Non è possibile alludere alla vicenda di Alberto Asor Rosa senza rammentare il paradosso di un saggista e storico della letteratura che sarebbe subito entrato nel senso comune degli studi pur avendo esordito con un libro che in tutto pareva contrastare o anzi contraddire la lezione del maestro con cui si era formato alla Sapienza, Natalino Sapegno.
Perché Scrittori e popolo (edito nel ’65 da Samonà e Savelli, più o meno un samizdat che annunciava la Nuova Sinistra non poco irritando i vertici del Partito comunista italiano) era un libro che sembrava scartare rispetto a una linea interpretativa della nostra letteratura che da Benedetto Croce risale a De Sanctis per riflettersi nelle note gramsciane di Letteratura e vita nazionale (’50), già uscite nella prima edizione tematica dei Quaderni del carcere a cura di Palmiro Togliatti e Felice Platone.
Sapegno ne aveva innestata la lezione sul ceppo dello storicismo secolare cui pure guardava, ma adducendovi ben altra radicalità politica e verve polemica, l’ex resistente Carlo Salinari mentre alla letteratura contemporanea restava relativamente estraneo Walter Binni, l’altro grande cattedratico della Sapienza: Asor Rosa, attivo nei Quaderni Rossi di Raniero Panzieri, sembrava dunque essersi formato in solitudine e il suo libro d’esordio (subito fortunatissimo, quasi un abrasivo contrappasso per l’opinione allora dominante) pareva esplodere davvero in una terra di nessuno. Si tratta di uno studio sulla nozione di populismo relativa alla letteratura italiana più recente, vagliata entro una costellazione teorica che interroga da Gioberti a De Sanctis, da Oriani a Gramsci per riandare alla genesi e al decorso storico di un mito o meglio del processo di mitizzazione che sempre presiede alla parola «popolo».
In effetti il bersaglio di Asor Rosa è il progressismo, e cioè la politica del Pci di Togliatti, la cosiddetta «via italiana al socialismo» che il critico trentenne legge, sottolineandone gli elementi di continuità con l’ordine esistente e il sostanziale riformismo, quale manifestazione ultima del populismo secolare, l’ideologia che utilizza in termini emotivi, suggestivi, il mito del popolo nello stesso momento in cui lo riduce ad entità indistinta ovvero a un coacervo ambiguamente interclassista.
Non è un caso, quanto a questo, che Scrittori e popolo nella prima edizione, come poi in quasi tutte le sue innumeri ristampe, esibisca in copertina l’immagine del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, dove si vede in primo piano una massa di diseredati venire avanti verso l’avvenire con passo uniforme e si direbbe fatale.
Il libro è scritto nelle ampie volute di uno stile avvolgente che era stato del suo maestro ma si concede clausole di durezza urticante e ne sono bersagli, via via, prima i cosiddetti fascisti di sinistra divenuti neorealisti (scrittori passati dall’interno del regime all’antifascismo militante, quali Romano Bilenchi, Vasco Pratolini e Elio Vittorini) poi fisionomie di autori maturati nel pieno dopoguerra come Carlo Cassola e lo stesso Pier Paolo Pasolini che non sfugge, pur nella complessità di un giudizio articolato, alle accuse di elegia ed intimismo: l’analisi è contrastiva perché Asor Rosa, nel ridimensionarli e liquidarne il portato ideologico, proietta impietosamente su tutti costoro l’ombra della letteratura europea grande-borghese, dei Proust e dei Thomas Mann.
Ma appena dieci anni dopo egli pubblica l’altro suo vertice, La cultura. Dall’Unità ad oggi, quarto volume della celeberrima «Storia d’Italia» Einaudi. Rispetto al libro d’esordio, il quadro storico e teorico viene nella sostanza mantenuto ma il senso, così come l’orizzonte d’attesa, è del tutto mutato a partire dalla scelta di avere aderito al Pci di Enrico Berlinguer, che in quel 1975 gode di largo consenso ed è al picco elettorale.
Ciò che in Scrittori e popolo veniva isolato e contestualizzato come virus populista, viceversa qui è materia prima nella analisi del «senso comune» e dei relativi strumenti egemonici, i quali attestano una progressiva attenzione all’opera di Antonio Gramsci.
Specie nella analisi delle formazioni ideologiche (particolarmente limpida quella delle riviste e dei gruppi intellettuali), gli elementi di consenso e continuità prevalgono nel lungo periodo a fronte delle radicalità isolate e discontinue, perciò non è un caso che negli stessi anni Asor Rosa studi la cultura della Controriforma e sia attratto dai dispositivi ideologici e dalle pratiche egemoniche, come attestano alcuni fra i maggiori contributi della sua folta pluridecennale bibliografia, da La cultura della Controriforma (’74) a La lirica del Seicento (’75) e altri saggi di argomento modernista che saranno inclusi in Genus italicum. Saggi sulla identità letteraria italiana nel corso del tempo (’97), oltre naturalmente alla manualistica, da Sintesi di storia della letteratura italiana (’79) alla più recente, in tre volumi, Storia europea della letteratura italiana (2009).
La sua stessa prosa intanto ha mutato di passo, ora è più posata e riflessiva (non senza qualche eco del maestro Sapegno, specie nella tornitura sintattica), talora si mostra disincantata e persino perplessa nei non pochi testi autobiografici che succedono a L’alba del mondo nuovo (2002) e che ora si leggono in antologia nel monumentale Meridiano Mondadori, Scritture critiche e d’invenzione, a cura di Luca Marcozzi, edito nel 2020.
Peraltro il tempo ha reso sempre più inclusivo il suo approccio alla letteratura, dove la disponibilità a mettersi in gioco corre volentieri il rischio dell’eclettismo, se si pensa che Alberto Asor Rosa firma fra il 1982 e il 2000 la Letteratura Italiana Einaudi coordinando decine di specialisti di ogni disciplina filologica ed ermeneutica secondo la traccia metodica di un grande maestro che in tutto gli è diametrale, Carlo Dionisotti.
Rimane il fatto che per la letteratura del Novecento (fatte salve singole eccezioni come Stile Calvino. Cinque studi, del 2001) il suo interesse viene progressivamente meno. Dopo tutto resta il suo primo libro che Einaudi ancora ripropone nel 2015 con una appendice sul presente, Scrittori e massa, tanto accorata da simulare una palinodia: la massa gli appare oramai una decomposizione di quel «popolo» le cui mitologie ritornano in questo presente alla maniera di spettri calamitosi o di incubi veri e propri.
Un altro nemico notorio del populismo, ma da ultimo su posizioni candidamente nichiliste, nientemeno Eugenio Montale, lo aveva all’improvviso executé con uno dei suoi epigrammi più maligni – «Asor nome gentile, (il suo retrogrado è il più bel fiore) non ama il privatismo in poesia»… – eppure non aveva nemmeno sfiorato l’aura che avvolgeva e che avvolge tuttavia Scrittori e popolo. Vale a dire uno dei rari libri di critica (libri, non semplici raccolte di studi) mai usciti dal senso comune della letteratura contemporanea.
MASSIMO RAFFAELI
foto: particolare della copertina del libro “Scritture, critiche e d’invenzione” (Mondadori, 2020) che consigliamo alle lettrici e ai lettori