La storia del Kosovo si intreccia con quella serba fin dal ‘200 e dal ‘300, perde di carattere nazionalista per qualche centinaio di anni sotto l’Impero ottomano e, con il progressivo tramonto del potere della Sublime Porta, ritorna in auge a cavallo tra ‘800 e ‘900. Una terra di confine, tra due, tre confini almeno.
Quello serbo a nord, quello albanese a sud e quello macedone-greco-bulgaro ad est. Questa piccola porzione dell’ex Sangiaccato di Novi Pazar ha continuato ad essere al centro di conflitti che hanno prodotto guerre sanguinose nel nome del principio delle nazionalità.
Dopo le guerre balcaniche di fine ‘800, la Prima guerra mondiale, la formazione del Regno dei Serbi Croati e Sloveni e poi della Jugoslavia di Tito, il quadrato un po’ romboidale del Kosovo è rimasto un enigma insoluto dal punto di vista etnico: troppo serbo al nord per essere albanese, troppo albanese al centro e al sud per essere serbo. Si escludono ormai le altre dispute, tra Grecia, Macedonia del Nord e Bulgarie, dichiarate in qualche modo risolte da rapporti più che altro bilaterali sostenuti da mediazioni della UE e dell’ONU.
Ma invece no, la questione kosovara continua a tenere banco. E non soltanto perché rimane un territio a status giuridico – istituzionale ampiamente controverso; soprattutto perché lì in quel recondito angolo balcanico c’è una delle missioni della NATO tra le più numero in Europa.
La Kosovo Forse, comunemente conosciuta con l’acronimo K.FOR., tra effettivi e riserve conta circa 6.000 uomini. Gli obiettivi avrebbero dovuto essere quelli di proteggere la regione dalle minacce serbe, prevenire scontri interetnici, demilitarizzare le forze dell’UCK (“Ushtria Çlirimtare e Kosovës” – “Esercito di liberazione del Kosovo“), sostenere le condizioni fondamentali per una ripresa dell’azione politica, civile e sociale.
Nemmeno a dirlo, nessuno di questi obbiettivi è stato praticamente raggiunto, permenttendo al Kosovo di diventare quello stato-cuscinetto a trazione americana-atlantico-europea in funzione antiserba, antirussa, anti-Est in generale.
Potrà sembrare paradossale dirlo oggi, mentre una guerra nel cuore dell’Europa si trascina pericolosamente da oltre 400 giorni. ma la presunta missione internazionale della NATO, che aveva lo scopo di portare stabilizzazione e pace, ha di fatto funzionato soltanto come bandierina imperialista a due passi da casa nostra.
Pochi giorni fa, dopo un’elezione comunale contestata dalla maggioranza serba del Kosovo settentrionale, gli scontri tra le etnie si sono moltiplicati ed oggi la piccola ex regione serba, divenuta autonoma e indipendente per dichiarazione unilaterale nel febbraio del 2008, riconosciuta come repubblica sovrana da 101 paesi su 193 dell’assemblea dell’ONU (per altre fonti il numero si riduce a 84 su 193), è tornata al centro del dibattito internazionale.
Lo è tornata come tassello di ulteriore esacerbazione nazionalista in una economia di guerra europea e mondiale in cui la politica sguazza con tendenze fortemente imperialiste, riempiendo gli arsenali di nuovi armamenti, foraggiandone l’industria, accrescendo di giorno in giorno il potenziale distruttivo.
Una pattuglia di militari italiani, facenti parte della missione NATO, è stata ferita nel corso degli scontri e, quindi, più che gisutamente ci si è ricordati che l’Italia si trova ancora impegnata in cinque teatri di scontri piuttosto consolidati e rasentanti l’endemicità cronica: l’UNTSO in Palestina, l’UNIFIL in Libano, l’MFO nel Sinai egiziano, l’UNMIK per l’appunto in Kosovo e infine l’UNFICYP a Cipro.
Il tratto comune di queste missioni è a dir poco lampante: sono tutte guerre stagnanti o in corso di sviluppo, ma si tratta comunque di conflitti irrisolti da decenni e decenni. Basti pensare che i nostri militari, per fare un esempio, si trovano in Libano da 45 anni…
Dal lontano 1978. Eppure, nessuna di queste interposizioni internazionali ha sortito quegli effetti di stabilizzazione che avrebbero dovuto, con l’ovvio apporto di una politica capce di regolamentare dei processi di pace e di condivisione delle scelte, seppure tirata per la giacchetta dai tanti, tantissimi interessi che dilaniano ancora il mondo tra est ed ovest, creare i presupposti per la convivenza di istante di popolo molto diverse fra loro.
Il conflitto israelo-palestinese, tanto quanto quello libanese, al pari di quello cipriota e molto simile a quello tra serbi e kosovari nel sud dei Balcani, è un po’ l’emblema sanguinoso di un paradigma che può essere funzione interpretativa di questi fenomeni di instabilità cronica, di destabilizzazione altrettanto tale delle aree regionali limitrofe: la linea di condotta politico-militare, supervisionata da una insipienza delle Nazioni Unite (costrette ad un miserando ruolo di osservatrici e nemmeno di comprimarie), è quella nordatlantica.
