Assedio, saga di eroi e (molti) traditori

Federico da Montefeltro fece un capolavoro con l’assedio di Volterra nel 1472 per conto di Firenze. È una sfida alla normalità perché vengono stressati tutti gli elementi percettivi, da quelli fisici (soffrire la fame, la sete e il freddo) a quelli psicologici (convivere con la paura, la violenza)
L'assedio di Costantinopoli, 1453

La prima cosa che gli abitanti di Sarajevo chiedevano agli osservatori stranieri, quando nell’aprile del 1992 cominciò l’assedio di quella città, era sempre la stessa: «Ma come ci percepite? Ci stiamo comportando come gente normale o abbiamo perso ogni caratteristica di normalità?».

Perché l’assedio – ogni assedio, da Troia a Kobanê – è sostanzialmente questo: una sfida alla normalità, una sorta di elettrocardiogramma sotto sforzo, perché vengono stressati tutti gli elementi percettivi, da quelli fisici (soffrire la fame, la sete e il freddo) a quelli psicologici (convivere con la paura, la violenza, la depressione, con l’alterazione del senso di realtà, con il sospetto verso tutto e verso tutti, con la vita che rovescia ogni consueto canone e ritmo). Un assedio è la forma di guerra più devastante che si possa immaginare perché coinvolge le unità che si combattono e tutt’intera una comunità, senza distinzione di sesso, di età, di condizione sociale.

Un assedio è bene che sia riflettuto prima di essere posto. Machiavelli lo sconsiglia sempre (ma lo aveva già detto anche Sun Tzu, fra il VI e il V secolo a.C.) perché la quantità di algoritmi ai quali ci si deve attenere è di difficile gestione.

Un assedio deve durare poco, perché i costi sono altissimi e chi lo paga sa quando comincia, ma non quando finisce, né come finisce, se da vincitore o da sconfitto. I turchi a Vienna nel 1683, quando si trovano alle spalle l’esercito della confederazione polacco-lituana comandata da Giovanni III Sobieski, scappano lasciando sotto le mura assediate armi e salmerie (e sacchi di caffè: che a Vienna conoscano il caffè da questo momento è, però, una leggenda metropolitana; esattamente come la storiella del dolcetto a forma di mezzaluna).

Ma un assedio deve durare anche abbastanza (sempre da parte di chi lo mette) perché i soldati di professione abbiano il tempo di guadagnare attraverso le paghe normali e anche quell’irrinunciabile benefit chiamato preda e bottino.

Quando Federico da Montefeltro fa un capolavoro con l’assedio di Volterra nel 1472 per conto di Firenze e di Lorenzo de’ Medici, portando a buon fine l’impresa in quattro e quattr’otto, a Firenze gli stendono il red carpet, ma i soldati mugugnano: in un assedio così ci potevamo stare almeno un anno e guadagnarci bene, e ora questo chiude la partita alla svelta.

Ci vuol vedere mendichi a chiedere l’elemosina all’ospedale (questo è il tono della rampogna dei suoi uomini d’arme). E i soldati si pagano da soli: Volterra si arrende a patti e, in virtù delle consuetudini di guerra, non deve subire violenza né essere saccheggiata, come invece, per tre giorni, sarebbe accaduto se avesse resistito e fosse stata espugnata.

Ma gli uomini non ci stanno e sulla povera città si scatena la loro furia violenta, omicida e predatoria (è successo contro il mio volere, si giustificherà il conte di Montefeltro, che, tuttavia, si porterà a casa la sua porzione di bottino). E, comunque, un assedio non deve durare troppo, perché, quando finiscono cibo e foraggio, anche gli assedianti, le cavalcature e le bestie da soma hanno fame, e non è agevole procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti, soprattutto se si è già devastato il devastabile; così, quando comincia il freddo, non è sempre facile procurarsi un alloggio al coperto.

Come accidenti devo fare per andare a assediare quella stramaledetta fortezza dei senesi? chiede ai suoi superiori un comandante imperial-mediceo nel 1555, in pieno inverno, durante la guerra di Siena.

I cavalli, al freddo e senza cibo, ci muoiono come mosche, i soldati alloggiano all’aperto e la mattina si svegliano che non possono muoversi per i dolori. E, per parte sua, Blaise de Monluc, comandante della difesa senese, sempre nello stesso assedio, annota che gli assedianti erano allo stremo; sarebbe bastato – scrive – che fosse nevicato a gennaio, e sarebbero stati costretti a levare l’assedio perché quelli fuori dalle mura non stavano meglio di quelli affamati che erano dentro.

Non nevicò, in quell’inverno del 1555, e a aprile Siena fu costretta ad arrendersi, perché in città c’erano rimaste vive meno di diecimila persone, e da mangiare c’erano rimasti giusto i mattoni e le pietre delle case.

Un assedio è un’epopea continua di gesta fulgide e di miserie e dolori; è una saga di eroi e di traditori; è una fabbrica mitopoietica di personaggi destinati a entrare nella leggenda bypassando la storia vera: dalla popolana Caterina Segurana (eroina becera, ma superbo simbolo collettivo della resistenza di Nizza assediata dalla coalizione franco-turca nel 1543), all’involontario eroe Pietro Micca, nell’assedio sofferto da Torino da parte dall’esercito del Re Sole nel 1706.

Un assedio non è solo una guerra. È – sempre – anche narrazione non di rado costruttrice di identità. Chiunque abbia vinto, chiunque abbia perso.

DUCCIO BALESTRACCI

da il manifesto.it

Duccio Balestracci interverrà il 24 al Festival delle città del Medioevo. Sarà «Rinascite» il titolo della prima edizione della manifestazione, ideata dall’Università e dal Comune dell’Aquila, con la direzione scientifica di Amedeo Feniello e Alfonso Forgione (fino al 25 giugno). Tra gli ospiti: Franco Cardini, Jean -Claude Maire Vigueur, Maria Giuseppina Muzzarelli, José Enrique Ruiz Domènec, Alessandro Vanoli, Marina Montesano, Melania Mazzucco.

Info: www.festivalcittadelmedioevo.it/

foto: screenshot

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