Il passo falso dalla scuola della Repubblica alla scuola di Stato

Continuare a stupirsi non serve. Continuare ad indignarsi, invece, è necessario. A patto che l’indignazione si produca in una controbattuta di tutto quello che i ministri del governo Meloni...

Continuare a stupirsi non serve. Continuare ad indignarsi, invece, è necessario. A patto che l’indignazione si produca in una controbattuta di tutto quello che i ministri del governo Meloni dicono, fanno e che si reputa sia un passo oltre la liceità costituzionale che determina i valori su cui si fonda la Repubblica Italiana e, niente di meno, anche la Storia con la esse maiuscola.

Non ha stupito fino ad ora che l’esecutivo abbia trattato il dissenso, i rave party, i migranti e quanto di altro affine a questi temi con la durezza che si addice ad una destra estrema. Ma deve, proprio per questo, indignare perché non è ammissibile accettare la narrazione governativa come quella che ha il diritto di primazia sulle altre, sulle critiche che le vengono rivolte e che sono sprezzantemente liquidate da alcuni ministri al pari di voci disperse nel deserto.

Questa destra, in Europa e in Egitto, porta il suo rassicurante volto travestito da Presidente del Consiglio compassata e sorridente. Capace di parlare, a tu per tu, con generalissimi autoritari di tutto punto, e di lanciare anatemi contro i medici che dichiarano che là, su quelle navi ormeggiate a Catania qualcuno sta letteralmente impazzendo.

Tutto si tiene con una perfetta sintonia di vedute tra Meloni, Crosetto, Valditara, Salvini e Piantedosi. Tutti insieme appassionatamente per rimarcare la doppiezza necessaria a preservare il consenso popolare al governo e quello, non meno importante, dei mercati e delle borse. Se ci lascia andare all’abitudine, alla naturalità delle cose, si commette un errore ancora più eclatante dello stupirsi. Uguale e contrario al tempo stesso.

Stupore e rassegnazione non ce li possiamo consentire: da un lato perché significherebbero una sottovalutazione di quello che dei conservatori e reazionari come quelli che governano possono fare al Paese, quindi ad ognuno e a tutte e tutti noi; dall’altro lato perché l’abitudine è apatia, appiattimento su una abulia che finisce con il regalare spazi di sempre maggiore manovra a chi è stato eletto da una minoranza per, o paradossi della democrazia,

Lo capisco che, davanti ai provvedimenti del governo, se si è dei buoni democratici, magari di sinistra e, facciamo buon peso, pure comunisti, si tenda a strabuzzare gli occhi, a stapparsi le orecchie o ad imprecare come i bravi del Manzoni. Tuttavia, bisogna mettere da parte questi sentimenti comprensibili e analizzare, contestualizzare per capire e far capire, per discernere e semplificare senza banalizzare.

Le destre vogliono questo: riduzionismo, revisionismo, alterazione della verità dei fatti tanto sul piano storico quanto su quello attualistico.

E’ sempre stato così da quando la Seconda guerra mondiale è terminata e, vinto il nazi-fascismo, quelli che venivano allora reputati dei residuati di un passato che, giustamente, allora sembrava impossibile potesse riproporsi, si sono fatti largo sulla scena della politica italiana accusando i protagonisti della lotta di Liberazione di non essere stati da meno, in quanto a ferocia e disonore, delle camicie nere di Mussolini.

Fino ad ora nessuno è riuscito a stabilire, quanto meno, un parallelismo tra le atrocità della Gestapo e delle SS e il partigianato. Ma qualcuno ci proverà. Non stupitevene – dunque – ma indignatevene al momento opportuno.

Tocca, quindi, non stupirsi se i rave party vengono presi a pretesto per regolare le faccende di ordine pubblico sull’intero territorio nazionale, e nemmeno ci si può stupire se il ministro dell’Istruzione e del “Merito” entra nel merito della Storia, invia una lettera per celebrare l’importanza della caduta del Muro di Berlino (il 9 novembre 1989) e, rispettando appieno il canonico e tradizionale canovaccio da “Libro nero del comunismo”, infilza i fatti trapassandoli co un revisionismo tutt’altro che sorprendente.

Da quando il socialismo (ir)reale e irrealizzato è crollato nell’Europa dell’Est, le destre neo e post-fasciste hanno fatto a gara per dimostrare che, tutto sommato, il fascismo e il nazismo non avevano fatto poi così tanti morti quanti i regimi che, quasi sempre impropriamente, si sono richiamati al marxismo e ad una alternativa di società rispetto al capitalismo globalizzato.

A questo proposito, il ministro Valditara ci permetterà un suggerimento di lettura: un ottimo libro che, più che giustamente, fa una critica ad ampio raggio del socialismo sovietico e dei tanti crimini che sono stati perpetrati nell’universo concentrazionario dei gulag che è bene considerare come fenomeno a sé stante rispetto ai lager nazisti o ai campi di concentramento americani messi su in fretta e furia dal governo di Washigton dopo Pearl Harbor, essenzialmente per i residenti giapponesi negli USA.

