Se ci si trovi o meno davanti ad un nuovo 6 gennaio, ad un nuovo tentativo, spostato nei tempi e nei luoghi, di assalto alle principali istituzioni americane, lo si potrà capire nei prossimi giorni, a ridosso della data che Donald Trump ha indicato come probabile linea di confine tra la sua libertà personale e l’arresto che sarebbe ordinato dalla procura di Manhattan per la vecchia faccenda dell’incontro del magnate, nell’ormai lontano 2006, in un resort a metà tra Nevada e California con la ex pornostar Stormy Daniels.
Dieci anni dopo, a ridosso della sua elezioni presidenziale, secondo i magistrati Trump le avrebbe fatto versare 130.000 dollari per ottenerne il silenzio su una relazione che, stando a quel che si legge e si ascolta dai media americani, non sarebbe andata oltre quella singola notte.
Comunque siano andate le cose, le minacce di Trump ai procuratori e ad un’America corrotta, anarchica, sedotta dall’estremismo di sinistra, si sono condensate tutte quante in un pamphlet di poche righe pieno di retorica e di banalità, dato in pasto ai social per suscitare un movimento di protesta che ricalchi grosso modo quanto avvenuto con l’assalto a Capitol Hill.
L’intento è quello di destabilizzare ulteriormente l’amministrazione Biden e, in vista delle presidenziali del 2024, creare un clima di subbuglio tale da rimescolare le carte anche all’interno del GOP.
I concorrenti dell’ex presidente per la corsa alla Casa Bianca non sono così spaventevoli in quanto a percentuali e, tuttavia, davanti ad una accusa che si traduce in un arresto, è probabile che i rapporti e gli equilibri cambierebbero, fin dentro l’entourage trumpiano. Nulla è mai dato per scontato quando si tratta di arriva al governo della più grande potenza mondiale.
Non sono solamente i destini della destra americana ad essere messi in gioco dal ritorno dell’ingombrante gigante dal ciuffo biondo, ma una intera classe politica e dirigente corre veramente il rischio di essere spazzata via se si creasse nell’opinione pubblica una contrapposizione netta e una lotta quindi all’ultimo, incertissimo voto come avvenuto ai tempi del confronto tra Clinton e Trump o anche tra quest’ultimo e Biden.
La debolezza dei democratici, anche numericamente tastabile al Congresso, è diventata quasi strutturale e non garantisce affatto all’attuale presidente la rielezione il prossimo anno. La sua amministrazione non ha subito solo contraccolpi interni, tra cui quelli portati dagli attacchi prevedibili del GOP e della sua anomalia sovranista, dai tratti autarchici e autoritari, ma soprattutto è stata indebolita dalla congiuntura internazionale.
Prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina, con il riemergere della potenza cinese al contempo, oltre ovviamente quella russa, hanno connotato in particolare Biden come un presidente inadeguato alle sfide, incapace persino di ascoltare i suggerimenti meno bellicosi (perché più pragmatici) dei capi delle forze armate sulla linea tenuta dalla NATO (e quindi dagli USA) nel conflitto europeo.
Se oggi Trump può permettersi una nuova chiamata del suo popolo alla dimostrazione plateale di una non tanto sua presunta innocenza, quanto di una colpevolezza del governo in merito alla deriva estremista di sinistra di cui fantastica propagandisticamente, è a causa di una mancata politica sociale, di una nuova rete di tutele e garanzie che avrebbero dovuto invece essere portate avanti dall’amministrazione di Washington.
La crisi di Taiwan, affrontata davvero con una spregiudicatezza ai limiti dell’insensata provocazione nei confronti di Pechino, è l’altro fronte totalmente aperto su un’Asia dove il Giappone punta al riarmo, ad un aumento delle spese militari – per la prima volta dal 1945 – in chiave apertamente offensiva, facendo superare alle proprie forze armate il ruolo di esercito difensivo.
Si tratta di segnali allarmanti, tanto quanto i bislacchissimi tentativi della Corea del Nord di esagitare gli animi con il lancio di missili che sorvolano le acque nipponiche, finiscono in mare e hanno lo stesso valore della anfitrionica dimostrazione di forza delle parate di piazza con file e file di soldati e armamenti per evidenziare una muscolarità che dietro ha carestia, fame, miseria.
Se questa sia la rinascita del trumpismo, una sua seconda vita, è presto per dirlo. Ma quel che è certo è che ci troviamo davanti ad una determinazione dell’ex presidente ad andare oltre il “fino in fondo“. La belva attaccata e ferita reagisce con ancora maggiore rabbia e vigore e senza esclusione di colpi. L’attacco alla magistratura è indice di una riproposizione di quel disequilibrio istituzionale con può portare nulla di buono alla fragile democrazia a stelle e strisce.
