Lo so. Ci sono le elezioni amministrative comunali qui in Italia, quelle politiche e presidenziali in Turchia; il presidente ucraino Zelens’kyj ha incontrato ieri il presidente Mattarella, Giorgia Meloni, il papa e Bruno Vespa a Porta a Porta. Quindi di temi su cui scrivere oggi ve ne sarebbero in abbondanza. Invece ho scelto altro. Ho scelto una frase di Francesco, il pontefice che si è dato un nome che mai nessun successore di Pietro si era dato nella bimillenaria storia della Chiesa cattolica apostolica romana.
Un nome scelto non a caso, perché quel «sibi nomen imposuit» è la formula che annuncia al mondo proprio l’intenzione spirituale di attribuirsi un altro nome, quello scelto per evocare chi ha ha rappresentato nella storia della Chiesa un particolare punto di riferimento, una svolta. In questo caso pareva essere proprio così: Francesco, il santo patrono d’Italia, il suo ordine dedito alla povertà, ad un ritorno ai fondamentali del Cristianesimo, ad un evangelismo che segue e mutua gli insegnamenti e la vita del Cristo.
A cominciare dall’abbandono della materialità delle cose, dell’attaccamento al denaro, al potere, a tutte quelle perversioni temporali cui la Chiesa nel corso dei secoli ha strizzato l’occhio prima ed ha finito col diventarne parte poi: una potenza politica, anche economica, certamente sociale.
Trono e altare sono rimasti, fino alla fine dello Stato ecclesiastico nel 1871, per un millennio nel mezzo di ogni contesa fra imperi, regni, repubbliche, commerci, conquiste coloniali. E Ne hanno condizionato gli sviluppi per accrescere sempre più il potere del papato.
Il francescanesimo è da sempre sinonimo dell’opposto rispetto allo sfarzo della curia romana, alla magnificenza di cui si è circondata, alla contraddizione evidente tra messaggio cristiano e la sua traduzione pratica in chi sosteneva di volerlo diffondere urbi et orbi.
Dunque, che Jorge Mario Bergoglio, gesuita argentino, venuto “dalla fine del mondo” fino a Roma e trovatosi erede del rigidissimo, tradizionalissimo e conservatore pontificato di Joseph Ratzinger, si fosse voluto attribuire il nome di Francesco era già di per sé quel segno di discontinuità auspicabile da tutto un mondo di fedeli, e perché no anche di laici, che reclamavano una Chiesa più moderna, aperta al dialogo con tutti, lontana dagli anatemi e dalle stigmatizzazioni, dal giudicare dall’alto della morale “superiore” discendente da dio.
Ed effettivamente papa Francesco ci ha permesso, anche a noi comunisti, a noi di sinistra, a noi progressisti, di poterlo apprezzare in molte delle sue dichiarazioni, delle sue prese di posizione pur vincolate alla dottrina della Chiesa, a ciò che lui stesso crede, con fermezza ma non con la durezza dell’intransigenza ratzingheriana: da qualche timida apertura sui diritti delle persone LGBTQIA+ ad una discreta osservazione della politica italiana, della vita sociale del nostro Paese.
L’impegno, manifestato incessantemente, per la preservazione dell’ambiente e del pianeta tutto, per la pace e la concordia fra i popoli, contro ogni guerra, contro ogni riarmo, contro ogni mercanteggiamento di morte, ha consentito di apprezzare in Francesco quel suo tratto di critica complessiva ad un capitalismo vorace, ad un sistema economico veramente quotidianamente omicida e devastatore.
Ed anche nell’incontro di ieri con Zelens’kyj, l’esclusione da parte del presidente ucraino di una mediazione, di una trattativa diplomatica per mettere fine alla guerra, è parsa essere una risposta al tentativo del pontefice di farsi portavoce di questa esigenza sentita da larghe fasce popolari, molto meno dai governi interessati ad implementare la riorganizzazione della spesa bellica, il nuovo implementamento degli arsenali militari, l’invio di armi a Kiev, la piena aderenza alla linea imposta dalla NATO (e dagli USA) all’Europa.
