cui far ruotare l’interezza e l’interdipendenza delle lotte cosiddette “nazionali“.
Il liberalismo, almeno fino alla Prima guerra mondiale, è, diversamente dal socialismo che avanza come opposizione ad ogni modello di declinazione del capitalismo nella società tutta, il modello politico – costituzionale prevalente: la libertà di impresa viene accomunata ad una libertà politica che è, del resto, ben lontana dal potersi definire compiutamente come “democrazia“.
Vale per la Germania guglielmina, per l’Italia sabauda, per l’Austria asburgica e per la Turchia dei padiscià. Molto più difficile un parallelo tra il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e il resto di una Europa che, attraversata da un conflitto mai visto sulla scena della storia mondiale, evidenzia ancora di più tutte le differenze che vi sono con una monarchia a cui è riconosciuta dal Parlamento l’autorità di regnare ma non di governare.
Un “unicum” nella storia dei regni del Vecchio continente: soltanto la Francia, che zigzagga tra tentativi neorepubblicani e nuovi principati e imperi, pone dei limiti al potere del sovrano, retaggio della Rivoluzione, al pari di quella inglese del ‘600. Impossibile, certo, fare una sorta di confronto alla pari tra Cromwell e Robespierre, tra Ireton e Danton, tra Fairfax e Marat. Non hanno nulla in comune sul piano sociale, politico e vivono davvero in due contesti di ribellione all’assolutismo del tutto diversi.
Tuttavia, solo le nazioni che hanno anticipato il liberismo borghese con rivolte che avevano avuto un carattere di massa, assolutamente “nazionale” e che avevano reso protagonista il popolo di tutto ciò, nella sua saldatura alla manifattura di allora, espressione primitiva di quell’imprenditoria che sarebbe sorta di lì a poco dalle ceneri della pure fiorente civiltà medievale (troppe volte giudicata pregiudizialmente come sinonimo di mera regressione…), sono state le sole a mostrare alle nazioni risorte o unificate a fine ‘800 la via per un consolidamento del potere che contemplasse un compromesso tra corone e classi sociali emergenti.
Inghilterra e Francia, dunque, possono dire di essere le grandi protagoniste in Europa di una tradizione molto più democratica di quei tentativi fatti da regimi dove la libertà consisteva solamente nell’essere un possidente, nell’avere quindi la garanzia economica di poter esprimere tutto ciò che era permesso dire, fare, sembrare ed essere.
Nella Germania di Weimar e nell’Italia del giolittismo il liberalismo è imperfetto. Si potrebbe definirlo una sorta di tentativo approssimativo di garantire alla maggior parte della popolazione dei diritti che, tuttavia, erano negati proprio a chi rappresentava la maggioranza dei produttori, la grande forza-lavoro comperata dai capitalisti e utilizzata per generare profitti sempre più ingenti.
La crisi postbellica mise in chiaro tutto questo: la fragilità delle presunte democrazie germaniche e italiane (nonché di quella austriaca) risiedeva tutta quanta nella mancanza di una enormità di antefatti storici che non avevano tracciato la fisionomia caratteriale e sociale di una nazione, ma solo messo insieme una serie di comunità locali spesso in lotta fra loro e, per secoli, divise da frontiere e dogane.
Oggi il liberalismo non riesce a farsi spazio tra quel liberismo che è la nuova connotazione sistemica di una politica aggressiva verso le classi sociali più deboli e disagiate, mentre una politica quantomeno socialdemocratica e progressista è messa da parte da un regime padronale che preferisce esacerbare le contraddizioni e creare un substrato di nuovi sottoproletari che si fanno la guerra fra loro e, quindi, indeboliscono la lotta sociale, sindacale, civile ed umana per una avanzata dei diritti che, in questo modo, languono e deperiscono.
Ancora una volta la storia si ripete, e non si sa bene se siamo in presenza di nuove tragedie o se stiamo ancora assistendo al riflusso farsesco dal secondo dopoguerra fino ad oggi. Per essere più direttamente chiari: in Italia le destre hanno preso un sopravvento che è supportato da numeri ancora contenuti e che, pur tuttavia, permette loro di governare il Paese, di cambiare addirittura la Costituzione (con qualche manovra rivolta verso l’ondivago centro liberista), di gestire un capovolgimento culturale a cominciare dall’occupazione sistematica della RAI.
Quello che diventa sempre più manifestamente evidente, tanto in Italia quanto in Germania, ed anche nei paesi di Visegrad, è la riproposizione di un modello alleantista tra estrema destra populista e conservatrice (quella che nei lander di Weimar veniva a galla come “movimento völkisch“) con un centro politico oggi caratterizzato dalla ferocia liberista.
La Spagna, altra nazione passata per le forche caudine del fascismo, soprattutto dopo la crisi del governo Sánchez, non fa che metterci sotto gli occhi il pericolo di un riposizionamento degli schemi, di una proposta politica che, giorno dopo giorno, diventa sempre più europea in quanto a dimensioni espansive, pur rimanendo singolarmente nazionale e agganciata agli interessi delle classi dirigenti dei singoli paesi.
