La povertà morale e sociale del Paese delle carceri

Cinque, sei, sette ragazzi scappano dal carcere minorile “Beccaria” di Milano. Ad alcuni di loro è stato revocato, poco prima di Natale, il permesso per passare il periodo delle...

Cinque, sei, sette ragazzi scappano dal carcere minorile “Beccaria” di Milano. Ad alcuni di loro è stato revocato, poco prima di Natale, il permesso per passare il periodo delle feste in famiglia. Non si tratta di vizio procedurale, ma di infrazioni disciplinari. Due di loro sono maggiorenni o forse lo sono diventati dietro le sbarre.

Alla notizia della fuga, qualche benpensante di destra, qualche forcaiolo di centro e qualche scriteriato di sinistra pensano di poter affermare che il regime sanzionatorio va rafforzato, così i controlli, così va implementato il personale delle case circondariali.

Quando si tratta di repressione, di esclusione e di relegamento dei “pessimi elementi” oltre lo sguardo pulito di una società profondamente marcescita, allora tutte le buone virtù pubbliche si mostrano per quello che sono: un insieme di ipocrisie che si traducono nel securitarismo più sincero della destra leghista e neoconservatrice, nel finto garantismo dei liberali di centro e, purtroppo, anche nella durezza di un irreprensibilità progressista che si sposa invece molto bene con il mantenimento dell’ordine esistente.

I minori che sono nelle patrie galere ammontano a circa 400 unità. C’è chi ha fatto il furtarello al supermercato e gli sono stati dati due anni come all’adultissimo che ha derubato una gioielleria o a chi ha rapinato un tabaccaio; c’è chi ha anche ammazzato: magari il genitore che lo brutalizzava, che lo costringeva a rubare, a prostituirsi, a fare quello che un adolescente proprio, per natura anche biologica oltre che per legge morale, non dovrebbe fare alla sua età.

Non che sia più giustificato un reato commesso da adulti, pienamente consapevoli di ciò che si rischi, ma una cosa appare abbastanza evidente e certa: questi ragazzi, quando sono fuggiti attraverso il varco del cantiere perenne che dovrebbe mettere al meglio il carcere milanese anche in tema di sicurezza esterna ed interna, non avevano idea di peggiorare la loro situazione detentiva, di dover tornare tra le briglie di un processo, di vedere aumentato il loro curriculm di un disonore che noi gli gettiamo addosso comunque.

Non si tratta di buonismo, di cogliere sempre e comunque qualcosa di positivo anche nei peggiori criminali. Qui si tratta di sette giovani che avranno commesso anche dei reati, ma che sono stati e vengono puniti secondo la legge antica del 1930, mediante un codice penale che non fa nessuna distinzione pedagogica in tal senso, che non è ispirato ad una logica del recupero, contraddicendo la Costituzione repubblicana, ma ad una uguaglianza tra diseguali.

Minori e adulti sono trattati allo stesso modo e invece, uno Stato capace di fare giustizia dovrebbe saper distinguere e dovrebbe fare applicare la legislazione a seconda dei casi e non livellare indistintamente.

Mentre il ministro Salvini si appresta a chiedere un potenziamento dell’organico di polizia penintenziaria, la finanziaria del suo governo taglia i fondi, tra l’altro, anche in quel settore ben preciso. Di cosa parliamo, dunque? Di una coerenza dell’esecutivo in materia di un americanissimo binomio fra “legge ed ordine“? Basta tutto questo per far apprezzare ai cittadini tutta l’insufficienza di un sistema che reprime nella severità dei giudizi, delle sentenze, nel clangore delle sbarre che si chiudono davanti alle giovani vite spezzate?

Basta lavarsi la coscienza con la pena? E’ sufficiente sapere che questi ragazzi pagheranno per i loro reati e usciranno ancora più avvelenati quando gli si apriranno le porte del carcere e rientreranno in quello che definiamo il “consesso civile“? Come vi rientraranno? Cosa offre loro loro Stato in quanto ad insufficienze, a mancate garanzie, a illusorie prospettive di futuro che non offra anche al resto di una popolazione giovanile che emigra non sui barconi, ma che comunque lascia l’Italia per cercare uno stipendio più alto e adeguato agli sforzi educativi fatti?

La risposta potrebbe essere: a questi giovani, sia fuori sia dentro e poi fuori dal carcere, il nostro Paese offre una scuola dove si disinveste e la si aggancia pretestuosamente alla variabile dipendente dell’impresa per sfruttare meglio le fresche capacità mentali ed anche la mano d’opera con un altro binomio tutt’altro che facile da pronunciare e scrivere: l’alternanza “scuola-lavoro“.

Dove si muore per inefficienza aziendale, per mancanza di sicurezza, mentre l’inesperienza viene presa a pretesto, ad alibi autoassolutorio tanto dai padroni quanto dai governi che hanno continuato su questa china di obbedienza la mercato.

Ai ragazzi che finiscono in carcere, inoltre, lo Stato si distanzia dalla Repubblica (l’insieme dei valori e dei prinìpi più puri espressi dalla Costituzione come forma del nostro ordinamento e del patto sociale così tanto costantemente tradito) in una specie di pragmatismo che sarebbe ispirato alle esigenze subitanee della popolazione.

