C’è chi l’ha cantata da sempre con i “trallaleru” dei caruggi, chi con l’intramontabile Paolo Conte, chi con “Piazza Alimonda” di Francesco Guccini. Genova si fa ricordare, come tutte le città che adescano colline e mare attorno a sé, che impediscono le zone rosse perché sono porti e passaggi naturali di popoli tra i più diversi.
Bastimenti carichi di migranti le sono scivolati dai fianchi sabaudi, memori della gloriosa storica marinara da repubblica arisocratica, e hanno messo la prua sul Nuovo Mondo.
Hanno valicato gli oceani, sono arrivati dove la globalizzazione dei mercati è arrivata irruente, nella seconda metà del Novecento con tutta la sua innovativa e implacabile carica liberista, pronta a fare delle comunità dei business, dei collanti di mafia e di pizza connection.
Genova le zone rosse non le ha mai conosciute, cinte di mura metalliche a reti sopra dei jersey in cemento armato solo per proteggere la riunione dei grandi otto potenti Stati del mondo: altrimenti se ne sarebbe potuto intendere, perfino nel lontano 2001, che, a leggerne le cronache dei giornali, ci si riferisse ai quartieri un tempo stracolmi di consensi per il Partito Comunista Italiano, per il sindacato e per Lotta Comunista.
Genova, invece, in quell’estate torrida di ventidue anni fa è una città al fronte: ci arrivi in treno, macchina, pullman o anche in scooter e ti capita di sbagliare strada. Imbocchi un ponticello di pietra bianchissima, provi a vedere se qualche via porta al mare, a Brignole, dove deve partire il corteo dei migranti.
Ma niente. Allora, sì, ti sei un po’ perso sulle colline della Superba e chiedi informazioni al primo che passa.
E’ una ragazza che fuma uno spinello. «Scusa, compagna – vai un po’ per consonanza stereotipizzante… mica una che si fa una canna potrà essere di destra! – vado bene per la Fiera e Brignole?».
Alza lo sguardo e risponde prontamente: «Sì, compagno, alla prima qui a destra e poi a sinistra». Grazie, ciao. Così lo scooter imbocca una discesa ma, girato appena la prima curva quasi a gomito, là in fondo, a poche centinaia di metri ci sono due fila di carabinieri con elmi e scudi.
Vedono arrivare lo scooter in velocità ed alzano scudi e impugnano i manganelli. Mi fermo bruscamente e avverto per primo: «Ho sbagliato strada!». «Eh sì – fa l”ufficiale preposto – se vuole andare a Brignole deve girare ancora a destra». Altro che a sinistra, sempre a destra. Anche allora.
Del resto, al governo c’è Berlusconi; il ministro degli esteri è Gianfranco Fini e quello degli interni è Claudio Scajola che si troveranno facilmente nelle cronache di allora: per la presenza in Questura a Genova e per dichiarazioni non proprio eleganti e convenienti ad un ministro il secondo.
Insomma, parcheggio lo scooter dove il giorno dopo sarà eretta una muraglia di containers ad ulteriore protezione dei disordini che saranno istillati nei cortei pacifici interrotti arbirtrariamente nel percorso autorizzato.
Ma questo non lo si può ancora sapere. Probabilmente Carlo è già in mezzo a tutta quella folla, magari l’ho anche incontrato, sfiorato con lo sguardo. Non lo saprò mai, perché non lo conoscevo come lo avrei conosciuto e riconosciuto appena quarantotto ore dopo.
La sua foto stava su tutti i telegiornali mentre una colonna nera di fumo saliva dalla Foce e da altre zone della città. Il ricordo che mi porto appresso è di un entusiasmo veramente indescrivibile nell’incontrare al corteo dei migranti e dei popoli compagne e compagni di ogni angolo della Terra: prima i greci, poi i brasiliani.
Mentre cammino e tengo la mia bandiera rossa ben alta, mi passano accanto delle orchestrine improvvisate: volantini scritti in tutte le lingue attirano l’attenzione. Ci sono bambini che giocano, adulti che discorrono di enormi sofismi sulla sinistra e sull’anticapitalismo, altri vestiti da istrionici arcobaleni di pace, perché le guerre ci sono sempre…
Carlo è lì in mezzo, vivo ancora per poche ore. Il giorno dopo in piazza Alimonda un proiettile metterà fine alla sua giovanissima esistenza. Scapestrata e ribelle, con una voglia di fare qualcosa per sentirsi per un attimo dentro un senso capace di riempire una intera vita. Fare qualcosa per dimostrare che c’è chi vuole “un altro mondo possibile“.
