L’immagine diventa iconica perché realizza un punto nuovo di partenza o, se vogliamo, di ripartenza. Il familiare abbraccio tra Elly Schlein e Giuseppe Conte, con Maurizio Landini a fare quasi da garante dell’evento nell’evento della manifestazione contro lo squadrismo teppistico e un governo che non riconosce fino in fondo l’antifascismo come valore fondante la Repubblica, è certamente uno scatto fotografico in avanti nei rapporti tra PD e M5S.
Il raffreddamento delle relazioni, dopo la caduta del governo Draghi e una campagna elettorale settembrina fatta di reciproche accuse su agende liberiste e nuovi progressismi, su pandemia, guerra e riforme sociali, pare essersi attenuato. Se non del tutto evaporato.
L’avvento della nuova segretaria democratica, l’inaugurazione di quella che viene definita una nuova stagione per il PD, nemmeno più tornato alle sue origini, ma allineato ad una precedente storia di sinistra (per quanto moderata fosse già allora), sono tutti elementi distintivi di un percorso che oggettivamente è una conseguenza del logoramento di una interpretazione politica del liberismo a tutto tondo per provare a riabbracciare elementi di socialità e di giustizia sociale che erano andati letteralmente (e volutamente) smarriti nel corso degli ultimi decenni.
Trasformazioni incontrovertibili? Nulla nella vita è immodificabile, figuriamoci se può esserlo sul piano politico. sulla traduzione collettiva e singola delle esigenze popolari in proposte di riforma tanto delle istituzioni quanto nella formulazione delle leggi a maggiore tutela dei ceti più deboli, discriminati e sfruttati.
Conte e Schlein dicono di rappresentare, dopo non poche elaborazioni concettuali, ideologiche e concretamente attuali, una epoca di progressismo rinnovato e di voler quindi solidificare l’opposizione attorno a questo riformismo dai tratti socialdemocratici da un lato e da quelli un po’ più populisti dall’altro. Ma, giurano, su Costituzione, scuola, sanità e lavoro si procede uniti nel riconoscimento del valore “pubblico” di questi elementi portanti della società e del singolo cittadino ed individuo.
Significherebbe essere innanzi ad una svolta più che epocale, visto che, almeno fino a poco tempo fa, tanto il PD quanto il M5S sono stati resilientemente capaci di adeguarsi a qualunque stagione trasformistica gli si presentasse davanti. Grillismo e renzismo forse sono alle spalle di entrambe le forze politiche, ma come dimenticare la velocità con cui si passò dalla ipotizzata rivoluzione pentastellata, dal Parlamento da “aprire come una scatoletta di tonno“, al dualismo governativo con la Lega?
E, siccome chi è senza peccato è sempre invitato a scagliare la prima pietra, come non scordare che dal governo Conte II, forse il più vicino a determinate istanze riformistico-sociali, sia il PD sia il M5S passarono nella maggioranza di unità nazionale draghiana e ne fecero convintamente parte senza troppi distinguo?
Per cui, senza diventare dei maestri del sospetto, prima di certificare il definitivo passaggio dei democratici e dei pentastellati ad una nuova era della loro politica, ad una vera e propria conversione neo-progressista, serve verificare empiricamente intenzioni, assunzioni di responsabilità con baci, abbracci e strette di mano pubblicamente esibite per risalire la china nei sondaggi e siglare così un patto non scritto di opposizione netta al governo delle destre.
Sarebbe una buona notizia, e certamente lo è, se non fosse che, ad esempio, su un tema non certo di secondaria importanza Elly Schlein inciampa: è l’invio delle armi all’Ucraina nella tempesta di fuoco, ferro, fiamme e morti che devasta l’Europa dell’Est e che è combattuta da due blocchi imperialisti e militaristi. Qui la differenza con i Cinquestelle si palesa in tutta evidenza.
Ma non per questo, per un tratto apparentemente più critico contro la guerra, l’M5S vinca ai punti la gara del “chi è più progressista oggi in Italia“.
