Deve potersi riaffermare, dopo il biennio pandemico tutt’altro che terminato ma indubbiamente ormai dietro di noi nella sua forma e sostanza più violente, il principio secondo cui l’integrità del benessere comune corrisponde indissolubilmente con la tutela del singolo cittadino, della persona, dell’essere umano in prima ed ultima istanza.
Per questo, durante il velocissimo avvicendarsi degli aggiornamenti scientifici in materia di profilassi vaccinale, non sempre gli interventi governativi e parlamentari sono stati forse adeguati a quei repentini cambi di orientamento delle cure, di comunicazione delle stesse, di reazione subitanea ad un nemico che la natura ci aveva messo davanti come nuova, grande sfida globale.
La Covid-19 è stata protagonista di mutamenti davvero enormi e ha scompaginato le certezze di un capitalismo liberista che stava cercando di riprendersi dalla crisi economico-finanziaria del 2007-2008, quando il sistema si trovò a dover fronteggiare una bancarotta su scala mondiale, con crolli borsistici e tracolli di centri dell’accumulazione dei capitali che non si ricordavano se non facendo riferimento ai primi del ‘900.
Non si trattava di una crisi di sovrapproduzione, classicamente descritta dall’analisi marxiana della ciclicità del capitale, ma di una novità moderna, di una accelerazione impressa dai movimenti interpolari, tra i grandi agglomerati geopolitici che esprimevano le economie non più soltanto nazionali, bensì “continentali“, che, l’avremmo capito solo molto tempo dopo, stava ridescrivendo e rimodulando i perimetri e le zone di pseudo-conforto di queste economie dall’aria sempre più incerta e dalle prospettive sempre meno garantite dalle centrali di controllo del FMI e della Banca Mondiale.
La Covid-19 ha fatto irruzione in queste stanze globali e locali delle certezze granitiche e ha disarcionato ogni prosopopeica enunciazione della sicumera con cui si accompagnavano le narrazioni sulle meravigliose sorti e progressive del liberismo inaugurato dagli anni ’70 del Novecento con l’apertura della stagione delle privatizzazioni a tutto tondo e dell’utilizzo della macchina statale piegata al servizio del grande capitale e della grande finanza.
Da allora la salute pubblica è stata sempre più oggetto di attacco da parte dei privati: i tentativi di squalificazione delle strutture preposte alle cure fondamentali tanto quanto a quelle più complesse, si sono succeduti nelle proposte di riforma dei sistemi nazionali che uniformavano il diritto ad avere una sanità uguale per tutti, in cui si potesse declinare, pur con tutte le sue lacune, il significato costituzionale dell’accesso alle cure per chi era il principale motore economico e sociale del Paese: il mondo del lavoro.
Il diritto universale a vedersi riconosciuto l’accesso a qualunque tipo di cura senza dover ricorrere all’assicurazionismo privato di matrice anglosassone e, in particolar modo, statunitense, era un fiore all’occhiello di una sanità italiana che anche nelle vaccinazioni aveva trovato il modo di esprimersi con eccellenza, impedendo ai giovanissimi degli ultimi decenni del secolo scorso di cadere preda di malattie invalidanti, di morire per una banale puntura di chiodo arrugginito tra le convulsioni causate dal “Clostridium tetani“.
Le vaccinazioni che venivano fatte ai militari di leva, in pieno petto, quando la Repubblica viveva la sua prima gioventù post-bellica, erano spesso trivalenti e proteggevano, quindi, da più malattie infettive.
Effetti collaterali ne sono sempre esistiti, ma allora nessuno aveva pensato di orchestrare delle “fantasie di complotto” per appioppare allo Stato il ruolo di mero esecutore delle volontà di sette pedo-sataniste (così come vuole il racconto inflazionato dei seguaci dell’orrorifica follia Qanonista) espressione di “poteri forti” che nulla hanno a che vedere con quei veri poteri, davvero forti sul piano economico, che determinano sovente le scelte politiche dei singoli governi.
