L’asfissia di una memoria stretta tra gli imperialismi in guerra

Poco lontano da Auschwitz, al di là del confine polacco, c’è la guerra in Ucraina. Poco lontano dalla linea dell’Oder, divenuto linea del fronte nell’aprile del 1945 tra Armata...

Poco lontano da Auschwitz, al di là del confine polacco, c’è la guerra in Ucraina. Poco lontano dalla linea dell’Oder, divenuto linea del fronte nell’aprile del 1945 tra Armata rossa e Wehrmacht, c’è la Germania del cancelliere Scholz. I tempi sono del tutto diversi, ma le guerre si ripetono, i riarmi di massa si ripetono, gli sporchi affari sulla pelle dei popoli si ripetono, e così i massacri, gli stermini e le tante violenze fatte alla verità dei fatti.

Il 27 gennaio del 1945 i sovietici liberano quello che diverrà da nome sconosciuto ai più, il simbolo dell’Olocausto e non solo del popolo ebraico, ma di tutti quegli esseri umani considerati dal Terzo Reich e dalla politica omicidiaria di Hitler come inferiori e indegni di vivere. Auschwitz, Birkenau. Campi e sottocampi che sveleranno la guerra di sterminio, la “soluzione finale” per andare incontro ai voleri del Führer, per eseguirli direttamente.

Pianificata alla Conferenza di Wannsee, sotto la supervisione di Reinhard Heydrich, il “macellaio di Praga“, l'”uomo dal cuore di ferro“, tecnicamente diretta da Adolf Heichmann, la cancellazione di oltre sei milioni di persone nel continente europeo fu l’obiettivo datosi dal nazismo per affermare la propria potenza razziale, per sostenere la priorità esistenziale della “razza ariana“, dominatrice, imperialista per necessità, perché destinata ad una superiorità missionaria, storicamente data, divinamente prevista.

Il 27 gennaio è alle porte. Come lo sono le nuove richieste di armamenti pesanti da parte del governo di Kiev per affrontare l’invasore russo. Adesso tocca ai carri armati.

Perché le esigenze della guerra cambiano: si prevede una ripresa delle azioni offensive in massa da parte delle truppe di Putin già tra qualche settimana, appena la primavera farà un timido capolino nel gelido inverno dell’Est. Dalla tattica alla strategia: dal reciproco lancio di missili, dal confronto fra le artiglierie leggere alla ripresa del movimento delle truppe di terra, il passo è davvero breve.

Così Volodymyr Zelens’kyj chiede alla Germania di decidersi: sostenere o no l’Ucraina in questa lotta per libertà, che vuol dire ingresso nella NATO, nella cerchia economico-affaristica europea? Sostenerla o no con i carri armati Leopard? Non saranno quelli di ultima generazione, ma vanno pur sempre bene per muovere contro le truppe del Cremlino che premono sul Dnepr, che cercheranno di superarlo e di guadagnare posizioni verso Zaporižžja e finire la conquista del Donbass.

Nessuno cerca una soluzione diplomatica. La Finlandia si dice pronta ad entrare nell’Alleanza atlantica anche senza la Svezia. La Francia di Macron ipotizza di riguadagnare terreno sugli investimenti per il riarmo superando le cifre raggiunte dal governo di Scholz. Gli Stati Uniti mettono sul campo altri due miliardi e mezzo di aiuti militari all’Ucraina.

L’Italia approverà in queste ore la proroga del decreto di invio dei propri armamenti. Tutto secretato, così che il Parlamento non debba discuterne nel merito, ma piuttosto lambiccarsi su mere questioni di principio. Giusto per far sembrare democratica la dialettica istituzionale e lasciare, alla fine, decidere soltanto al governo cosa, come, quanto spedire di armi leggere e pesanti a Kiev.

Nessuno, a ridosso del 27 gennaio, sempre più vicini all Giornata della Memoria, pensa di farne un punto di principio per aprire uno spiraglio, se non di pace, almeno per un cessate il fuoco, per cominciare a guadagnare non in armi ma in tempo e capire se vi sono i presupposti per evitare altri morti innocenti, altre carneficine, altra instabilità a tutto tondo, in Europa e nel resto del mondo.

Mai, negli ultimi decenni, come dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ormai un anno fa, la macchina del riarmo si è messa così bene in moto facendo fare oltre cinquanta miliardi di utili alle industrie americane che producono ogni sorta di obice, di carro armato, di missile, di mina, di qualunque aggeggio si atto ad offendere, mutilare, sventrare e quindi uccidere.

L’affare fa gola a tanti produttori di armamenti. Un’occasione così non si presentava, quanto meno, dalla prima Guerra del Golfo. Il piano della NATO di continuazione di una guerra per procura inizia però a sfuggire di mano allo stesso Stoltenberg: i singoli governi europei rompono l’unità di intenti e gareggiano in quanto a primato bellico, a corsa al riarmo stesso, ad affermazione di sé stessi come potenze dentro quella che non è una potenza.

