Il problema dell’agiografia storica è che, in quanto tale, trasmuta la Storia in ben altro da sé stessa e la fa apparire come un qualcosa di intangibile e, per questo, esclusivamente venerabile in una adorazione acritica e priva quindi di istillare qualunque ulteriore elemento di dubbio, di criticità in chi la recepisce dai racconti e dalle narrazioni che sono seguite ai tempi in questione.
Insomma, l’agiografia non è Storia, ma è semmai una sua deformazione e, proprio per il bene che vogliamo alla concretezza dei fatti, dovremmo guardare sempre con sospetto chi pretende di vedere in un personaggio o in una determinata fattispecie di eventi solamente del bene o anche soltanto del banalissimo (si fa per dire) male.
Vale un po’ come legge generale, seppure con le dovute eccezioni e particolarità: ad esempio del nazismo e del fascismo si può dire che possono aver fatto cose buone in qualche angolo della normale amministrazione di uno Stato. Tipo fare le strade, adeguare le illuminazioni, migliorare questo o quell’aspetto della quotidianità più che altro burocratica della vita delle persone. Ma tutto il resto è affidato ad una considerazione oggettivamente eufemisticamente classificabile come “negativa“.
Questa premessa per significare che vi sono epoche storiche in cui la presunzione dell’agiografo può essere meglio accolta dalla magnificenza di un re, di un imperatore, di un presidente o di un governo medesimo. Ma, poi, terminata quella fase, inevitabilmente l’agiografia estenuante perde di tono, si rifugia nell’angolino della difesa disperata di una assolutezza che è irresistibile allo scorrere del tempo, alla verifica cui ogni generazione posteriore pone quella precedente. E così vale per ogni accadimento.
Vale anche per il Risorgimento italiano, troppo sottratto alla lente della critica storiografica da una realpolitik piuttosto inconsapevole d’esserlo, molto abborracciata, bislacchissima, smargiassa e quindi grossolana in tutta la sua ostentazione di evidenza di quanto si è proposta di proclamare.
Il problema è che la prima vittima dell’agiografismo inveterato, su cui si è tentato di creare un popolo che, a ben vedere nello scorrere dei secoli e dei millenni, non sarebbe comunque nato dal nulla, è proprio la più ampia fetta di verità sugli avvenimenti e, quindi, una trascrizione non deduttiva ma risolutamente capace di percepire e tradurre i chiaroscuri della Storia come contraddizioni oggettive e non come soggettivismi.
Giordano Bruno Guerri, molto scomodamente, scrive nel 2010 una “antistoria del Risorgimento e del brigantaggio“: “Il sangue del Sud” (Oscar Mondadori, 2010).
Niente paura, non è un saggio intriso di revisionismo, ma è semmai una ferita aperta ancora oggi nella mitologia di un unitarismo peninsulare italiano tutto piegato ad una narrazione priva di scruproli che è riuscita a figurare Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele in una iconografia altezzosa, esposta come pietra angolare della nuova Italia raccolta nel Regno piccolo e meschino dei primi anni dopo la Spedizione dei Mille.
Il rischio dello storico qui è di scivolare nell’esatto opposto dell’agiografia: la denigrazione. Ma Guerri non cade in questa anche involontaria trappola. La sua scrittura è asciutta, priva di enfasi; è necessario se si vuole oggettivizzare al massimo una “antistoria“. Ma il libro scorre velocemente, anche se andrebbe meditato a lungo. Non è un testo “simpatico“, proprio perché contraddice un racconto scolastico ripetuto dalle scuole elementari fino alle aule universitarie.
E’ un libro, per dirla tutta, che può somigliare alle parole di uno psicoanalista quando ci svela le dinamiche dell’incoscio e mette in discussione abitudini che non sopportiamo ma che, proprio senza esserne completamente avveduti, sono divenute delle prigioni di noi stessi e per noi stessi. Così è per la mitizzazione che viene demolita e per la Storia d’Italia a cui viene restituita la sua gloria ma anche il suo disonore.
Il fenomeno risorgimentale, straordinario risveglio della coscienza nazionale da parte della borghesia degli Stati pre-unitari e, al contempo, rimescolamento dei tumulti sociali in una formazione di intuizione egualitaria, popolare e radicale che avrà il suo apice in due episodi centrali per l’Ottocento italiano (la Repubblica romana e la Spedizione dei Mille), viene messo sotto la lente critica da Guerri, senza pregiudizio alcuno.
Tutta l’antipatia che si può provare per l’analisi impietosa che viene srotolata pagina per pagina come controcanto dell’epica asfittica respirata sui banchi di scuola e nella tradizione comune, si mitiga a poco a poco, diventa comprensione dell’esigenza da parte dello storico di fare luce attraverso i fatti sui fatti stessi.
I briganti, descritti solamente come furfanti, fuorilegge, criminali e assassini, non passano tutti dall’altra parte della Storia, quella del bene e della giustizia sociale. Ma certamente ne vengono progressivamente fuori come effervescenza proletaria, come avamposto di un disagio estesissimo che la propaganda sabauda di governo e quella dei giornali che vi si uniformava mostrava soltanto come frutto di una arretratezza culturale, sociale e civile connaturata in una sorta di “differenza razziale“.
Garibaldi per primo disprezzerà questa “piemontesizzazione” del Sud, questa estensione del regno sardo al resto di una Italia che Dostoevskij tratteggerà con biasimo nel “Diario di uno scrittore” redatto nei primi anni ’70 del nostro secolo risorgimentale. Del resto, al generale fu chiaro fin da subito l’intento dei Savoia: una annessione, non la voglia di fare dell’Italia un paese nuovo e grande, ma uno Stato mediocre e piccolo in mezzo a potenze europee che invece giganteggiavano in quanto a nazionalismo (e imperialismo).