Biden ha messo dei paletti inequivocabili in politica interna che, oggettivamente, sono rassicuranti solo per la parte che riguarda la volontà del governo di preservare alcuni importantissimi diritti civili e umani: tra tutti il diritto all’aborto che è sotto attacco in molti Stati dell’Unione.
Per il resto il Partito democratico e il governo che esprime non hanno dimostrato una vicinanza alle lotte sociali, a quelle ambientali tale da lasciar percepire all’opinione pubblica, ai giornalisti, agli intellettuali un gradimento diffuso verso il presidente.
Su molti quotidiani si leggono infatti inviti rivolti direttamente a Biden a non ricandidarsi nel 2024. La domanda che i commentatori si pongono è: può l’inquilino della Casa Bianca riunire tutta l’opposizione al GOP e al trumpismo?
Può essere il collante di un liberalismo democratico che unisca anche il progressismo sociale in questa laica crociata, nonostante Biden sia cattolico? Può, in sostanza, il partito dell’asinello catalizzare il voto tanto dei grandi gruppi industriali e dell’alta finanza quanto il voto del proletariato diffusissimo nelle grandi metropoli, nelle campagne e nella vastità della provincia americana?
Un autorevole editorialista del “The New York Times“, autore ed editore di “Vox“, un sito di informazione molto diffuso negli USA, dà una risposta in controtendenza, per cui Biden sarebbe l’unica speranza in questo senso.
Non ne ricava espressamente un giudizio positivo, ma si dice incapace di intravedere altri leader democratici capaci di assolvere a questo compito. Il che ci lascia supporre che la situazione politica sia ancora più complicata e drammatica, per certi versi, di quello che immaginiamo noi ascoltando le notizie dell’altra parte dell’oceano.
Si comprenderà, quindi, come Trump abbia un gioco abbastanza facile nel tentare di fronteggiare il corso della giustizia americana con la spavalderia che gli è propria, con la tracotanza esagitante che esibisce in ogni tweet, in ogni dichiarazione, provando ad anticipare le mosse tanto dei procuratori quanto del suo stesso partito che vorrebbe archiviare la stagione svenevole del complottismo e del QAnonismo legati al visionarismo allucinato dell’estremismo xenofobo, forcaiolo, omofobo e retrivamente conservatore del magnate.
L’allarme risuona così sui social: «Fughe di notizie illegali dal corrotto ufficio del procuratore di Manhattan indicano che l’ex presidente degli Stati uniti sarà arrestato martedì della prossima settimana. Manifestiamo, riprendiamoci il paese»; praticamente un essere davanti alla “morte del sogno americano” se si lascerà agire il governo che sostiene l’estrema sinistra e gli anarchici (sic!). Alla spudoratezza non c’è proprio limite.
E tanto basta per mettere in allarme su un nuovo assalto alle istituzioni, su quel nuovo 6 gennaio che paventavamo all’inizio di queste righe.
Colui, poi, che nell’eventualità dell’incriminazione da parte della procura di Manhattan dovrebbe firmare il mandato di estradizione tra gli Stati per far tenere il processo nella sua sede di New York, è niente di meno che il probabile rivale di Trump alle primarie repubblicane del 2024: il quarantaseiesimo governatore della Florida, Ron DeSantis.
La faccenda è un vero ginepraio e gli Stati Uniti non ne verranno fuori facilmente: messo da parte, in ipotesi, Trump, travolto dai suoi stessi scandali, l’alternativa rappresentata da DeSantis non è per niente rassicurante: i crismi del repubblicano conservatore ci sono tutti.
Dai diritti sociali a quelli civili, contro aumenti salariali, contro garanzie maggiori su lavoro e salute, passando per una presa d’atto del cambiamento climatico pur senza accettare di riconoscerne l’oggettività globale e di passare per uno che ci crede. Sull’aborto si può immaginare come la pensi; e sul possesso delle armi pure.
Ogni volta che si spulcia il campo avversario, viene davvero facile apprezzare anche il programma più moderato dei democratici. Ma, infine, ci si rende conto che l’alternativa non sta nell’amministrazione Biden: che non è una amministrazione progressista, perché non prova a risolvere le contraddizioni sociali, non fa nulla per promuovere la cooperazione tra i popoli ma ha imposto un nuovo bipolarismo imperialista con il corso della guerra in Ucraina.
La politica di espansione della NATO nell’Est Europa non è mai stata criticata in questi frangenti: anzi, è stata incentivata e promossa.
Alla smargiassata ostentazione del trionfo della volontà trumpiana, questo è il vero dramma, non fa da contraltare una politica che guardi prima di tutto ai più deboli: egualitariamente a tutto tondo. Il sogno imperiale americano appartiene, così, tanto alla presunta “sinistra” di Biden quanto alla certificata destra del tycoon dal ciuffo biondo.
MARCO SFERINI
19 marzo 2023
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