C’è di che stupirsene? Il ruolo della NATO e degli Stati Uniti d’America è chiarissimo in tutti questi conflitti: quanto più le guerre locali e gli scontri interetnici destabilizzano una certa area del mondo, tanto più l’alleanza “difensiva“, che non è stata sciolta dopo la linea di demarcazione storica del 1989, può fare la parte di quel gendarme a garanzia degli interessi a stelle e strisce.
In mezzo a questo ripullulare di agitazioni globali, perfettamente in linea con l’espansionismo occidentale contro Russia e Cina, il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj dichiara che ogni paese che confina con Mosca dovrebbe aderire alla NATO. Come si possono interpretare queste parole scriteriate se non come una dichiarazione di guerra nei confronti del Cremlino? Qui non si tratta di accerchiare il proprio nemico: Zelens’kyj riferisce quello che altri gli hanno suggerito e che direttamente non possono affermare.
A ben vedere, poi, non manca nemmeno molto per un dispiegamento delle forze della NATO intorno alla Russia. Almeno per quella parte di confini che riguarda l’Europa. Che cosa pretende Zelens’kyj? Di far entrare nell’Alleanza Atlantica l’Iran, l’Afghanistan, l’India, la Cina, la Mongolia e magari anche il Giappone?
Siamo davanti ad una dissenatezza politica che è lo scendiletto di una volontà di dominio mondiale in cui anche la vicenda del Kosovo rientra a pieno titolo e che riguarda, prima di tutto, i rapporti tra l’asse balcanico e quello ucraino-russo. Basta guardare una cartina dell’Europa per rendersene conto: la Serbia, che resta una alleata della Russia, può contare ancora – almeno stando ai riconoscimenti e disconoscimenti ufficiali – su un fronte del dissenso verso l’indipendenza di Pristina formato da Spagna, Grecia, Macedonia, Romania, Moldavia.
Persino l’Ucraina dell’atlantissimo Zelens’kyj aveva nel 2020 espresso la contrarietà alla formazione della Repubblica del Kosovo. Poi gli scenari internazionali cambiano. Le guerre li trasformano velocemente e i nemici dei nemici diventano improvvisamente amici.
Ma quello che più risulta interessante esaminare è la capacità di un anche piccolo, parzialmente dimenticato conflitto intereuropeo, di riuscire a scatenare una riconsiderazione globale sulle strategie offensive messe in atto già da tempo e riemerse oggi sul terreno dello scontro tra Mosca e il binomio NATO-USA.
Nessuna guerra, piccola o grande che sia, può oggi dirsi estranea ad un disegno molto più che locale, veramente globale che vuole rimodulare i contorni degli imperialismi: la sfida a tre, Russia, Cina, USA, si gioca anche su piccole porzioni di territorio, apparentemente rinchiuse nei focolai nazionalsti di tanti decenni addietro.
Non si dovrebbe ridurre l’entità degli scontri tra serbi e kosovari ad una mera disputa di confini o di prevalenze identitarie. In ballo c’è molto di più del plurisecolare odio tra Belgrado e Pristina. Washington muove le sue pedine e Mosca le sue. La Cina continua la sua espansione economica che, non da meno, è la punta più alta dell’intromissione di uno Stato negli affari di altri Stati e nelle vite di altri popoli.
Noi festeggiamo la Repubblica con parate militari e senza i colori della pace, senza parole di pace, senza un utilizzo delle nostre forze armate secondo il dettame costituzionale. Lasciamo e lasceremo la missione italiana in Kosovo affermando che proprio lo stare lì garantisce quel minimo di libertà e di democrazia in salsa occidentale, nordatlantica, americanemente intesa.
Disarmare l’UCK e far sembrare questo un comportamento di stabilimento di un equilibrio nei confronti delle richieste serbe e dell’atmosfera che si respira nell’interezza dei Balcani, è un altro giochetto tattico che, alla fine, perde di apparenza e, sostanzialmente, si rivela per quello che è: un punto della carta dove piantare la bandierina, dove stabilire una base sicura, dove avere una testa di ponte verso Belgrado e verso est.
Il precipizio della guerra mondiale è sempre più pericolosamente sotto i nostri piedi. Ma noi festeggiamo la Repubblica con le armi, con gli aerei che spruzzano il tricolore nel cielo e che ci costano tanto quanto ci costa veder tagliare, nel nome dell’aumento della spesa militare al 2%, così come vuole la NATO, i servizi sociali, le voci di bilancio che avrebbero dovuto beneficiare di 43 miliardi del PNRR e che saranno dirottati verso il finanziamento di nuovi armamenti. Per la libertà della guerra e non per la guerra della libertà.
Il Kosovo si incendierà se sarà utile che il fuoco divampi e che l’incertezza aumenti. Per spingere a nuove soluzioni armate, per rafforzare i contingente, per allontanare sempre di più soluzioni concordate, diplomatiche e volte alla ricerca della pace tra i popoli. A chi governa di tutto questo interessa ben poco. E chi fa opposizione viene irriso come sognatore, romantico, illuso ghandiano o amico del nemico stabilito dall’Occidente.
Dipende dai punti di vista. Ma dipende anche dalle scelte economiche e politiche. Anzi. Dipende essenzialmente da queste.
MARCO SFERINI
3 giugno 2023
foto: screenshot tv