Gianluca Falanga ho colto la contraddizione di chi, principalmente nel campo avverso alla sinistra e al progressismo, lamenta da un lato che non si faccia mai abbastanza luce e attenzione su quanto avvenuto ad nell’est europeo o in Cina, mentre, al contempo, si sostiene da decenni un racconto mistificatorio che ha fatto dell’anti-comunismo una specie di controcanto italiano alle fondamenta civili, morali, culturali e sociali dell’Italia antifascista e resistenziale, dell’Italia della Costituzione.

Il suo “Non si parla mai dei crimini del comunismo” è un lavoro che il ministro Valditara dovrebbe leggere. Certi che non cambierà di una virgola il suo atavico atteggiamento ostile nei confronti della storia di un grande afflato di liberazione universale che ha pervaso i popoli europei prima e del resto del mondo poi, per diventare in certi momenti della brevità novecentesca, così pulsante di avvenimenti mutevoli e di accelerazioni improvvise.

Tuttavia, al ministro farebbe bene questa ed anche altre letture, per discernere tra un socialismo anzitutto utopistico, molto bene descritto da Marx ed Engels nel “Manifesto“, ed uno dialettico, capace di inserirsi nei processi di cambiamento sociale che sono alla base dei rivolgimenti che investono tutto il resto del vivere umano e anche dei rapporti tra noi e il resto del pianeta.

Il comunismo è definibile al singolare soltanto prima della morte di Marx, quando ancora non si sono avvicendate le diverse scuole di pensiero sulla concretizzazione degli studi del Moro e sulle prospettive di evoluzione rispetto al sistema di produzione delle merci e dei profitti.

Quando si inizia ad immaginare una “società comunista” come qualcosa di burocraticamente inseribile entro i cardini dello Stato (non solo borghesemente e liberalmente inteso, ma proprio dello Stato in quanto entità costituita di un popolo su un territorio), ecco che allora e solo allora si può iniziare differenziare.

Mentre i fascismi novecenteschi sono stati tutti tratteggiati abbondantemente dalla violenza come strumento politico di un nazionalismo esasperato, che travalicava i nobili istinti patriottici, ad esempio, del Risorgimento italiano, la lotta dei socialisti per l’affermazione delle ragioni del proletariato non è stata la stessa nelle diverse esperienze che sono riuscite a darsi la forma di uno “stato dei lavoratori“.

Il sovietismo leninista non è paragonabile ai tentativi di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht di portare la classe operaia tedesca al potere dopo la tempesta della Prima guerra mondiale. Che cosa c’entra lo stalinismo, che avvia la contorsione autoritaria massima del bolscevismo entro il perimetro del “socialismo in un solo paese“, con le rivoluzioni libertarie fatte nel nome del comunismo durante tutto il Novecento, non è dato certamente saperlo dal teoricismo di matrice leghista e fratellitaliana.

Si tratta, come sempre, di una operazione di equiparazione, soprattutto tra comunismo e nazismo, che è stata abilmente portata nel Parlamento europeo e che, con altrettanta pretestuosità revisionistica della Storia, vorrebbe mettere sullo stesso piano due dittature che si sono strette la mano al momento del patto Molotov-Ribbentrop, per scopi imperialistici e che, per il resto, non condividevano nemmeno la stessa idea di presa, mantenimento e gestione del potere.

Il ministro Valditara nella sua lettera mandata agli studenti avverte: «Il comunismo è stato uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo, nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti, e minimizzarne o banalizzarne l’immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale».

Siamo perfettamente d’accordo con lui, anche nel leggere in parte negativamente il protagonismo del movimento comunista novecentesco, erede del socialismo di fine ‘800 e delle tante lotte operaie di quegli anni difficili, in cui si faceva largo il primo sindacalismo strutturato inducendo i lavoratori ad abbandonare la rassegnazione da un lato e il luddismo dall’altro.

Ma qui si ferma la corretta interpretazione ministeriale di una grande, forte coscienza collettiva che esigeva giustizia sociale dopo millenni di lotta fra le classi sociali, di subordinazione della enorme massa degli sfruttati ad una sempre più ristretta cerchia di sfruttatori.

Il ministro Valditara prosegue con un anatema che contraddice immediatamente le sue parole appena citate: invece di rispettare le differenze storiche, culturali e politiche che sono registrabili lungo tutto il cammino della lotta del proletariato per l’emancipazione sociale, si produce immantinente in uno stigma prediudiziale. Il miglior prodotto dell’anticomunismo viscerale della destra da trent’anni e più a questa parte.

Inoltre, un rilievo di natura deontologico-politica: un ministro non deve fare scuola, ma amministrare la scuola della Repubblica. Non deve insegnare agli studenti, ma tutelarne la libertà di apprendimento: soprattutto in presenza di grandi dilemmi e problematiche che possono e devono essere oggetto di un confronto anche acceso, ma non devono mai creare delle tifoserie da stadio.