Anche se Giorgia Meloni, obbedendo oltre che ad un’etichetta istituzionale anche ad una precisa convinzione sull’opportunità di certe alleanze in questa fase di governo dell’Italia da parte, fondamentalmente, del suo partito e del suo apparato di potere, lascia alla Lega l’interlocuzione con i partiti più retrivamente conservatori di Ungheria e Polonia (anche questi alla guida dei rispettivi governi di Varsavia e Budapest), rimane comunque la leader della principale aggregazione reazionaria dell’Europarlamento: l’ European Conservatives and Reformists Party.
I dati elettorali parlano abbastanza chiaro, ed i sondaggi anche: in Italia e in Spagna, se centro e destra vogliono fare delle controriforme che abbattano tutta una visione della società e una pratica applicazione di valori ed ideali conseguenti, facenti riferimento esattamente ai modelli costituzionali nati dopo le cadute dei rispettivi fascismi, devono allearsi e devono farlo mostrando alla gente l’opportunità di un cambiamento in senso securitario, xenofobo, razzista, omofobo, fortemente legato ad una tradizione cattolica dai contorni clericaleggianti e vandeani.
La reciprocità tra attacco al mondo del lavoro e attacco ai diritti civili ed umani è, sotto questo punto di vista, il programma perfetto per una ricollocazione del centro nella geopolitica della rappresentanza del conservatorismo moderato e della destra in quella del nazionalismo più becero. Militaristicamente atlantico in Italia e Spagna, diversamente in Germania, ad esempio, dove Alternative für Deutschland è fieramente anti-NATO.
Ma le differenze tra i partiti nazionalisti, post o neofascisti che siano (si tratta in fondo di differenze di poco conto se si vanno a vedere le reali intenzioni di queste forze politiche) sono piccolezze davanti a un possibile disegno di interconnessione tra una nuova internazionale nera e il grande capitale finanziario e bancario.
Non siamo affatto nel mondo distopico di una Europa che si presagisce possa ritornare ad essere il centro di sviluppo di una ennesima ondata di repressione politica, antisociale e incivile, immorale e disumana: ci troviamo ad analizzare – se vogliamo – delle circostanze simili che iniziano a disegnare i contorni di una prospettiva tutt’altro che rassicurante.
Vox e il Partito popolare in Spagna si sono alleati, dopo le amministrative, in quasi duecento realtà comunali. Governano gran parte delle comunità locali e proiettano la loro ombra su una Francia che, solcata da una rivolta popolare che, pur essendo frutto anche di una esasperazione classista, è solcata da animosità ingestibili, da rabbie intersezionali che mettono insieme questione sociale e questione civile senza riuscire a trovare una sponda politica precisa.
La destra, anche in Francia, cavalca questa onda anomala e lo fa nel nome della “sostituzione etnica“, del razzismo conclamato di certi partiti che esibiscono senza più alcuna remora il loro evidente tratto xenofobo ed omofobo. L’Europa intera versa in una condizione di regressione civile, perché la crisi economica e la guerra, dopo il biennio pandemico, hanno generato milioni e milioni di ultrapoveri che si affidano oggi alle ricette più deflagranti di una destra capace di dialogare col centro.
Allo stesso tempo, il liberalismo di un centro che dovrebbe invece essere democratico si va a sostituire ancora una volta alla condivisione dei dogmi liberisti. La commistione simbiotica tra forze economiche dominanti e potere politico conservatore è così fatta. Lo Stato forte delle destre ritorna, perfettamente modernizzato, come migliore garanzia per un’economia traballante e che ha bisogno di un pubblico supino, prono e condiscendente il privato in tutto e per tutto.
Quando Meloni e alleati parlano di “interessi nazionali“, intendono solamente gli interessi della classe imprenditoriale e finanziaria dominante. Non gli interessi della povera gente, delle lavoratrici e dei lavoratori. Ciò che il governo si appresta a fare proprio al mondo del lavoro è la cartina di tornasole di una politica antisociale che viene spacciata come il migliore risultato di una Italia “che cresce“…
A crescere sono soltanto i profitti. Non i salari e nemmeno le pensioni. A crescere è la precarietà e non la contrattualità nazionale unica per categorie. A crescere è la diseguaglianza sociale e non i diritti tutti insieme, così come vorrebbe la Costituzione. A crescere è l’instabilità di un sistema Italia che viene privato delle sue potenzialità e viene regalato ancora al privato, alla logica del profitto, a quella dell’accumulazione che priva le strutture fondamentali di tutela della salute, la scuola, le amministrazioni di un sostegno da parte dello Stato che dovrebbe essere dato con il contributo fiscale di tutte e tutti.
Le destre, in Europa, paese per paese, lavorano ad una convergenza inquietante. Sarebbe bene non stare a guardare troppo a lungo e unire le forze democratiche ed antifasciste per fermare quella progressione catastrofica che abbiamo (o avremmo dovuto) imparare dalla lezione della Storia novecentesca. Scolari ce ne sono?
MARCO SFERINI
4 luglio 2023
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