Due secoli dopo, o quasi, è difficile poter dire se Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, abbia voluto giocare una sciarada nel mettere nero su bianco la sua evoluzione dalla sinistra hegeliana e dare vita a quello che, tutt’oggi, viene considerato il suo capolavoro: “L’Unico e la sua proprietà” (varie edizioni, tra le meritevoli per traduzione e accompagnamento critico nella prefazione, si consiglia quella di Bompiani).
Nel periodo più grigioscuro ed omicidiario, terrorista e criminale del fascismo, quindi la Repubblica Sociale Italiana, ci fu qualcuno che pensò persino di ascriverselo come precursore di una volontà di potenza che nulla aveva a che fare tanto con la muscolarità totalitaria quanto con qualche echeggiante riverbero di un nietzschiano costrutto sulla individuabilità delle peculiarità dell’essere umano nel contesto generale dell’incomprensibilità dell’esistenza.
E questo poté avvenire, senza ombra di dubbio, perché Stirner (il cui pseudonimo è opera di Engels che lo chiamò così per la spazionsità della sua fronte – in tedesco, infatti, “stirn” significa appunto quello) permise a sé stesso di lasciare dei margini di dubbio tali da suscitare un fraintendimento di quel suo filone di pensiero che, abbandonato Hegel al suo destino di classico, si inserisce nell’anarchismo individualista. Senza se e senza ma.
Leggendolo (e soprattutto rileggendolo), ci si rende subito conto, se si è quanto meno frequentato Marx nelle opere più fondanti il materialismo storico e dialettico, del perché il Moro non lo avesse in particolare simpatia. Il piano dissertativo, l’elucubrazione, la filosofia come speculazione antiteologica e antietica, è l’elemento chiave dei ragionamenti stirneriani.
Infatti, una delle critiche che tra le prime ricevette l’Unico che riponeva la causa in sé stesso (ergo Johann Kaspar Schmidt), come uomo anarchico, come colui che fondava il tutto sul niente, riconoscendo all’uomo di essere principio e fine del tutto autonomo rispetto ad una società che voleva smitizzare e decostruire, era quella di elevarsi dalla concretezza del reale, dei rapporti sociali, produttivi, economici, da una antroposofia che, non per forza, doveva fare riferimento all’economia politica ottocentesca.
Ed è così: Max Stirner solfeggia con i suoi costrutti mentali, li argomenta, li fa seguire uno all’altro in una incessante, talvolta estenuante continuità che fa perdere quella logicità del ragionamento che, in realtà lui nemmeno persegue.
Così come intende dimostrare che solo l’individuo è tale, quindi pienamente libero e uniformato di sé medesimo, soltanto se si separa dal diritto positivo che lo circonda con un’aura di sacralità cristiana ereditata dal passato, o se rifiuta qualunque paragone, confronto con una morale imposta dalla società che, essa stessa, un potere alternativo a quello dei re, degli imperatori, delle monarchie e delle stesse repubbliche considerate democratiche (vedasi l’origine ellenica antica del termine…), altrettanto pretende di accettare il rischio di fare dell’egoismo un valore del tutto singolare. Ma un valore.
Lo stigma che Stirner vuole eradicare dall’anatema lanciato contro la pienezza della volontà totale e singolare umana che, se messa davvero in pratica, renderebbe impossibile la vita sociale, è il presupposto di una teorizzazione dell’uomo anarchico al di là dei concetti di “federazione” e simiglia un po’ a quella “vita senza princìpi” enunciata da Henry David Throeau.
Ma lo stirnerismo, un unicum non solo nella storia della filosofia ottocentesca ma anche in quella dello stesso pensiero anarchico, supera ogni limite e gli si attaglia davvero poco, perché gli sta oggettivamente stretto, l’incasellamento nel radicalismo estremo, nella critica sociale anche portata all’ennesima potenza.
Benche non vi sia alcun dubbio sulla sua avversione nei confronti di ogni sistema sociale, in quanto la società medesima, come aggregato di presunte volontà libere, diviene una imposizione rispetto alla volontà e al “diritto” dell’individuo, della persona, del singolo come meglio lo si voglia definire, le contraddizioni in cui il filosofo di Bayreuth incappa sono lampanti e, seppure di lui non ci sia rimasto nemmeno una fotografia ma ne si conoscano i lineamenti del viso e del fisico da un ritratto a matita che gli fece Engels, lo si riesce a conoscere abbastanza bene proprio dall’opera in questione.
Se, poi, la sia inserisce nel contesto della sua vita, quella di un povero insegnante in scuole private e sfortunato marito, con una fine dei suoi giorni nell’indigenza più nera, non è possibile non notare come la sincerità delle parole di Stirner sia il filo conduttore de “L’Unico“.
Possiamo pensare ad una voglia, da parte sua, di provocare una reazione nella soffocante cultura moralistica dell’Ottocento, nel cristianesimo ancora parzialmente dominante le idee del volgo, delle masse che, tuttavia, iniziano a pensarsi come tali e a rivendicare tutta una serie di diritti solo immaginati fino ad allora, ma non possiamo credere che l’opera di Stirner sia una boutade.
L’attenta disamina filologica sulle terminologie adoperate dai saggi di ogni tempo per definire concetti fondamentali quali “vita“, “esistenza“, “diritto“, “sacro” e “sacralità“, “umano” e “umanità“, si unisce ad una sorta di storia della filosofia che ha tentato di capire l’incomprensibile, di studiare l’inconoscibile, di avventurarsi in un gnosticismo che ha forse raggiunto qualcuno degli obiettivi che si poneva ma che è stato costretto all’impotenza dalla forza presupponente di una religiosità che è per Stirner ben più dell'”opium des volks” marxiano.