Questa “antistoria” del Risorgimento italiano e del brigantaggio davvero fa riflettere molto su tutta una serie di episodi che, collegati fra loro, danno un quadro disorientante per chi non ha mai pensato che la storia del nostro Paese, agli albori della sua unità politica e statuale, potesse essere stata molto differente rispetto al piacere di pensarla come un’avventura omerica, durata ben più del peregrinare di Odisseo e, infine, conclusasi con le celebrazioni delle ultime guerre d’indipendenza, con la presa, infine, di Roma.
Eppure, siccome parliamo di luci e di ombre, quando si indagano queste ultime e le si osservano più da vicino, non bisogna dimenticare che è possibile farlo grazie alle luci che le rendono tali, che permettono di individuarle e circoscriverle.
Perché, se è vero che il Risorgimento è stato una sequela di canti e controcanti, di addizioni e sottrazioni alle colonne del giusto e dello sbagliato, del bene e del male, non va dimenticato il portato di cambiamento che rappresentato per l’Italia, ovviamente, ed anche per l’Europa. Francia, Inghilterra, Austria, Germania (e persino Russia e Impero ottomano) non sono stati a guardare senza fare nulla: hanno sostenuto ora la reazione e ora il progressismo; ora la conservazione e ora l’innovazione.
Basti pensare a Napoleone III ed al ruolo che ha avuto nella repressione del più alto esperimento liberale e sociale del Risorgimento, la Roma del 1848-49 col Triumvirato di Mazzini, Saffi e Armellini, e, appena dieci anni dopo, il capovolgimento (sempre per oculatissimo interesse nazionale e suo…) che fece registrare con la Seconda guerra d’Indipendenza. Dalla repressione dei moti italiani ad un sostegno bellico, senza però spingere troppo oltre gli effetti dello scontro campale…
Così, scrive Guerri, il Risorgimento prese una piega “nordista“, che Mazzini tentò di oltrepassare senza riuscirvi. E dal Nord era possibile pensare ad una unificazione “civilizzatrice” di un Sud che veniva raccontato alle popolazioni sabaude come una terra di confine, una marca antica prossima ad un moderno “hic sunt leones“. Luigi Magni lo fa persino dire ad una Maria Sofia delle Due Sicilie (Ornella Muti) in ” ‘O Re” con Giancarlo Giannini nella parte di Francesco II: «Pensa se l’Italia l’avessimo fatta noi, partendo dal Sud… Chissà come sarebbe venuta…» sospira la regina detronizzata e nell’esilio della Roma di Pio IX.
Nessuno lo potrà mai sapere perché, molto semplicemente, non è avvenuto. Così come non è stata possibile la Costituente italiana di Mazzini, la fondazione di una repubblica unitaria che, come ripeteva spesso il rivoluzionario più temuto (insieme a Garibaldi) dalle cancellerie dello Stivale, avrebbe dovuto «comprendere tutta la penisola». Il Partito d’Azione alterna vittorie e sconfitte nella complicata trama risorgimentale. Non ha la forza per imporre una egemonia culturale radicale, ma scuote, dinamizza, costringe alla presa di posizione persino Cavour.
L’Italia che ne viene fuori, come ogni frutto di compromesso tra più parti e tra molteplici e differenti interessi, è un piccolo regno, al ribasso rispetto alla grandezza sognata, forse rispetto alla stessa parola che noi diamo a questo periodo della storia del nostro Paese: Risorgimento. Lo è, ma rispetto a quale passato è difficile poterlo compiutamente dire.
Il sangue del Sud, che Guerri rovescia tutto quanto sul dramma di una Storia ampiamente secretata dietro i paraventi dell’agiografia di Stato e della sua pubblicistica asservita, emerge tra le tantissime storie di paesi così diversi da un Nord triangolarmente economico, erede giovane di una burocrazia asburgica che rimane nelle ossa e nelle menti dei funzionari. Sono quasi tutti episodi di recrudescenza sociale, di rivendicazione di una rivoluzione incompiuta e di una profonda delusione per la transizione dall’epopea dei Mille allo Stato unitario sabaudo.
Non si creda che Garibaldi fosse entusiasta di come era andata a finire per poter incominciare la storia di una Italia unita politicamente e territorialmente. Tutto il suo sconforto lo manifesterà nelle sue memorie, lo espliciterà ad amici e conoscenti, pur rendendosi conto che, in quel frangente, nessuno poteva contribuire come il Regno di Sardegna alla formazione dello Stato italiano.
Se il prezzo pagato sia valso a dare all’Italia il merito che ha avuto nel ‘900 è un altro capitolo di una storiografia che non cessa di prodursi in saggi e riletture anti e controstoriche ma che, tuttavia, lascia a secco i revanchismi neoborbonici o altre amenità di questo genere.
Dalla consapevolezza critica della nascita della nazione italiana non può che venire una Italia migliore. Dal dogmatismo dell’agiografia acritica deborderà soltanto e sempre una caricatura del nostro povero Paese in mano a tanti, troppi avventurieri della politica.
IL SANGUE DEL SUD
GIORDANO BRUNO GUERRI
OSCAR MONDADORI
€ 15,00
MARCO SFERINI
12 aprile 2023
foto: particolare della copertina del libro