Che la scienza sia al servizio della conoscenza è banale da affermare, ma è necessario farlo perché pare che, soprattutto con la pandemia, la naturale trasformazione che il capitalismo opera di tutto ciò che esiste in merce, quindi appioppando a cose, animali umani (saremmo noi) e animali non umani, nonché alla natura tutta un valore di scambio (insieme, ovviamente al valore di utilizzo), abbia avuto la meglio sulle proprietà prime della ricerca e l’abbia completamente astratta da sé stessa.
La ricerca scientifica, come tutte le attività di questo mondo, deve obbedire alle regole del mercato perché siamo in un sistema in cui tutto è dentro il mercato, dentro il regime della concorrenza, dell’accumulazione dei profitti da parte dei privati e del sempre maggiore indebolimento delle strutture pubbliche e statali che potrebbero – anche in questo caso – “fare concorrenza” al privato stesso.
Ma la ricerca scientifica, così come qualunque altro campo di sperimentazione, di studio e di espansione della cultura e della civiltà, nonostante tutto fa i suoi passi, anche se indotta ad accelerare i tempi per battere scoperte altrui, per anticipare brevetti e sfruttarli sulla pelle di miliardi di persone.
Non dovrebbe sfuggire mai ad una attenta critica anticapitalista il dualismo che esiste da sempre nella progressione in tutti i settori produttivi, quindi anche in quello dello sviluppo conoscitivo in medicina, che si accompagna alle esigenze della classe dominante, di chi detiene la proprietà privata delle grandi industrie farmaceutiche che, al pari di quelle delle armi o dell’alimentazione, ricercano enormi spazi globali per espandere la loro inevitabile sete di accumulazione profittuale.
Tentando di smontare questa dualità endemica del capitalismo, questo rapporto tra prodotto della mente o delle braccia umane e (il)logicità delle dinamiche della moderna declinazione liberista dell’economia dei profitti e delle merci, l’articolato e cervellotico costrutto delle fantasie complottiste ha provato a far sollevare una protesta globale che diventasse anti-sistema, pur non mettendo affatto in discussione il capitale, ma solo le interpretazioni sovrastrutturali che prendevano forma nelle singole nazioni attraverso le politiche di governo.
La rivolta a cui neofascisti di casa nostra, sovranisti americani, teorici un po’ ascetici, attraversati da tensioni mistiche e isteriche al tempo stesso, hanno cercato di chiamare le masse popolari, adducendo una sorprendente scoperta nella commercializzazione non di vaccini quanto di “sieri genici sperimentali“, a volte fatti con feti di bambini abortiti o di scimmie, altre volte pieni di microchip e nanotecnologie mai veramente descritte e descrivibili (proprio perché inventate…), si è tradotta in una dimensione parallela della realtà in cui sono stati fatti vivere milioni di individui.
Elidendo la critica anticapitalista, creando una barriera tra la critica del mercato e della mercologizzazione della salute e della sanità pubblica, i fantasisti di complotti hanno fatto un grandissimo favore proprio a quelle case farmaceutiche ed aziende scientifiche che sono riuscite, nel biennio pandemico, a generare profitti quasi inimmaginabili.
Se, invece, le manifestazioni di piazza fossero state incentrate sul diritto di cura per tutti, senza vedere nell’obbligo di indossare la mascherina chissà quale minaccia alla libertà di ciascuno, l’altezza morale, civile e sociale di una lotta avrebbe potuto muovere una critica ragionata ad un sistema che intendeva governare la pandemia con restrizioni anche discutibili ma, di certo, partite con l’intento di proteggere quanto meno i soggetti più fragili della popolazione.
La Corte Costituzionale ha ieri stabilito che i ricorsi dei no-vax in merito alle multe inflitte per non aver iniziato o completato il ciclo vaccinale previsto per i lavoratori nelle strutture ospedialiere, nelle RSA, nell’espletazione di mansioni comunque dirette al pubblico, sono rigettabili, in quanto i fatti contestati non rientrano tra quelli che contraddicono lo spirito e la lettera della Carta del 1948.
La Corte ha sancito che, pur con tutti i limiti del caso, la legislazione prodotta in tempo di pandemia non ledeva nessun diritto del singolo e nemmeno della collettività. Una decisione che indirettamente interviene nei rapporti di lavoro che sono stati alterati, soprattutto legalmente e giuridicamente, dallo stato di eccezione che si era determinato.