L’Unione Europea ne esce davvero sfranta, divisa, affettata, lacera prima ancora di essere entrata ufficialmente in guerra.

La Russia minaccia la terza guerra mondiale, paventa l’uso di armi atomiche e riesce a farlo perché dall’altra parte non c’è la volontà di difendere gli ucraini ma di provocare il nemico di sempre, di riaprire un contenzioso per una nuova spartizione imperialista delle zone economicamente prelibate del pianeta.

Nell’Africa dilaniata dai conflitti tra presidenze fintamente democratiche dei vari Stati del Sahel e golpisti di vario genere che mirano soltanto a rappresentare un nuovo tipo di potere, si fanno strada da un lato le milizie dello jihadismo che tenta di restaurare lo Stato islamico, dall’altra i gruppi paramilitari russi della Wagner che ben presto sostituiranno le truppe francesi.

Già, la Wagner, nota per la sua fedeltà putiniana, per il suo ruolo di poliziotto cattivo in molti conflitti aperti sul pianeta. Così gli imperialismi si fanno largo. Anche così: dall’intromissione economica a quella militare, passo dopo passo si arriva a controllare vaste aree di continenti destabilizzati da decenni di conflitti che ne hanno reso esangui le popolazioni.

Il capitalismo liberista americano non concorre alla spartizione di quello che considera già suo. Per questo, le guerre altrove, come in Ucraina, servono a ridisegnare una strategia globale. Sulla pelle dei popoli europei, su quella dei popoli africani.

La Russia e la Cina hanno, da molto tempo, messo nel mirino delle loro conquiste proprio quel “terzo mondo” che, eviscerato delle sue ricchezze potenziali, produce solo miseria e spinge alle migrazioni le proprie genti. Tutto si tiene in un disequilibrio assurdo eppure così reale e oggettivamente “logico” nell’essere meccanicistico e dialettico al tempo stesso.

Ogni evento parla ad un altro evento: il Medio Oriente ai traffici che passano per il Golfo persico, l’Asia all’espansionismo del gigante di Pechino, la Russia al confronto – scontro con uno zio Sam a cui si vuole togliere il primato di gendarme del mondo e di unico motore dell’economia di mercato.

Se non si inserisce la guerra d’Ucraina in questo contesto globale, si finisce col vederne solo le cause immediate e non la complessa dinamica strategica che vi è dietro. Dietro ad ogni guerra, ma ancora di più dietro a questa ultima scoppiata nel cuore di una Europa che si credeva al sicuro dai conflitti in stile novecentesco.

Così, mentre si avvicina la Giornata della Memoria, l’interesse economico e finanziario devasta le vite dei popoli, ne fa strame e li utilizza ancora una volta a proprio piacere per garantire i privilegi di oligarchi e grandi capitalisti, finanzieri senza scrupoli, mercanti di armi e nuovi schiavisti pronti a gestire le tratte dei migranti oltre qualunque confine possibile.

Non fosse che dalla tragedia si passa quasi sempre ad una indegna farsa, si potrebbe anche chiosare seriamente sul voto parlamentare sull’invio di nuove armi a Zelens’kyj e al suo esercito.

Ad esempio, il PD del nuovo corso, quello “più a sinistra” rispetto a prima, perché non fa un atto di coraggio e vota contro il dispositivo del governo? Perché non dimostra di essere davvero cambiato, di non voler più essere quell’anomalo bicefilo liberal-liberista che è stato fino ad oggi e si schiera con una proposta di pace senza se e senza ma?

Essere democratici vuol ancora dire essere a favore della NATO, delle ragioni occidentali, quindi di quelle degli Stati Uniti d’America, contro l’imperialismo di Putin? Se vuol dire questo, è evidente che il nuovo PD, anche di Elly Schlein, non farà altro se non confermare un po’ quella che è la linea di una socialdemocrazia tedesca che, già all’inizio del secolo scorso, non ha seguito i propri dettami internazionalisti poco prima del grande massacro mondiale.

Aver votato allora i crediti di guerra, ed essere pronti a farlo di nuovo aumentando la spesa del riarmo nel bilancio federale tedesco, oltre modo consentendo anche l’invio dei Leopard all’Ucraina, non ha portato e non porterà alcun bene alla Germania, all’Europa e al mondo.

La prima volta non è stato così. Facciamo che la seconda volta non si arrivi al tragico finale che ha avuto il suo epilogo criminale in quei lager liberati, a gran fatica, nel gennaio dell’ormai troppo lontano 1945.

MARCO SFERINI

24 gennaio 2023

Foto di Pixabay

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