Socialmente spregevole. Ma si sapeva. La proposta del nuovo ministro delle infrastrutture è la nettissima rappresentazione della condivisione di un attacco, da parte di tutta la destra, al reddito di cittadinanza, per arrivare a “quota 42” sul regime pensionistico che non preveda il ritorno della Legge Fornero.
In poche parole ci troviamo davanti all’ennesima contrapposizione tra generazioni, voluta e cercata per separare le lotte, per impedire che si saldino gli interessi comuni di giovani e meno giovani, di chi ancora deve entrare nel mondo del lavoro e di chi rischia di uscirne peggio di come vi ha avuto accesso.
La politica liberista di un governo conservatore e dai moltissimi tratti reazionari, del resto, non poteva non essere completamente aderente ai cardini dell’illogicità antisociale, della separazione classista, della messa in discussione dei diritti più elementari, delle garanzie per quella fascia di popolazione maggioritaria che è costretta a sopravvivere con salari fermi al palo da decenni, con lavori precarissimi, con uno sfruttamento che conosce fin dai banchi di scuola con l’alternanza subdola con un lavoro che è regalato alle imprese.
C’è differenza con il Berlusconi del milione di posti di lavoro: lo sganciamento dall’epoca delle grandi, demagogiche promesse del primo centrodestra di governo è avvenuto con la consapevolezza che, molto banalmente, non fanno più presa su nessuno. E non solo perché il rigore della crisi polistrutturale in cui ci troviamo è tale da aver sopraelevato le coscienze almeno sul piano del realismo economico, ma anche perché la frantumazione del berlusconismo è in corso da tempo e non accenna a fermarsi.
L’investimento politico delle classi dirigenti del Paese oggi punta a sfruttare tanto il malessere sociale quanto le divisioni interpartitiche nelle coalizioni rimaste. L’autopolverizzazione del fu centrosinistra, figlio di una inadeguatezza culturale, politica e sociale anzitutto del Partito democratico, proprio entro l’irrisolvibile dilemma della coniugazione contraddittoria tra interessi del mondo del lavoro e privilegi del mondo imprenditoriale, è, da questo punto di vista e di interesse, parallela alla riorganizzazione del centro.
La destra, molto più banalmente, ha utilizzato la crisi del resto dell’agone politico per far leva su una disperazione sociale e riempirne i vuoti lasciati in rapporto ad una sempre minore empatia della popolazione verso le classi dirigenti precedenti.
Le grandi ammucchiate tecnico-politiche, i governi di salvezza nazionale e le ricette miracolose di chi, alla fin della questione, si è mostrato come un abile manovratore economico di una crisi multistrato che non è stata affrontata seguendo il piano molto inclinato dei bisogni sociali, hanno avuto come ultima ratio la stabilizzazione dei profitti e di un processo produttivo che ha espulso i lavoratori dalla costituzionalissima disposizione a considerare proprio il lavoro il motore complessivo del Paese.
Se oggi la destra governa con una maggioranza mai vista, ma soprattutto con un consenso sociale notevolissimo e difficile da decostruire nell’immediato, è proprio grazie alla pretesa delle ex forze politiche del centrosinistra di essere utili tanto al lavoratore quanto all’imprenditore. Una proposta come quella avanzata dal ministro delle infrastrutture, che è poi proposta del governo, non discosta molto dalle politiche restrittive dei diritti sociali portate avanti negli ultimi lustri.
Noi malediciamo le destre perché governano l’Italia di un 2022 fatto di pandemia, guerra, cataclismi climatici come la siccità, il caldo anomalo di questo fine ottobre, e perché non potranno dare quella soluzione di stampo sociale e solidale che sarebbe necessaria per invertire la rotta del liberismo di Stato, ma, nello stesso istante, troviamo ancora milioni di persone, di lavoratori, di pensionati che si rivolgono al PD e ai suoi alleati per cercare una uscita da sinistra alla difficile questione dei tempi.
Come è stato opportunamente sottolineato su vari quotidiani, ed anche in alcuni dibattiti televisivi non troppo rissosi, questa destra con cui dobbiamo, letteralmente, fare in tutti i sensi i conti è molto di più dell’essere soltanto “antisociale“.
