L’evento, un gigantesco pallone aerostatico bianco su cielo azzurro, che aveva del fiabesco, evocando atmosfere tra il Piccolo principe e una (augurabile) invasione aliena, si è subito invece rivelato come una specie di spy story da Guerra fredda, quando i protagonisti dello spionaggio aereo sopra l’allora Unione sovietica erano i jet americani.
Ed è subito scontro tra le «alte sfere» degli Stati. Washington ha accusato Pechino di azioni spionistica sopra una base militare del Montana con testate nucleari, Pechino abbassava i toni ma sembrava colta insieme sul fatto e di sorpresa, perché lo stesso Pentagono dichiarava che «episodi del genere» si erano già verificati, ma mai erano stati sollevati, anche perché così fan tutti.
Oltre alla perplessità che con tanto hi-tech e aerei supersonici invisibili, serva ancora un pallone aerostatico per spiare, resta l’interrogativo del perché questa rivelazione avvenga a due giorni dalla visita del segretario di Stato Usa Blinken a Pechino da Xi Jinping. Comunque sia le scuse cinesi – «è di uso civile per rilevazioni meteorologiche» – e alla fine l’ammissione del Pentagono che «non rappresenta un rischio per noi» non sono bastate a non far saltare la visita di Blinken che tra gli altri argomenti aveva anche la guerra ucraìna e, in essa, il ruolo della Cina. Un fatto è certo. Anche in questo episodio si può leggere il deterioramento dei rapporti internazionali.
In particolare in Asia, sulla scia della guerra in Ucraina. Una scia che si sta allargando nel mondo, non è un pallone gonfiato, finendo su focolai già accesi. In Medio Oriente nel silenzio generale viene colpito il centro industriale di Isfahan in Iran, credibilmente da Israele o molto più verosimilmente dagli stessi Usa che da anni portano avanti in loco una guerra coperta, e accade che da Kiev rivendichino: «Vi avevamo avvertiti». E accade che l’ineffabile segretario della Nato Stoltenberg – fuori oceano, dall’Atlantico al Pacifico – apra il suo viaggio in Asia minacciando: «Oggi la guerra è in Europa ma tra un anno potrebbe essere in Asia».
Dove la tensione è alta su tanti dossier: a partire dall’hi-tech, con le nuove restrizioni protezioniste Usa a Huawei e per risposta quelle pronte sui pannelli solari da parte di Pechino; ma soprattutto con l’avvio di manovre militari Usa in Asia-Pacifico: dopo aver elevato i rapporti militari con Giappone e Corea del Sud, due giorni fa c’è stato l’accordo per l’accesso a basi militari strategiche nelle Filippine (in caso di guerra su Taiwan, che riarma) e anche per la produzione congiunta di armi con l’India; e nel Pacifico meridionale, dopo 30 anni riapre ambasciata Usa nelle Salomone (che hanno firmato accordo di sicurezza con la Cina nel 2022) e nuovo accordo militare con la Micronesia, etc. In questi giorni l’’organo di stampa dell’Esercito cinese definisce gli Usa «la principale minaccia alla pace dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi.
Intanto in campo occidentale regna la dissimulazione. «Non siamo in guerra con la Russia» dice Biden, dopo l’annuncio di invio carri armati Abrams, «Non siamo in guerra con la Russia», Macron dopo la disponibilità a inviare missili, «Non siamo in guerra con la Russia» ribadisce il governo Meloni, e perfino l’ineffabile segretario della Nato Stoltenberg lo ha ripetuto di fronte alla diffusa disponibilità ad inviare nuovi tank: «Non siamo in guerra con la Russia».
L’insistenza pelosa svela però la dissimulazione sull’escalation, che la decisione di inviare carri armati rende evidente: queste nuove armi per la loro capacità, spostano l’orizzonte difensivo e si pongono sul terreno offensivo fino a poco fa negato. E la dissimulazione è ancora più evidente perché si tratta ormai di rispondere, a quasi un anno esatto dall’inizio dell’invasione russa, all’insofferenza, alla caduta di coinvolgimento per questa guerra anzi al suo rifiuto netto – come al riarmo che la sottende per riempire i depositi che si vanno svuotando – da parte dell’opinione pubblica occidentale, come dimostrano i tanti sondaggi in Italia, Germania e Francia.
Anche perché in poche ore, l’impensabile è diventato normalità: dai tank si è passati all’annuncio dell’invio di nuovi missili a lungo raggio, con autorizzazione a colpire la Crimea – un regalo alla «popolarità» di Putin e una finestra verso la guerra nucleare; e si è aperto il dibattito sull’invio di aerei da combattimento, che in poche ore è diventata concreta possibilità, anticipazione della scellerata decisione di inviare sul campo i militari che tra un po’ emergerà.
Intanto lo zar Putin, non contento del disastro provocato con l’invasione del Donbass e dell’Ucraina, sfida l’Occidente sloggiando, con la Wagner, già presente in Libia, gli insediamenti militari della Francia da sei Paesi francofoni dell’Africa, e consolida con accordi commerciali il rapporto con il Sudafrica con cui, insieme alla Cina, annuncia manovre militari congiunte. L’ombrello che contiene tutte queste crisi sembra essere proprio quello della prolungata e ormai infinita guerra ucraìna, aspettando l’offensiva russa, che ogni giorno martella e uccide senza tregua, e la controffensiva ucraina. O viceversa.
Le «alte sfere» della guerra restano in cielo. Poche le voci contrarie – oltre al papa — alla discesa verso il baratro: il capo di stato maggiore Usa, Mark Milley che insiste sulla situazione di stallo del conflitto, per il quale, dopo 200mila morti «in equa misura da una parte e dall’altra» è difficile ipotizzare il prevalere dell’uno o dell’altro, la vittoria della Russia e tantomeno quella dell’Ucraina nel suo intento di liberare tutto il Paese; più credibile, ammoniva Milley, usare lo stallo bellico per trovare «una finestra negoziale»; e in questi giorni l’ultimo rapporto della Rand Corporation, il think tank americano legato al Pentagono – che proprio per l’Ucraina, dal 2019 al febbraio 2024 aveva elaborato una «strategia a lungo termine» di scontro con la Russia – ora invece (v. Luca Celada sul manifesto ieri) dice che la guerra non può essere vinta da nessuno, che gli Usa avrebbero tutto l’interesse ad evitare il protrarsi del conflitto e adottare misure per rendere più probabile un’eventuale pace negoziata.
Non lo fa per empito pacifista naturalmente, ma perché gli interessi degli Stati Uniti sarebbero meglio serviti evitando l’escalation in Ucraina, dai forti costi e rischi – vedi le forniture di armi che svuotano gli arsenali – perché ora c’è da elaborare una strategia contro il nemico vero, la Cina. Ed ecco che rivolano i palloni. Abbiamo una sola speranza a quasi un anno dall’invasione di Putin. Che la leggerezza impotente delle nostre solitudini esca dall’anonimato delle opinioni e dei sondaggi e scenda in campo – è già accaduto il 5 novembre – come movimento reale contro la guerra.
TOMMASO DI FRANCESCO
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