Perché, dunque, stiamo scrivendo con un tratto polemico nei confronti del papa se, almeno fino ad ora, ha dato motivo anche a noi non credenti, omosessuali, comunisti e laici di poter guardare a lui come ad un attore propositivo e non ostile nella scena italiana, europea e mondiale?
Per quello che molti giudicheranno essere un dettaglio trascurabile tanto della personalità quanto della catechesi e della dottrina cristiana e cattolica. Un cane. Ad una udienza del mercoledì, avvicinatosi alla balaustra per salutare i fedeli, una signora ha mostrato al papa il suo cagnolino e gli ha chiesto di benedirlo, chiamandolo “il mio bambino“. Francesco, invece di sorridere e tracciare nell’aria un segno di croce, ha rimbrottato la donna, redarguendola sul fatto che lei si occupava e preoccupava di un cagnolino mentre al mondo ci sono tanti bambini che muoiono di fame.
C’è da sperare che il papa non abbia mai fatto l’esperienza di avere un cane o un animale qualsiasi con sé e per lungo tempo. Se così non fosse, le sue frasi e la mortificazione della richiesta della signora sarebbero ancora più sconsolatamente desolanti per un pontefice che si è fatto chiamare come Francesco d’Assisi, notoriamente il miglior amico dell’animalità, insieme forse a Rocco e Antonio, nella bimillenaria storia del Cristianesimo occidentale.
E’ probabile che Francesco si sia sentito preso in giro da quella signora che, invece di porgergli un neonato paffutello e roseo da benedire, gli ha mostrato il musetto di un amico peloso. E’ probabile che – ci sia permesso questo passaggio psicoanalitico da pochi spiccioli – la sua figura di papa della cristianità si sia sentita sminuita di fronte a ciò. Ma, anche alla ricerca di altre ipotesi, il quadro non fa che mostrare l’immagine di un pontefice che ritiene gli animali certamente inferiori agli esseri umani.
Nulla di strano se ci si riferisce al trattamento riservato dalle religioni al mondo animale (quello degli animali non umani): nessuna dottrina mette su un piano di uguaglianza tutti gli esseri viventi sul pianeta ma stabilisce delle precise gerarchie. La Bibbia del Vecchio Testamento mette Adamo al vertice della piramide creazionista e gli subordina tutti gli animali. Così fa il Corano nella XVI Sura, laddove ogni essere vivente che non sia l’uomo è assoggettato all’uomo stesso.
Nel Nuovo Testamento, oltre ai paragoni con colombe e serpenti, Gesù moltiplica i pani ed anche i pesci. Difficile sperare di trovare un protoveganismo o vegetarianesimo nelle parole delle religioni rivelate. L’esclusione del maiale dalla tavola degli ebrei, del resto, è dettato da motivi simili a quelli dell’Islam: nei paesi dove il sole picchia forte sulle teste della gente per gran parte dell’anno, mangiare carne che potrebbe putrefarsi facilmente è sconsigliato.
Si tratta quindi di una norma più che altro sanitaria e non certo di un precetto legato a motivazioni riscontrabili da una anche approssimativa indagine teologica.
Soltanto i teosofi e i buddisti hanno considerato il rapporto tra umanità e animalità su un piano egualitario, cercando di preservare la loro coerenza nell’affermare la necessità di poter vivere tutti quanti nell’assenza di dolore, nell’affermazione del distacco da una materialità delle cose che permettesse di raggiungere un equilibrio che somigliasse il più possibile ad uno stato di atarassica serenità.
Papa Francesco, invece, con il racconto di quell’incontro con la signora e il suo cagnolino, ha riaffermato tra l’altro, oltre ad una sua idiosincrasia con gli amici pelosi e a quattro zampe, la concezione antropocentrica della religione cristiana e, quindi, del cattolicesimo. L’essere umano sta al centro della creazione divina e può disporre del creato.
Facciamo alcuni passi indietro. Nel 2016, sempre durante un’udienza generale del mercoledì, il pontefice aveva detto:
«La pietà non va confusa neppure con la compassione che proviamo per gli animali che vivono con noi; accade, infatti, che a volte si provi questo sentimento verso gli animali, e si rimanga indifferenti davanti alle sofferenze dei fratelli. Quante volte vediamo gente tanto attaccata ai gatti, ai cani, e poi lasciano senza aiutare il vicino, la vicina che ha bisogno… Così non va».
