Il nostro “pastore tedesco” sarà oggi tumulato nello stesso sepolcro che fu di Giovanni Paolo II prima di essere proclamato “santo”. Scontato il coro di condoglianze di questi giorni per l’intellettuale e il teologo forbito, sono però in pochi a risalire agli anni precedenti e ad avventurarsi a parlare di lui quale conservatore.
Anzi, di più: un reazionario che da inquisitore dell’infinito papato (27 anni) di Karol Wojtyla (in quanto suo prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede) nella decade degli ’80 azzerò la “sovversiva” Teología de la Liberación latinoamericana, che altro non era che l’avanguardia nell’applicazione del Concilio Vaticano II. Con al centro l’”opzione preferenziale per i poveri” e quelle “comunità ecclesiali di base” che intendevano ribaltare il secolare schema coloniale (oligarchia versus peones) iniziato con la Conquista.
Non fu un caso che ad aprire la II Conferenza dell’Episcopato latinoamericano a Medellin (Colombia) nell’agosto 1968 sia stato Paolo VI in persona, nel suo unico viaggio in America Latina (e mentre era in corso l’invasione sovietica della Cecoslovacchia). Altrettanto precisa per tempismo fu la prima missione all’estero di Giovanni Paolo II nel gennaio 1979 a Puebla (Messico) due mesi dopo la sua elezione, ma per arginare le conclusioni della III Conferenza di quei vescovi, che avrebbe dovuto ratificare i contenuti e gli sviluppi della precedente.
Fu subito dopo che il papa polacco reclutò il cardinale Ratzinger a capo del Sant’Uffizio, con l’obiettivo di affossare quel Concilio ispirato da Giovanni XXIII (e attuato dove possibile da papa Montini) all’insegna di un ecumenismo che doveva essere aperto a tutti “gli uomini (e aggiungerebbe oggi papa Francesco “le donne”) di buona volontà”. Senza parlare poi di quella nuova visione circolare e sinodale della Chiesa che il papa polacco ignorò, mantenendo il centralismo piramidale romano.
Al contempo, nel subcontinente più cristiano-cattolico del pianeta, con quell’operazione venne spianata (forse pure inconsapevolmente) la strada al piano neoliberista di Ronald Reagan che contemplava fra le altre cose l’espansione delle sette fondamentaliste. Che oggi, per esempio nel gigante Brasile, quasi superano in numero i cattolici. Ma che già agli inizi degli anni ’80 annoveravano in Guatemala il generale golpista Efraín Ríos Montt, primo genocida delle popolazioni maya, e al contempo pastore della Iglesia del Verbo (mentre suo fratello Mario era vescovo cattolico).
Ma almeno al papa polacco si poteva concedere l’attenuante di provenire da un paese a “socialismo reale”, e diffidare dunque delle evoluzioni del Centro e Sudamerica con parvenze (spesso strumentali) di marxismo. Le censure e i processi vaticani a teologi come il peruviano Gustavo Gutierrez o i brasiliani Clodovis e Leonardo Boff (ma anche in Europa, fra gli altri, al coetaneo tedesco Hans Küng) invece li istruì personalmente Ratzinger.
Per non parlare poi del padre gesuita basco Jon Sobrino, trapiantatosi in El Salvador, particolarmente preso di mira da Ratzinger per i suoi scritti che umanizzavano eccessivamente la figura di Gesù di Nazareth, come a sostenere che se lui era “il figlio di dio” allora lo erano allo stesso modo tutti gli altri essere umani. Sobrino era particolarmente vicino all’arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero, assassinato dagli squadroni della morte nel 1980 mentre celebrava messa, e la cui canonizzazione fu bloccata per decenni dall’accoppiata papale polacco-tedesca.
Fino all’insediamento di papa Bergoglio che nel 2018 poté convertirlo in San Romero de America. Guarda caso anche qui in coppia con Paolo VI che era stato l’unico papa a sostenerlo. Così come nel 2014 Francesco, insieme alla precipitosa santificazione di Wojtyla, volse perlomeno anche quella contemporanea di papa Roncalli.
Non poteva quindi che toccare al primo pontefice latinoamericano riabilitare, poco prima che morissero, pure i due sacerdoti-ministri del governo rivoluzionario sandinista Miguel d’Escoto (agli esteri) e il padre-poeta Ernesto Cardenal (alla cultura) sospesi a divinis all’indomani del viaggio di Wojtyla in Nicaragua quel 4 di marzo del 1983, quando fu clamorosamente contestato in piazza a Managua (come raccontammo dal vivo sulle pagine di questo giornale).
Mentre il 6 marzo, in El Salvador in piena guerra civile, fu ricevuto dal mandante dell’uccisione di Romero, l’ex maggiore Roberto D’Aubuisson (allora presidente del parlamento); non senza aver voluto prima (rompendo il protocollo) inginocchiarsi sulla tomba dell’arcivescovo, che aveva delegittimato in vita nel maggio 1979 a Roma intimandogli che “doveva in qualche modo dialogare con quel governo”. Il tragico viaggio nell’istmo centroamericano, preparato con dovizia anche col cardinale Ratzinger, fu coronato in Guatemala con il generale/pastore Rios Montt che lo accolse all’aeroporto con tutti gli onori.
Subentrato a Wojtyla, dopo qualche iniziativa infelice anche sul soglio di Roma, Benedetto XVI si è salvato in qualche modo con l’ultimo atto da pontefice: le dimissioni.
Chissà comprese che da sapiente studioso e spiritualista quale era non avrebbe potuto mettere mano alle riforme in quel vespaio che era la curia vaticana. E così è finito col campare più da emerito che da papa, chiuso quasi nel silenzio ma pur sempre continuando a fare da ingombrante riferimento degli esponenti ed apparati tradizionalisti del cattolicesimo. Solo il suo fedelissimo assistente Georg Gaenswein improvvisò qualche isolata quanto maligna forzatura. Tanto che almeno a lui tocca riconoscere di aver rotto dall’altra sponda la coltre d’ipocrisia che incombe sul lutto di questi giorni, evocando “i diavoli che circolano” nella Santa Sede.
GIANNI BERETTA
Foto: screenshot tv