Il punto vero, che mi pare emerga dall’osservare complessivamente tutti questi fattori e queste dinamiche, è sostanzialmente questo: se soltanto la consunzione elettorale ha spinto il PD ad inseguire la domanda di sinistra che la gente reclama con comportamenti astensionistici, con voti di protesta variamente sparsi, quanto è possibile ritenere concreta la svolta progressista avvenuta con il voto delle primarie che ha premiato Elly Schlein?
Ogni volta che ripercorriamo le vie dolorose di criticità interna, e del loro rapporto soprattutto esterno, tanto del PD quanto del M5S in questi anni difficili, dobbiamo tenere a mente che, se si osservano davvero da vicino, circostanziandole per bene, le cause che hanno riportato queste due forze a posizioni marcatamente sociali, meno compromissorie con il taglio liberista, securitario, populista e mercatista (nonché fieramente atlantista) tenuto nel corso dell’ultima legislatura, l’approdo finale è più che altro subito piuttosto che voluto.
Il PD e il M5S ritornano ad assumere posizioni progressiste perché hanno fallito nei loro compiti originari: essere una destra economica mascherata da centrosinistra liberale l’uno; essere un partito “pigliatutto”, interclassista, né di destra e né di sinistra l’altro.
La rivoluzione liberista del primo e quella populista, dai tratti un po’ ecologisti, del secondo sono naufragate davanti alle incompatibilità manifeste con una complessità del sistema che pretendeva una sempre maggiore saldatura tra uno Stato forte con i deboli e accondiscendente con i forti, ed una vasta area di popolazione incapace di leggere nei segnali evidenti della crisi economica una opportunità di riscatto sociale, di recupero della criticità necessaria per far nuovamente valere i diritti del mondo del lavoro.
La destra si è resa così disponibile ad una lotta multistrato, poliedrica: come opposizione e come forza di governo. Nonostante le differenze evidenti tra Forza Italia e il partito meloniano, tra la Lega e il resto della coalizione, l’unità elettorale prevale su quella politica: perché per le destre la politica è mero opportunismo, è l’occasione per realizzare le proprie convinzioni fino ad un certo punto.
Tutto il resto è condiscendenza verso il potere per il potere, mostrandosi così altrettanto trasformista quanto il centrosinistra e lo stesso M5S.
Al di fuori delle forze politiche escluse dalla partecipazione parlamentare, dichiaratamente anticapitaliste, come Rifondazione Comunista, Potere al Popolo e altri partiti ancora più piccini, il resto del parterre partitico e di movimento presente nelle nostre Camere ha fatto tanti giri di valzer da rendere possibile l’impossibile e viceversa.
Giorgia Meloni, dal prima al dopo del governo Draghi e dal prima al dopo della campagna elettorale, è diventata fermamente europeista, filoucraina, filo-NATO, liberale quanto basta per essere accettata nelle cancellerie d’oltralpe e in quelle di mezzo mondo. Rispettabilità, galateo istituzionale non percepiti come tradimento delle promesse autarchiche, nazionaliste e rigidamente conservatrici e di destra teo-con che in campagna elettorale tuonavano dai palchi di mezza Italia.
La divisione dell’opposizione post-voto e la litigiosità tra PD e M5S avevano fatto della destra un monoblocco certo di poter svolgere il proprio ritrovato e rinnovato ruolo di fedele servitore del liberismo nostrano senza alcun problema nei rapporti dialettico-politici entro il perimetro istituzionale.
Le prime crepe le ha aperte il sindacato con le critiche sulla legge di bilancio e, strano ma vero, una opinione pubblica che si è più che giustamente indignata per i primi segnali di restringimento delle libertà personali che si sono mostrati nel cosiddetto “decreto anti-rave“. Le difficoltà economiche globali hanno fatto il resto: il prezzo dei carburanti, le accise, il costo dell’energia elettrica e del gas, la guerra, la coda della pandemia, i rapporti internazionali.
