Più potente di tutto è la terra che non possiamo dominare. Sono le faglie in cui non ci possiamo inserire. E’ la catastrofe che non si può evitare. Con nessuna astuzia, con nessun ingegno. Noi possiamo costruire palazzi più resistenti al sisma, ma il sisma comunque arriverà. E sommergerà ogni esistenza: umana, animale, naturale. Terra, cielo e mare precipitano nella catastrofe: esplodono i gasdotti, migliaia di famiglie sono sotto condomini altissimi sfracellatisi al suolo come se fossero stati minati ai quattro lati.
Il sisma si rende involontariamente complice della corruttela del regime turco, di palazzi e intere cittadine e sobborghi ricostruiti dopo il 1950 senza seguire alcuna precauzione dettata comunque dai regolamenti comunali e dalle leggi statali. La forza dell’abuso e l’abuso della forza si compenetrano, creano un mix detonante che atterra ogni tempo trascorso in quella faglia di territorio al confine tra due, tre guerre insieme.
Lì si scontrano tre placche, tre grandi pezzi di sottosuolo, impenetrabili, persino inconoscibili. L’Europa, l’Asia, l’Arabia. Sembra la metafora perfetta per sintetizzare il martirio costante di un crocevia storico di popoli che si sono dominati e che sono stati dominati nel corso di migliaia e migliaia di anni: dalla Terra tra i due fiumi all’impero dei persiani, dai romani ai parti, dagli ottomani ai colonialisti del XIX e XX secolo.
I terremoti dall’Anatolia al Medio Oriente sono molteplici, sono innumerevoli e sono l’epicentro di una congiunzione di faglie tettoniche che si sfregano in un attrito feroce, che fanno sussultare e ondeggiare quel mondo complesso che sta in superficie e che non conosce pace.
La linea di confine tra Turchia e Siria, là dove sta Kobane, la città martire, la città riconquistata dai curdi in lotta contro il Daesh, è un puzzle demoniaco di tanti pezzi incomponibili: piccole città votate ancora ai terroristici ed olocaustici princìpi dello Stato islamico; città sotto il controllo di Ankara; altre sotto quello di Assad.
La corruzione e la dittatura stanno su entrambi i lati della faglia tettonica. Il terremoto non riesce nemmeno a separare i buoni dai cattivi, gli onesti dai corrotti, ma fa poltiglia, ammassa le macerie e i corpi di innocenti sorpresi nel mezzo della notte, quando quasi tutto è silenzio, quando il freddo gelido dell’inverno pare aver addormentato anche la sabbia del deserto e le dure increspature delle colline e delle montagne del Kurdistan.
Di uno Stato mai nato, di un popolo senza patria, senza una nazione in cui oggi potersi disperare: ma costretti a farlo in due paesi che gli sono estranei. I curdi sopravvivono ad ogni tentativo di sterminio di massa, di guerra contro loro dall’Iran all’Iraq, dalla Siria alla Turchia. Non c’è sisma che li possa inghiottire se non sono riusciti a farlo le guerre che li hanno visti, loro malgrado, protagonisti.
Öcalan è vivo, rinchiuso da venticinque anni in qualche isola sperduta del Mediterraneo. Le bandiere del PKK sventolano ogni tanto nelle manifestazioni, mentre la repressione politica governativa si fa sentire: lo stato delle carceri turche è tra i peggiori al mondo. Le torture, le vessazioni, le reclusioni senza motivo non si contano nemmeno più. Giornalisti che hanno solo osato fare un servizio sui rapporti di corruttela tra il governo e le aziende che hanno, ad esempio, edificato molti di quei palazzi che sono crollati col terremoto, sono finiti in galera per anni.
I terremoti sono tanti e non scaraventano al suolo soltanto i corpi ma anche gli animi, le sensazioni, le emozioni. Insomma, le vite a tutto tondo cui non è dato spazio di esistenza, ma solo di sofferenza. Per il semplice, banalissimo e malevolo motivo di essere curdi, di non essere turchi, siriani, iraniani o iracheni.
Le nazioni costruite a tavolino dalle mappe di Sykes e di Picot, passando per la Conferenza di Sanremo del 1920, si sono sgretolate sotto il peso degli imperialismi di fine Novecento, mentre galoppava il liberismo conquistatore di nuove speranze per i centri di potere emergenti: primo fra tutti quello della Repubblica stellata. La fase del terrorismo globale ha investito quell’Anatolia come uno tsunami investe le coste del Giappone o delle Filippine. Annichilendo qualunque cosa trovasse sul suo cammino.