E’ “a-sociale“, puntualizzando con questa definizione un combinato che mette insieme tutte le avversioni che storicamente le forze conservatrici e reazionarie hanno nei confronti del valore sociale del “pubblico“, pur inserendosi nel filone della “destra sociale” di un tempo, perché ne stigmatizzano il portato progressista, l’insita natura quasi socialista che inevitabilmente si porta appresso.
Non ci governa una destra “soltanto” economica, populista, conservatrice, postfascista. Regge le sorti del Paese un esecutivo che riunisce in sé tutti questi disvalori, declinati nel peggiore dei contesti che si poteva anche solo immaginare qualche anni fa. Le imprevedibilità delle congiunture sociali e antisociali sono divenute così frequenti, quanto meno a partire dalla crisi del 2007-2008 dei mutui “subprime“, da rendere molto complicata una pianificazione settoriale dell’economia di mercato.
La destabilizzazione capeggiata dalla guerra in Ucraina ha accelerato una crisi globale tra i poli emergenti del liberismo del nuovo secolo e millennio. Le identità nazionali rivendicate, anche nella cornice di una riesumazione di un autarchismo di nuovo modello (peraltro assegnato ad un ministero con una etichetta anglosassone: “Made in Italy“), vanno a confliggere con l’architettura della traballante Europa monetaria, priva di una politica estera unitaria se non, nell’emergenza planetaria bellica, affidarsi completamente all’ombrello recuperato della NATO.
La proposta di aggredire quel po’ di garanzia sociale che era molto timidamente venuta fuori, più per scopi elettorali che per una vera convinzione sociale in merito, dai governi precedenti l’attuale sciagura esecutiva, è l’antisocialità dentro l’a-socialità più generale della destra nemica dei diritti civili, delle libertà di manifestazione, del riconoscimento a tutto tondo dell’antifascismo come cardine costituzionale della Repubblica nata dalla Resistenza.
L’individualismo è, come da copione liberista, la cifra della narrazione governativa: le imprese e non la grande massa dei lavoratori sono a fondamento della ricchezza nazionale. Per questo ogni mossa di politica economica (e non solo) sarà devoluta allo scopo di cautelare, tutelare e proteggere al meglio i profitti, il privato in ogni settore.
I margini di manovra della “Melonomics” non sono ampi. La destra della fiamma tricolore arriva a Palazzo Chigi in una congiuntura apparentemente sfavorevole ma, proprio l’ambivalenza e la mutevolezza degli scenari internazionali potrebbero aprire vere e proprie autostrade alle controriforme della compagine governativa (si veda al proposito quanto scrivevamo ieri).
I dati dell’ISTAT e dell’INPS su un pauperismo che procede nella sua avanzata incalzante aumenteranno la movimentazione dell’ascensore sociale, chiaramente in discesa per la maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici e di tutto quel vasto indotto della precarietà che è protagonista ormai di una preponderanza contrattuale rispetto all’antico, quasi ormai più insperabile, posto fisso. L’incertezza dominante sul futuro della gran parte della popolazione, se sfruttata a dovere dal governo Meloni, diventerà la leva di un cambiamento radicale.
L’a-socialità delle destre, in questo frangente di ipotesi, sarà un plusvalore di molteplice natura: una politica non “anti” sociale ma “a-sociale“, distante quindi dalla realizzazione dei bisogni delle masse ma non apertamente ostile, potrebbe divenire il fondamento quasi cultural-politico-economico del governo e persino della legislatura. L’alfa privativa sarebbe la chiave per aprire le porte alla dissoluzione di una serie di contraddizioni che infestano l’ex centrodestra dall’origine dei poli presuntivamente contrapposti nella diatriba della finta alternanza tutta italiana.
Ma perché tutto questo possa “tenere“, quindi equilibrarsi, serve una acquiescenza di una parte delle opposizioni e una inattività di quelle che non hanno megalomani sogni centristi, voglie di spartizioni di potere e che, invece, puntano alla rinascita di un fronte del progressismo in Italia.
Ancora una volta, la sinistra di alternativa, anticapitalista e antiliberista può fare la differenza. Insieme al sindacato, alle associazioni di base e a quelle che, nonostante la pletora di riduzionisti dell’impatto postfascista odierno e di revisionisti dell’ultimo secolo di storia italiana, sono ancora i coraggiosi argini dell’ANPI, dell’ANED e dei comitati a difesa della Costituzione, si può agire in questa direzione. Senza esitazione e fin da subito.
MARCO SFERINI
30 ottobre 2022
Foto di Eva Lacroix