Il ragionamento ha un senso proprio dentro una critica dell’antropocentrismo e dello specismo, visto che proprio questi comportamenti indotti da secoli e millenni di comportamenti umani (e quindi strutturalmente economici) hanno impedito che si sviluppasse una relazione paritaria tra tutti gli esseri viventi. Accompagnato in questo suo cammino creazionista, l’uomo si è sempre sentito padrone del resto del pianeta e ha trattato gli animali non umani come altro da sé stesso, pensandosi al di fuori dell’animalità.
Comprensibile a priori, visto che la scienza in allora non era in grado di dimostrare l’appartenenza dell’essere umano all’ordine dei primati, a loro volta compresi nell’ordine dei mammiferi placentati: dalla scimmia ai sapiens. Soprattutto se si considera che l’evoluzionismo compare molto recentemente nell’analisi di quella origine della specie darwiniana che la Chiesa ha combattuto a lungo.
Comprensibile anche questo, poiché il primato del creazionismo è stato messo in crisi da una analisi oggettiva dei dati che hanno evidenziato come l’uomo non sia nato dal soffio dell’alito divino, dalla composizione di sabbie e fanghiglia, o la donna da una sua costola; bensì da un processo di trasformazione della materia sempre più complessa, sempre più raffinata che ha consentito l’esistenza di un essere capace di coscienza dell’esterno da sé e di autocoscienza.
Che tutto questo sia frutto di un disegno divino è opinabile, ma è anche probabile. Sarebbe la spiegazione più facile e che ci aiuterebbe a lenire tanti affanni sul senso della vita, provando a risolverne l’eterno enigma, ma rischierebbe anche di imbolsire l’attività della ricerca, della scienza. Per questo, pur essendo riuscita la Chiesa ad adattarsi anche all’epoca dell’evoluzionismo e del meccanicismo degli eventi naturali, è bene che i piani restino separati, pur in un dialogo che non è da disprezzare.
Se esiste una nuova frontiera di adeguamento della dottrina cattolica e del cristianesimo (che ricerca tutto questo anche se con lo scopo di mantenere intatto, ed anzi accrescere, il suo potenziale di influenza sulle masse, quindi di rendere immarcescibile il suo potere tanto temporale quanto spirituale) alla maturazione della coscienza laica dei tempi, questa potrebbe intravedersi nella progressiva acquisizione di una sempre maggiore coscienza dell’eguaglianza che c’è tra tutti gli esseri viventi.
Non si tratta di banalizzare il discorso e pensare che noi e i pinguini siamo uguali. Si tratta di riconoscere il rispetto che meritano tutti gli esseri viventi da parte di una umanità che si è per troppo tempo separata dalla sua animalità. Noi siamo animali e lo siamo in tutto e per tutto.
Abbiamo delle capacità che gli altri viventi non hanno: sappiamo osservare il mondo e porci delle domande. Abbiamo una coscienza diversa dagli altri, ma non per questo dobbiamo ritenere il cane, il gatto, il pipistrello o l’orca privi della coscienza, addirittura incapaci di sentire dolore.
Sono tutte teorizzazioni che tentano di giustificare l’utilizzo che si fa degli animali non umani per scopi molto diversi tra loro: sperimentazioni scientifiche, soprattutto l’industria massiva e intensiva della carne (includente anche i pesci… che sono fatti di carne!), divertimento (corride, circhi, corse di cavalli, cani, combattimenti come tra umani nelle arene antiche…), sostituzione delle nostre fatiche con le loro nei trasporti di noi stessi o di merci o nell’agricoltura.
Quando il papa mostra di preferire l’ostensione di un bambino alla sua benedizione rispetto a quella di un animale, almeno per quanto riguarda la sua persona esprime tutto lo specismo possibile. Prima viene l’essere umano e poi tutti gli altri esseri viventi. Del resto così dice la Bibbia.