Sono gli anni della ricollocazione globale delle forze in campo: le Guerre del Golfo seguono ai conflitti regionali e l’obiettivo si sposta su una geopolitica mondiale che assiste al giganteggiare della Cina, alla sua intromissione negli affari del caleidoscopio mortifero degli Stati africani sempre in lotta intestina, golpe dopo golpe, strage dopo strage, genocidio dopo genocidio.
A far data da quello degli armeni, proprio nell’area anatolica, nel cuore di quell’ex Impero della Sublime Porta che non c’è più e che, come ultimo atto della sua comunque grande storia, decide di deportare un’intera popolazione dalle loro case al deserto siriano, fin dentro la Mesopotamia dove, pare, dovesse ancora esserci traccia di quella civiltà che ricordava le grandezze dei giardini pensili, le maestose rovine ben conservate di Ninive, fatte scempio dalla barbarie dello Stato Islamico.
I terremoti, come si evince, sono tantissimi: quelli del mondo inconoscibile, sotto ai nostri piedi, ci ricordano che gli altri, in superficie, non sono meno distruttivi, non sono certamente meno impattanti sulla vita di una umanità che ha le sue memorie proprio in quel sottosuolo dove si riconosce più abietta e anche più concreta. Perché bada materialisticamente ai meri interessi di parte e perde di vista la solidarietà comune, l’interesse generale, la condivisione e la comunanza degli eventi che prescindono dalla nostra volontà.
Il terremoto come catastrofe non ci ha mai insegnato niente sul piano di giustizia di una morale pervasiva. Ci ha abituato ad una convivenza con l’asperità, con la durezza dell’incontrollabile, solidificando ancora di più i nostri già marmorei presupposti antropocentristi e, nella nostra dannata specie dominatrice su tutto e tutti ad essere ancora di più razzisti e criminali: per emergere come razze elette, come popoli eterodiretti da governi assurdi, in quanto governi, e da oligarchie patetiche così come da democrazie filibustiere.
Il regime turco tenta di spacciarsi oggi come mediatore per una guerra in cui si mostra neutralmente estraneo. Un paese della NATO, un paese quindi apertamente schierato, perché altrimenti non sarebbe e non potrebbe essere. Il suo presidente è quel “dittatore” che lo stesso Mario Draghi si lasciò sfuggire durante una conferenza stampa, anche se la bontà delle reciproche relazioni diplomatiche esigettero una pronta riparazione al danno fatto.
Ma il mondo lo sa come chiamare, alla fine, i suoi pallidi eroi di carta pesta: temporaneamente al comando di una nazione che sta a metà tra l’Occidente e l’Oriente, sulla via di Marco Polo, su quella della Seta, vecchia e nuova. E ciò che si dice ufficialmente del terremoto somiglia tanto a ciò che si può dire ufficialmente di un presidente o di un capo di governo. Non è tutta colpa del sisma se ci sono ora più di cinquemila morti e se la cifra salirà tristemente a quelle decine di migliaia prospettate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
E’ colpa del nostro mondo, di come lo abbiamo fatto, di come continuiamo a farlo. Il terremoto è una tragedia immane, ma è una tragedia naturale solo se si lascia fare tutto, ma proprio tutto alla natura. Se sopra il confine della terra col cielo stanno formicai di animali umani dentro a case erette solo per ricavarne uno squallido profitto, la buona fede del sisma deve essere confermata. E’ comprovata dalla nostra consapevolezza, dalla certezza che abbiamo di essere, ancora e soprattutto oggi, peggiori dell’ambiente in cui abitiamo.
Ovunque, senza troppe distinzioni di sorta. I terremoti non sono qualche specie di punizione della Grande Madre Terra contro i suoi figli indegni di lei. Sono sempre e soltanto un evento normale per un pianeta che cerca i suoi spazi: sotto e sopra il suolo.
La lezione che dovremmo trarne è principalmente questa: non siamo padroni di niente e di nessuno. Nemmeno della nostra esistenza. Tanto meno della morte.
MARCO SFERINI
7 febbraio 2023
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