Stato, Chiesa, morale, religione, diritto positivo o di natura, diritto sacro o laico, legge morale dentro o fuori di noi, tutto va decomposto, decostruito, disisntallato, reso inefficace mediante l’acquisizione da parte dell’Unico della sua imprescindibile e assolutissima volontà. Conta soltanto quello che possiamo fare per noi stessi e niente altro. Ecco la sottile linea nera dell’equivocabilità del pensiero stirneriano. Facile confondere l’egoismo con l’affermazione dell’essere umano per sé stesso e niente altro.
Johann Kaspar Schmidt non è un totalitarista del singolo rispetto alle masse. Non è così sprovveduto o sciocco dal ritenere vera (in quanto luteranamente pensabile) una esistenza degna di questo nome solo se esclusiva, escludente e quasi ascetica rispetto al resto di ciò che accade intorno. Semmai, la rivendicazione piena di una vita degna e senza alcuna dipendenza da altri o da costrutti sociali e (in)civili, siano essi i popoli per intero o gli Stati che li fanno credere liberi, corre il rischio di trascendere nell’esasperazione del concetto stesso e finisce col somigliare a quell’egocentrismo – pure modernissimo – che sta al centro del capitalismo tanto ieri quanto oggi.
E’ vero, Stirner ce l’ha un po’ con tutto e con tutti, ma ne ha ben donde. Se la prende tanto con i liberali quanto con i comunisti e affibia loro precetti, intendimenti e prospettive politiche che – a dire il vero, in particolare se si guarda la storia che ne è venuta fuori – non hanno mai corrisposto né al primo scorcio di organizzazione del movimento operaio e del proletariato di fine ‘800, né tanto meno agli infausti sviluppi novecenteschi in Moloch statalizzanti che hanno tradito l’idea libertaria insita nel socialismo.
La medesima fissità delle idee, il soffermarsi soltanto su una credenza (non importa se atea, religiosa, agnostica, laica o tiepidamente credente per istinto superstizioso) è per Schmidt una prigione della volontà che finisce con l’essere buona soltanto se si mette al servizio di sé stessi.
Qui, uno stirnerismo che sarebbe piaciuto in parte a Carmelo Bene, contrasterebbe persino con il grande Assente, perché la sua deduzione, dopo le “traversate nel deserto proprio“, di CB medesimo, era tutta protesa all’asserzione della completa inopportunità della volontà. Che “non è mai buona“.
Stirner fa un’eccezione: lo è solamente se esprime quello che vogliamo per noi. Per il resto, ne convine con Bene: è desolante, deprimente, devastante, inconcludente e ci porta sempre al medesimo giro di boa. L’egoismo di Stirner è altro da quello che lui fa discendere dal pensiero cristiano, dall’essere vincolati ad una ricerca del bene universale che è una schiavitù per il singolo, che è una forma concreta di fissità ideologica che gli fa orrore.
Si potrebbe pensare ad una negazione della dialettica intesa in senso classico, come scambio di opinioni, con un taglio da maieutica socratica che si è riprodotto nei millenni in una predisposizione quasi pedagogica della filosofia. E forse c’è anche questo nella feroce critica stirneriana. E’ bene ipotizzare, perché la radicalità della sua esigenza di estinzione di ogni costrutto umano sino ad ora messo in pratica è così destabilizzante da far rimanere senza punti di appoggio, privando di qualunque appiglio chi volesse guardarsi intorno per trovare un orientamento.
Stirner azzera ogni collegamento col pensabile inteso come primo gradino del possibile che diventi, appena un istante dopo, probabile. Il suo uomo anarchico non è insensibile ai mutamenti sociali, ma mette davanti a tutto la sua esclusività, il suo unicismo, la sua particolare essenza che non sarà riproposta in nessun altro modo, in nessun altro tempo.
L’antistatalismo stirneriano è anarchico perché rifiuta l’associazionismo, sebbene si sforzi di riconoscere che le idee federative del libertarismo, che a questo punto possiamo distinguere dal suo definendolo “politico e sociale“, hanno qualcosa di buono rispetto alla mediocrità democratica che pretende di essere moralmente, civilmente e civicamente superiore ad ogni altra forma di unione e di organizzazione umana.
Il suo laicisimo non è neppure tale, perché non è l’affermazione di una morale a-religiosa rispetto ad una credenza trascendetale (che viene da lui definita “immaginazione“), ma il superare qualunque dipendenza da cose materiali, esseri viventi nostri simili e idee prodotte da questi stessi. Quelle “idee fisse” che sono catene della mente e della virtuosità di un volere che è potere.
Ma, a profusione poi, piovono altre domande su domande dopo la fine del capolavoro stirneriano: la proprietà di noi stessi è intendibile come “privata“, come qualcosa che è qualcuno e che si afferma magari nel principio dell’eccellenza, della sovraordinazione di una specificità rispetto alle altre? Potrebbe essere, involontariamente, una definizione ulteriore di una moralità di un capitalismo che si nutre esattamente di proprietà e di potere i suoi architravi plurisecolari?
E’ evidente che, vista l’ampia gamma di ragionamenti di Stirner, dal particolare all’universale, dall’unico al molteplice e viceversa, gli si può far dire tutto e il contrario di tutto. Questo tranello va evitato e Johann Kaspar Schmidt deve essere avvicinato a noi stessi, letto e interpretato seguendo la linea della sincerità: ciò che ha scritto lo pensava e non è dissimile da come si sarebbe voluto comportare se avesse potuto.
E proprio perché non ha potuto ha, alla fine, “riposto la sua causa nel nulla“.
L’UNICO E LA SUA PROPRIETA’
MAX STIRNER
BOMPIANI
€ 38,00
MARCO SFERINI
3 maggio 2023
foto: ritratto di Max Stirner sulla base dei disegni di Friedrich Engels