La lettera del ministro avrebbe avuto un’altra fisionomia, anche se irrituale nel ricordare solo la caduta del Muro di Berlino e non, ad esempio, anche la Notte dei cristalli in Germania (avvenuta il 9 e 10 novembre ma del 1938), sottolineando che per la nostra Italia la Liberazione è avvenuta il 25 aprile 1945 e non con la caduta del muro di quella che tornerà così ad essera la capitale della Germania riunificata.

E’ comprensibile che la destra al governo del Paese si produca ora in una operazione di rivisitazione revisionista da un lato e di composizione riduzionistica dall’altro del corso degli eventi e della testardaggine dei fatti. L’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire: adesso non si deve neppure più mediare con il centro della coalizione. Il campo largo delle destre può esprimersi al meglio del suo peggiore repertorio nei confronti dei diversi ambiti di quotidianità della vita di noi tutti.

Il punto dirimente, se vogliamo essere meticolosamente precisi e puntuali, sta in questo: mentre noi comunisti, noi di sinistra, denunciamo la deriva autoritaria del sovietismo stalinista, condannando tutto quello che di poco limpido vi è stato nella storia del socialismo (ir)reale dell’Est e nel resto del mondo, quelli che si fanno chiamare sovranisti oggi, neofascisti ieri e postfascisti dopo e che appartengono alla corrente del conservatorismo di nuova fattispecie, nemmeno lontanamente pensano di entrare nella cultura resistenziale della Costituzione e giurano su essa solo per poter accedere alle stanze del potere, al governo del Paese.

Non esiste un antifascismo dei postfascisti, mentre esiste un antisovietismo dei comunisti che hanno, fin dai tempi di Luxemburg prima e Trotzkj poi criticato energicamente l’involuzione del potere in quella che stava diventando la Repubblica Socialista Sovietica Russa e che, di lì a poco, sarebbe stata l’URSS.

I totalitarismi, per quanto simili siano tra loro, hanno delle particolarità nazionali che è difficile eludere. Così come non si puo pensare di dire che tutti gli Stati sono uguali in quanto tali. Forme e sostanze si sincretizzano e danno vita a singolarità a cui ci si può ispirare, come fecero Franco in Spagna, i colonnelli in Grecia, Pinochet in Cile o Peron prima e Videla poi in Argentina.

Questa attenzione alla storicizzazione dei fenomeni la si può avere se si ha a cuore la verità dei fatti e il desiderio di tramandarla per consentire una piena consapevolezza del nostro cammino (dis)umano.

Ogni prodotto dell’attualità dei tempi è il frutto di una commistione di fattori che difficilmente sono ripetibili e, quindi, non sono nemmeno assimilabili in un unico giudizio che, se permane, alla fine diventa liquidazionismo di bassa lega. Il calcolo delle tragedia prodotte dai regimi dittatoriali, delle giunte militari criminali e del potere in senso più lato, è una sequela ininterrotta nei millenni di evoluzione della nostra specie.

Un ministro dell’istruzione (e del merito…) dovrebbe osservare l’andamento del mondo della scuola pubblica, preservarne tutte le peculiarità facendo riferimento alla Costituzione della Repubblica, mescolando il meno possibile la sua cultura illiberale con i valori laici dell’Italia, con quel liberalismo di stampo sociale che, molto lontano dall’essere una proposta politico-organizzativa di Stato di stampo sovietista (!), è il patto di compromesso su cui è rinato il Paese dopo il 1945.

Ogni studente, ogni studentessa devono essere liberissimi di attingere alle fonti, di formarsi una coscienza senza che un ministro scriva loro delle lettere per invitarli a riflettere, creando così i presupposti per una specie di “cultura di Stato“, o meglio “di governo” da contrapporre alla critica storica, attualistica ed anche futura di quello che è stato, è e sarà.

Non tocca al governo insegnare alcuna materia nella scuola della Repubblica. Perché, fino a prova contraria, Repubblica e Stato sono intrinseci ma anche molto diversi fra loro nel rappresentare l’Italia fino in fondo, ogni giorno. Basta prendere in mano la Carta del 1948 e provare a sottolineare tutte le volte che i e le Costituenti hanno adoperato la parola “repubblica” e tutte le altre in cui hanno preferito quella di “stato“.

Ci si accorgerà della accuratezza con cui sono stati scritti gli articoli della Costituzione: nulla è stato lasciato al caso in quell’anno e mezzo di redazione del testo. Perché dopo il fascismo non si potevano commettere errori che avrebbero portato ad esporre il Paese ad un nuovo corso autoritario. Iniziando da una cultura sociale che, facendo del lavoro il fondamento dell’Italia postbellica, elevava la repubblica oltre il semplice ruolo di forma dello Stato.

Il ministro Valditara, a questo proposito, dovrebbe anche ricordare – ma lo sa… lo sa… – che il Presidente di quell’assemblea di uomini e di donne libere che scrissero la Costituzione era un comunista: Umberto Terracini.

MARCO SFERINI

10 novembre 2022

Foto di XU CHEN

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