Ma tutta l’uguaglianza che possiamo guadagnarci reciprocamente, superando il capitalismo, mettendo fine allo sfruttamento delle risorse naturali, non sarà mai piena e godibile senza una liberazione animale a tutto tondo. Una liberazione animale che, in quanto tale, comprende quella umana. Anche l’antirazzismo e ogni forma di umanesimo moderno finiscono con l’essere parziali, monchi e improduttivi sul lungo periodo se rimane in noi il concetto di superiorità rispetto a quelle che continuiamo a considerare “specie inferiori“.
E poi, in questa cornice di considerazioni più generali, vi sono anche altri appunti da fare, da un punto di vista ovviamente di critica laica: nella difendere il comportamento del papa, i giornali di area cattolica hanno scritto che, essendo l’uomo la “glorificazione di dio“, questi avrebbe, rispetto agli altri esseri viventi, una sorta di primazia. Ciò non fa che riproporre lo specismo al centro del Cristianesimo, pur – e non c’è da dubitarne – non volendo contrapporre l’uomo agli altri animali.
Non lo si vorrà fare intenzionalmente, ma indirettamente alla fine è così. Padre Enzo Fortunato, direttore della Sala stampa del Sacro Convento di Assisi ha dichiarato:
«Per san Francesco è centrale l’uomo e solo dopo ci sono gli animali e l’ambiente, il creato. Troppi amano, come ha detto il Papa, cani e gatti, ma ignorano i vicini. Il Pontefice ha evidenziato la centralità dell’uomo, dei figli, dei vicini, guardando al futuro dell’umanità».
E’ una sottolineatura ulteriore di un problema evidente: se siamo razzisti, sessisti, xenofobi, omofobi, se guardiamo sempre al nostro prossimo con suspicione e in stato di difesa permanente, come se fossimo circondanti da infingardissimi nemici, timorosi dell’altro da noi perché non ne comprendiamo la cultura, le tradizioni, la parola, gli usi e i costumi, pensando che possa rappresentare una minaccia alla nostra identità e alla nostra sopravvivenza, come potremo mai pensare alla liberazione in senso animale, dell’animalità a trecentosessanta gradi?
L’obiezione del pontefice e di padre Fortunato ha un qualche fondamento: perché anche Adolf Hitler provava empatia solo per la cagnolona Blondie, regalatagli da Hermann Göring, mentre ordinava stermini di massa mai visti in un dato momento nella storia dell’umanità. Ma questo, pur sembrando un argomento valido, non giustifica – se non nel tradizionalismo religioso – una scala valoriale in cui l’essere umano sia posto al di sopra di tutto e di tutti.
Se anche Francesco d’Assisi la pensava così – a detta di padre Fortunato – ci siamo allora fatti un’idea un po’ sbagliata di lui. Almeno quelli che come me che, proprio nel corso di una riconsiderazione dei precetti acquisiti dalla tradizione, dai comportamenti consolidati e tramandati e da una oggettività dei fatti quasi dogmatica (“lo fanno tutti, da sempre“), si sono messi in discussione e ripensati proprio come esseri mani.
Non sentendosi più superiori agli altri viventi, ma esattamente uguali a tutte e tutti, in pieno diritto all’esistenza libera e quanto più possibile felice insieme a qualunque animale non umano. Noi non siamo i proprietari di nessuna altra vita. Nessuno dovrebbe stare al nostro servizio, ma noi dovremmo, di contro, mettere al servizio del pianeta intero la nostra intelligenza per migliorare l’esistenza di ogni essere vivente che abiti su Gaia.
Senza questo comunismo libertario antispecista non c’è liberazione umana che possa essere veramente tale e che possa durare a lungo. Si tratta di cambiare il punto di vista: una rivoluzione molto più complessa e difficile di quelle che si fanno partendo dalla fame e dalla disperazione che, per la loro drammaticità, fanno paradossalmente dimenticare il rispetto che dobbiamo alle altre vite, preservandole da qualunque sofferenza siamo in grado di procurare loro. E del tutto gratuitamente…
MARCO SFERINI
14 maggio 2023
foto: screenshot You Tube