Ieri, la «marcia della giustizia» dell’imprenditore della violenza Evgenij Prigozhin ha marcato un giorno decisivo nella storia della Russia contemporanea, apparentemente conclusosi senza tragedie ma destinato a segnare ancora a lungo gli sviluppi del grande paese. Nella notte di giovedì, l’oligarca ribelle ha raggruppato le sue forze dimostrando di voler fare sul serio nei confronti dei «traditori» a capo del Ministero della Difesa responsabili degli attacchi denunciati contro i suoi mercenari della compagnia Wagner.
Le prime scoordinate reazioni dal lato del Cremlino hanno dimostrato come il regime di Putin sia stato colto alla sprovvista dalle mosse di Prigozhin. In particolare, mentre Prigozhin si rivolgeva ai militari, Mosca è parsa esitante sulla fedeltà delle forze di sicurezza di fronte alla sfida. È sembrato che un certo panico serpeggiasse dentro la “verticale del potere” (la catena di comando piramidale facente capo a Putin), in particolare ai livelli intermedi, incerti su cosa e come riferire gli sviluppi sul campo al leader supremo, riflesso di un problema da sempre endemico alla macchina burocratica russa.
In ogni caso, a Mosca scatta lo stato d’emergenza. Posti di blocco vengono allestiti dalle varie branche dell’apparato di sicurezza russo, in particolare l’Fsb (ex Kgb) e la recente Rosgvardija (Guardia nazionale), creata da Putin quale reparto pretoriano a puntello del regime. All’alba, i blindati cominciano a circondare i palazzi del potere a Mosca e a San Pietroburgo.
Iniziano anche i tentativi per far desistere Prigozhin. Il primo viene dal generale Surovikin, a lungo considerato un sodale del capo popolo ribelle, che lo esorta a «fermare le colonne».
Impassibile, alle 7.30 locali Prigozhin parla da Rostov. Quale un novello Pugaciov, il capo della rivolta cosacca narrata da Pushkin che nel 1773 fu sul punto di rovesciare Caterina la grande, si erge a padrone della principale città del sud della Russia e rinnova gli anatemi contro il Ministero della Difesa. «Le perdite sono state 3-4 volte maggiori di quello dichiarato da Mosca, fino a 1.000 caduti al giorno… Ci arrivano messaggi di sostegno dalle truppe, ci incitano a regolare i conti a fargliela finalmente pagare, a chi ci ha mandato al massacro».
Le notizie si susseguono convulse. Fonti vicine alla Wagner riferiscono che Millerovo, importante snodo logistico a Nord di Donetsk e a ridosso del fronte risulta in mano ai ribelli, a cui si arrendono 180 soldati a Bugaevka, nella regione di Voronez.
Mentre Putin continua a tacere, i principali nemici di Prigozhin, il capo della Difesa Shoigu e dello Stato Maggiore Gerasimov, inviano i loro vice a trattare con il dissidente. Spicca in particolare la figura del generale Junus-Bek Evkurov, l’eroe della marcia su Prishtina del 1999, il quale però può solo registrare la determinazione di Prigozhin a «far giustizia e mettere fine a questa vergogna».
Alle 12.00 italiane, infine, Putin rompe gli indugi. Il leader sfidato sgombra il campo da tutte le ambiguità, in particolare quelle che alludevano ad un coordinamento delle azioni di Prigozhin con il Cremlino, allo scopo di purgare l’apparato di Stato di elementi divenuti scomodi. Putin riconosce tutta la gravità del momento per una Russia improvvisamente sull’orlo di un caos comparabile a quello della guerra civile scaturita dall’Ottobre del 1917.
Come allora secondo Putin, giunti alla soglia della vittoria in guerra la Russia può perdere tutto e sprofondare nel sangue. Il paragone è decisamente calzante. Come in quei giorni convulsi, il vacillante capo supremo della Russia parla di una «minaccia mortale per il nostro Stato» e, sempre senza pronunciare il nome di Prigozhin, si appella ai militari affinché rifiutino di unirsi ad ogni azione eversiva.
In effetti nel pomeriggio le nubi che si addensano sulla Russia sono le più cupe. Da una parte continuano a segnalarsi movimenti riferibili alla Wagner in direzione di Mosca, con relativi primi scontri, fra cui si segnala in particolare l’abbattimento di un elicottero dell’esercito.
La Wagner dichiara di aver subito perdite per un attacco a nord di Voronezh. Dall’altra vengono annunciati movimenti di unità cecene verso Rostov, città nei fatti divisa fra i pro-Wagner e le unità fedeli a Mosca. Le prove tecniche per una guerra civile assumono contorni sempre più realistici con la formazione di gruppi a livello locale pronti ad unirsi alla ribellione o a rispondere all’appello di Putin.
Ma a quel punto avviene un colpo di scena: il governo bielorusso comunica che Aleksander Lukashenko è stato incaricato da Putin di mediare un compromesso con Prigozhin. Poco dopo il leader bielorusso annuncia che un accordo per fermare la marcia della Wagner è stato raggiunto. Dal suo canto Prigozhin spiega che la marcia è stata una necessaria protesta verso chi voleva sciogliere la Wagner e che ha ottenuto il suo scopo.
Di fronte alla possibilità di spargimenti fratricidi del sangue russo, la Wagner torna nei campi base, «secondo i piani». Queste parole annunciano un nuovo paradosso della politica russa, in cui gruppi golpisti otterranno immunità penale assieme al loro leader.
Così, al momento di chiudere queste righe, il giorno più lungo della Russia di Putin sembra chiudersi in modo incruento. Per ora, dato che dopo quanto successo il 24 giugno la figura di Prigozhin sarà ancora più ingombrante da gestire all’interno della politica russa.
FABRIZIO VIELMINI
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