Il grigio ottenebrante del potere ha pronta la controffensiva: dai Black Block che tambureggiano ai manganelli dell’ordine che si fa completo disordine. Dalla camionetta dei carabinieri che gli passa sul corpo più volte, là a terra, mentre qualcuno grida: «L’hai ucciso tu, l’hai ucciso! Col tuo sasso!».
I tentativi di depistaggio sono cominciati: l’accusa è tutta per il movimento no-global, contro il Social Forum: se Carlo sta lì con un buco in fronte, non è per la mano di un carabiniere che ha impugnato una pistola e ha sparato centrando uno zigomo del ragazzo. E’ per un sasso.
Forse lo stesso con cui è stato tracciato un solco, un piccolo foro per far credere che la morte fosse stata causata da una piccola pietra raccolta dal selciato.
Invece no, come scrive poeticamente Erri De Luca: «Lui si mischiò con l’acqua agitata / pensava che il mare non andasse preso a calci». Carlo scese in piazza qule giorno per far parte di quella grande maggioranza che viene oppressa ogni giorno, ancora oggi, dai potenti di questo mondo: da un capitalismo criminale ed omicida, da un imperialismo che ne è il braccio armato e bellico, da un mercato che ne è lo specchio delle nostre brame, dei nostri bisogni irreali e fittizi.
“Per sempre ragazzo” a cura di Paola Staccioli (edizioni Tropea, 2011), uscì nel primo decennale dal G8 di Genova e dalla morte di Carlo. Che davvero è rimasto quello che allora era.
Non solo perché noi ce lo ricordiamo così, ma perché la sua immagine iconica è diventata un manifesto di una gioventù ribelle che deve poter riprendersi questa vita, questo pianeta, trattandolo con rispetto: cominciando da tutti gli esseri viventi che lo abitano e comprendendo l’interezza della natura e della naturalità che appartiene anche a noi.
Racconti e poesie a dieci anni dalla morte di Carlo Giuliani possono e debbono essere letti anche oggi, dopo più di vent’anni.
Perché la freschezza di quei racconti e di quelle splendide, musicali parole è la florescenza di un discorso più cupo e ricco di particolari che riguarda tanto i grandi riuniti dentro la zona rossa, quanto i manifestanti presi a botte e torturati in una sospensione del diritto e della democrazia che non aveva precedenti nell’Italia del dopoguerra e della Costituzione.
Teniamo sempre a mente che la storia di allora non va tagliata con l’accetta, nutrita di amore da un lato e di odio dall’altro. Come scrive epigraficamente Lidia Ravera, «Il carnefice ha 20 anni. La vittima 23». Quello che deve interessarci è la comprensione dei fenomeni sociali e di come il potere vi si muova attorno, sopra e sotto, cerchi di dominarli e a volte sia costretto a subirli.
Quello che ci preme è diminuire le ingiustizie sociali, quelle civili e far progredire questa esistenza verso una uguaglianza che abbracci indistintamente tutti gli esseri viventi, umani e animali nel pieno riespetto di una armonia naturale che oggi è sempre meno riscontrabile nelle stagioni troppo fredde, troppo calde e nella devastazione conseguente dei territori.
La lotta contro la globalizzazione, quel movimento no-global, non si sono esauriti: si potrebbe dire che si sono lentamente evoluti ed anche che, in parte, sono venuti meno, per una consunzione dovuta alle velocissime trasformazioni economiche e sociali e al passaggio di consegne da una protesta all’altra con delle soluzioni di continuità che non aiutano la tensione “rivoluzionaria” permanente intesa come critica costante dell’esistente.
Genova 2001 rimane un crinale di passaggio da una fase sociale e politica ad un’altra per la sinistra di questo Paese. Dopo i tragici eventi del G8, compresi benissimo dalla cittadinanza che si schierò in massa con i manifestanti, mutò la tattica del progressismo, illudendosi di essere all’apice di una nuova stagione di espansione dei diritti e delle rivendicazioni sociali.
Fu così per breve tempo, ma non fu inutile. Nessuna lotta lo è se sposta anche di una sola virgola un intero capitolo di un più lungo e tedioso discorso.
Per questo, Carlo sarà per sempre il nostro ragazzo.
PER SEMPRE RAGAZZO
RACCONTI E POESIE A DIECI ANNI DALL’UCCISIONE DI CARLO GIULIANI
AA.VV.
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MARCO SFERINI
15 febbraio 2023