E’ con le elezioni dello scorso settembre che, non tanto nel M5S, che aveva già intrapreso un nuovo viatico come unica vera forza di progresso e di modernità sociale, quanto nel PD si sono aperte tutte quelle contraddizioni che, già in precedenza, avevano portato alla scissione di Italia Viva, alla separazione più netta tra l’anomalia renziana dentro un contesto di centrosinistra.
I democratici venivano così lasciati a dibattersi tra una linea più liberal-centrista (filo-confindustriale e nettamente istituzionalista) e una che rivendicava uno spostamento verso una sinistra moderata che potesse riaggregare anche Articolo Uno e, soprattutto, lo scontento diffuso disceso nelle malebolge della non partecipazione al voto e alla vita civile e civica del Paese.
La vittoria di Elly Schlein è, con il voto esterno al partito, la rappresentazione fenomenica di questo disagio sociale, così come lo è l’aggrapparsi al M5S del corso contiano di tanta parte di lavoratori e lavoratrici, di precari, disoccupati e pensionati che non vedono altro a sinistra.
L’impercettibilità di generosi tentativi della sinistra di alternativa in questo senso, è ancora un tratto dominante nel difficile ristabilimento di una connessione tra bisogni sociali e politica sociale, tra domanda di sinistra e sinistra senza ombra di dubbio.
Unione Popolare può diventare la casa comune di quella fetta di popolazione e di elettorato che, nel momento in cui le prove di governo chiameranno nuovamente il PD al suo ruolo di mediatore tra istanze sociali e privilegi delle classi agiate e imprenditoriali, leggeranno in ciò l’ennesima irricevibile compromissione.
Il lavoro della sinistra di alternativa, da Rifondazione a PAP, dalla federazione di Unione Popolare a chiunque voglia essere l’alternativa tanto alle destre quanto alle politiche riformiste di un progressismo pronto a governare ai patti del liberismo, deve potersi fondare su una duttilità che non sia stravagante improvvisazione nei momenti elettorali e, al contempo, non sia nemmeno settarismo ottuso.
Dobbiamo dunque dialogare col PD di Elly Schlein? Quelli che hanno sempre certezze rispondono: intanto è il PD che non vi considera nemmeno. In quel caso se ne prende atto, molto semplicemente. Senza rassegnazione. Ma la domanda rimane? Questa presunta nuova stagione del progressismo italiano ci pone o no il tema di una riconsiderazione dei nostri rapporti col PD?
Ce lo pone, certamente. Ma non al punto di ritenere che i democratici, che internamente avrebbero scelto Bonaccini come segretario nazionale e una linea politica tutt’altro che da abbraccio con Landini e con Conte, siano oggi quel partito della sinistra moderna e riformista capace, ad esempio, di dire nettamente NO alla guerra, sì alla riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore a parità di salario, oppure ad una esclusione del privato da tutti i maggiori centri nevralgici dello sviluppo del Paese.
Nonostante tutto questo sia oggettivamente vero, perché reale e constatabile de facto, e quindi ben consapevoli di cosa ancora oggi sia il PD e di cosa intenda rappresentare, nulla va escluso mai a priori. Perché è proprio escludendo aprioristicamente temi, persone, problemi, diritti, doveri e bisogni, che la sinistra moderata è diventata centro politico e destra economica, mentre i Cinquestelle, che si pensavano così forti da snobbare qualunque tipo di alleanza, si sono attorcigliati in un groviglio di contraddizioni da cui forse nemmeno oggi sono completamente venuti fuori.
Costruiamo Unione Popolare come federazione autonoma della sinistra di alternativa, anticapitalista e antiliberista. Costruiamola come un presidio di costituzionalità ed antifascismo, di libertarismo e democrazia sociale. Costruiamola senza escludere che questo Paese possa un giorno avere di nuovo una sinistra moderata che dialoga con una sinistra radicale, con una sinistra che è intransigente – per quanto le è possibile – contro ogni ingiustizia, contro ogni discriminazione, contro ogni sfruttamento.
MARCO SFERINI
5 marzo 2023
foto: screenshot da You Tube