Alessia Piperno è stata liberata ed è già tornata in Italia. È una bella notizia e ne siamo felici. Non sappiamo quali siano state le condizioni del rilascio della giovane blogger romana. Ma penso si possa affermare, senza ombra di dubbio, che non si è trattato di un riscatto in denaro.
Gli ayatollah non hanno bisogno di «elemosina». Ma sicuramente ci sarà stato un riscatto/ricatto politico. Quindi sono oltremodo insensati i post che al momento del suo arresto avevano inveito contro il possibile pagamento di un riscatto, con i soldi degli italiani. I social si erano scatenati come sempre quando in una drammatica situazione si viene a trovare una donna che non è stata a casa a fare la calza.
Ancora una volta la diplomazia e l’intelligence italiana, nonostante il passaggio dei poteri da un governo all’altro, da una maggioranza all’altra, non hanno abbandonato una concittadina alla sua sorte. Le prime dichiarazioni affermano che Alessia non ha subito violenze, ma come si può calcolare la violenza psicologica? E probabilmente non cesseranno le polemiche, che accompagnano tutti i rientri in Italia degli ostaggi.
L’impegno per la liberazione della giovane blogger è rassicurante, ma quello che sta succedendo in Iran non permette di accontentarci della libertà riconquistata da Alessia Piperno. E non solo perché l’italiana non è l’unica straniera rinchiusa nel famigerato carcere di Evin, ne restano altri, ma soprattutto perché restano molti prigionieri politici iraniani. Sicuramente Alessia, dopo oltre un mese di prigionia, potrà raccontarci la sua drammatica esperienza, riferirci della sorte dei detenuti in quel carcere e darci ulteriori elementi per sostenere la lotta delle donne che vogliono poter godere della sensazione di libertà procurata dal vento tra i capelli.
Il regime teocratico continua a mietere vittime tra i manifestanti che sostengono la rivolta contro l’hijab. Una rivolta, che sotto il simbolo dell’oppressione della donna ha saputo coagulare i problemi economici, sociali e lo scontro etnico che sta vivendo l’Iran.
Questa rivolta non è solo interclassista, intergenerazionale ma anche interetnica ed è la prima volta che accade. La ribellione, del resto, è scoppiata dopo la morte della giovane curda Mahsa Amini. La stessa parola d’ordine: «Jin, Jiyan, Azadi» (Donna, vita, libertà), è stata coniata dalle donne curde durante la guerra contro lo Stato islamico. E questa è in qualche modo la continuazione di una lotta contro l’oltranzismo religioso che si è fatto stato.
L’obbligo del velo ha implicazioni religiose, politiche e ideologiche, per questo è diventato il simbolo della politica repressiva e discriminatoria del regime iraniano. Non può bastare il taglio di una ciocca di capelli per dimostrare la nostra solidarietà con le donne iraniane, perché sarebbe come sottovalutare la portata di quella rivolta con una impronta femminista che già viene chiamata rivoluzione e che per avere successo deve porre fine alla teocrazia che opprime l’Iran da 43 anni.
La liberazione delle donne iraniane rappresenterebbe un contributo straordinario alle lotte di tutte le femministe musulmane, che hanno subito le peggiori conseguenze della reislamizzazione partita proprio dalla vittoria di Khomeini in Iran nel 1979 e corroborata dai jihadisti che avevano combattuto la «guerra santa» in Afghanistan contro l’Armata rossa, al soldo degli americani.
Se questa rivoluzione avrà successo potrebbe cambiare la sorte delle donne afghane e le algerine non dovranno più gridare, come facevano qualche anno fa, «l’Algeria non è l’Iran, l’Algeria non è l’Afghanistan!»
GIULIANA SGRENA
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