L’obbligo vaccinale per chi era a diretto contatto con pazienti e degenti di ogni tipo, soprattutto se in condizione di estrema fragilità, era il minimo per garantire entrambi: chi prestava il lavoro e chi riceveva le cure necessarie tanto in ambito pubblico quanto in ambito privato.
Il conflitto tra lavoro e vaccinazione è stato determinato da una reazione scomposta e priva di significato dal punto di vista dell’interesse comune e, quindi, del valore costituzionale che poteva avere una obiezione rispetto al ruolo dei vaccini nel contesto delle attività dei servizi sociali e assistenziali nel nostro Paese.
La successiva storia della pandemia, vista attraverso una osservazione meramente empirica, può iniziare ad essere scritta tenendo conto di tutte le inefficienze dovute ad un sistema sanitario che è stato fatto a pezzi da un regionalismo indecente, da una privatizzazione dei servizi che ha frantumato le garanzie minime sia per i cittadini – pazienti sia per quelli che prestano servizio nelle strutture pubbliche.
E’ di questo che i sindacati soprattutto di base si sarebbero dovuti occupare, invece che rincorrere la galassia no-vax e sostenere le ragioni egoistiche di chi pretendeva di andare al lavoro senza un vaccino che proteggesse ambivalentemente infermiere e medico da un lato, degente e malato dall’altro.
Tanti, troppi egoismi sono stati messi a supporto di una narrazione priva di senso e che, proprio per questo, doveva essere riempita con quella banalità del male che da sempre è il migliore, resiliente contenuto del niente: chiamare la gente a scendere nelle piazze, a bloccare porti, strade, a dare l’assalto ai palazzi del potere e, non ultimo, alla sede nazionale del più grande sindacato italiano, ha avuto come significato primigenio quello di fare delle prove di destabilizzazione antidemocratica in una fase riequilibrio economico, sociale e, quindi, politico.
La Corte Costituzionale, afferma qualcuno, fa politica perché è un organismo non togato, nominato – come da Costituzione – per un terzo dal Capo dello Stato, per un altro terzo dal Parlamento e per il terzo restante dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative.
Può anche essere che la Consulta sia stata attraversata da un intento politico: siamo esseri umani, uomini, donne, persone con convincimenti varii e per questo tutti legittimi (a parte, si intende, quelli che ispirano movimenti fascisti, neo e post e che, tanto per esemplificare, stanno anche al governo oggi). Ma di sicuro la legislazione messa in essere durante il periodo di pandemia non ha ristretto i diritti e le libertà di nessuno oltre quel termine e ha limitato determinati comportamenti che sarebbero divenuti il pretesto per una particolarizzazione delle esigenze a tutto scapito del bene e del benessere comune.
La sentenza della Consulta non fa vincere un’Italia pro-vax piuttosto che un’altra. Determina un principio giuridico fondamentale: la salute pubblica e il lavoro devono incontrarsi e non possono essere assunti, né l’una e né l’altro come elemento di scardinamento di una omogeneità dei diritti che devono abbracciare l’intero corpo popolare.
Quella stretta minoranza di fantasisti di complotto che, egoisticamente, adducendo ragioni riferite ad una critica di classe adoperata come una clava, utilizzata dai peggiori elementi di un complottismo utile solo alla destabilizzazione antidemocratica, ha provato a dipingere la scienza come esclusivamente collusa col capitale, negandole qualunque ragione in tema di dimostrazione delle evidenze che andava scoprendo, quella parte di popolazione che ha sostenuto queste amenità è stata sconfitta.
Non tanto dalla Corte Costituzionale, ma dalla prova dei fatti: se oggi la Covid-19 è poco più di una influenza, ebbene lo dobbiamo ai vaccini che tutte e tutti abbiamo deciso liberamente di fare per salvaguardarci, per proteggere anzitutto chi era più debole. E non solo socialmente.
MARCO SFERINI
2 dicembre 2022
Foto di Nataliya Vaitkevich