Le politiche dei governi vengono fatte nel nome di qualche sparuto ideale legato ad una pratica dell’oggi, ad un soddisfacimento delle esigenze impellenti. Peccato che si tratti più della tutela di privilegi di poche centinaia di migliaia di persone rispetto ai milioni di sempre maggiori indigenti che crescono tanto nella gelida realtà delle statistiche e nella glaciale iperrealtà del quotidiano.

Quei sette ragazzi fuggiti dal carcere è probabile che abbiano anche approfittato dell’occasione delle feste per fuggire, oppure che siano state le festività a spingerli a forzare una trave di legno che li separava dall’esterno e provare ad andare a casa. Ma se oggi li consideriamo ingenui in questo atto, sapendo che sarebbero prima o poi stati ripresi, dovremmo al contempo ritenere i motivi che li hanno indotti all’evasione come un campanello di allarme da ascoltare. Un suono ripetuto che squilla da troppo tempo.

Dal sovraffollamento alle strutture inadeguate, dalle tante violenze che nelle carceri avvengono anche a causa del sistema repressivo, da parte di quello che chiamiamo paternamento “lo Stato“, interpretato da istituzioni a loro volta intepretate pro tempore da rappresetanti del popolo il cui strabismo verso gli interessi privati è ormai celeberrimo, strutturale ed patologicamente endogeno in una sovrastruttura di una economia dominante che deve continuare a mostrare come nemici di noi stessi i nostri stessi simili, alla base, spostando lo sguardo dal vertice della piramide antisociale.

Non è, del resto, possibile immaginare di poter abolire le carceri in questa nostra società: la gabbia è, per animali umani e animali non umani, il luogo in cui si mettono le belve feroci e anche tutti coloro che è utile vi stiano. Per qualunque tipo di scopo si renda utile all’economia complessiva che mantiene lo status quo, che fa girare interessi di ogni tipo.

Le carceri ci servono non per anticipare il crimine con effetto deterrente, ma per allontanare da noi stessi il prodotto avariato di un mondo che vi si riconosce e teme la coscienza altrui, teme il giudizio critico.

Un po’ come queste righe che, probabilmente, non fanno paura a nessuno, ma che vanno oltre le sbarre, perché non c’è mai niente di buono nella chiusura, nella costrizione, nella punizione che diventa vendetta. Di Stato. Pubblica e pubblicizzata da una stampa, da una massmediologia ingorda di storie di cronaca nera, di disagio singolo e sociale, di sofferenza. La felicità non fa notizia, non sta nelle carceri, infatti.

Meglio assecondare la visione ambivalente del bene e del male in cui il bene deve anche diventare un po’ male per mantenersi in stato di grazia liberaista. Siamo dei buoni cittadini e, per questo, dobbiamo accettare il carcere come elemento positivo. Ad esempio: come dobbiamo accogliere la notizia per cui quasi un migliaio di detenuti perderanno a fine anno la concessione della semilibertà e dovranno rientrare nelle case circondariali alla notte.

Quale è il significato de jure e de facto di questa disposizione? E’ un quesito che ci si deve porre se si tiene in considerazione il sovraffollamento delle strutture (abbiamo in Italia circa 6.000 detenuti in più rispetto ai posti nelle celle), il disagio quotidiano di tanti detenuti psicologicamente fragili, l’aumento dei suicidi. Nel corso di quest’anno si sono ammazzate dietro le sbarre 81 persone. Non possiamo fare finta di niente, nonostante i problemi ci sembrino sempre e soltanto altri.

Il governo delle destre non risolverà né questi e nemmeno gli altri con una finanziaria che è una bolgia di provvedimenti che penalizzano proprio la debolezza strutturale del Paese, che colpiscono l’esaurimento dei nervi provati dagli anni della pandemia e oggi dall’economia di guerra: i più poveri, i più vessati da anni e anni di prelievi sui diritti sociali, andranno ad alimentare la domanda di illegalità per procurarsi il minimo di sopravvivenza che gli è sfacciatamente negata.

Mentre la spesa militare aumenta, facendo genuflettere la Repubblica alla volontà nordatlantica e americana, alimentando una guerra combattuta anche da noi, e sempre meno per procura; mentre la riforma delle differenze regionali tra zone ricche economicamente, benestanti di servizi e zone povere e depresse, prive del minimo indispensabile per la tutela della persona, ad iniziare dalla sanità, avanza con la prepotenza di una proposta pseudo-autonomista, non vi sono risorse per preservare proprio i giovani dalle grinfie della criminalità organizzata.

Scuola, strutture di prossimità, cantieri sociali e culturali, centri aggregativi e di sviluppo pieno delle differenze sono proprio quello che la destra non intende mettere in pratica. Diffonderebbero la malapianta della solidarietà e della partecipazione. Meglio atomizzare con la paura e l’insicurezza quello che rimane dello stato-sociale.

Dicendo che non ce n’è per tutti. Certo che non ce n’è, almeno fino a quando a pagare saranno sempre i più poveri e non si metterà mano ai grandi patrimoni, a quelle ricchezze fatte pure illecitamente e che partono per altri paesi, facendosi scudo della Legge.

Legge e ordine. Del più forte politicamente la prima, del più potente economicamente il secondo.

MARCO SFERINI

27 dicembre 2022

Foto di falco da Pixabay

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