Benedetto Rosatellum. Vincere le elezioni è un conto. Ma c’è una bella differenza tra vincere e restare 26 seggi sotto la maggioranza assoluta o superare di slancio quella soglia con quasi 40 deputati di margine. È la differenza che passa tra il dover cercare complicate alleanze in parlamento e prendersi le camere e il paese con una maggioranza relativa, che è poi una minoranza di voti popolari. Il centrodestra c’è riuscito. Grazie al Rosatellum.
Alla Camera i quattro alleati (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati che è rimasto sotto la soglia dell’1% quindi non ha dato un contributo alle liste della coalizione ma ha ottenuto alcuni collegi uninominali sicuri) hanno ricevuto il 43,79% dei voti. E hanno raccolto il 59,75% dei seggi.
Hanno goduto cioè di un premio di maggioranza di quasi il 16%. In questo modo invece dei 175 deputati che sarebbero corrisposti alla percentuale effettivamente raccolta dalle loro liste, grazie al meccanismo dei collegi uninominali e del divieto di voto disgiunto ne hanno guadagnati 239. Merito non solo delle legge elettorale, ma anche del fatto che gli avversari di questa coalizione sono andati ognuno per conto loro (i maggiori) regalando così al centrodestra tutto il premio.
Infatti il saldo tra la percentuale di voto popolare e la percentuale di seggi alla camera è negativo sia per Calenda (-2,54%), sia per Conte (-2,43%) sia soprattutto per Letta (-5,13%). Il centrosinistra con il calcolo proporzionale avrebbe raggiunto 105 deputati, 21 in più degli 84 che molto probabilmente (scriviamo quando i conteggi non sono ancora definiti) gli saranno assegnati.
Il discorso si può replicare al senato, dove il centrodestra invece del 44% dei seggi che gli assegnerebbe il voto popolare ne ha guadagnati il 57,5% (saldo positivo del 13,5%) e tutti gli altri hanno perso una percentuale che va dal 4% (Pd e alleati) all’’1,5% (Movimento 5 Stelle). Non è tutta colpa (o merito, per il centrodestra) dei seggi uninominali, una quota (minore) di “disproporzionalità” della legge è da attribuire alla soglia di sbarramento, della quale ha fatto le spese soprattutto la lista +Europa, ferma a un passo dal 3% (hanno chiesto il riconteggio delle schede).
E non è la sola. Infatti tra partiti rimasti sotto il 3% (Italexit, Unione popolare, Italia sovrana e popolare) e partiti coalizzati fermi a meno dell’1% (Noi moderati e Impegno civico) oltre due milioni di voti validi non hanno contribuito ad assegnare seggi, sono voti da buttare. Non pochi, soprattutto considerata l’alta astensione che ha fermato a 28 milioni il totale degli elettori effettivi: in pratica il meccanismo della legge elettorale condanna all’irrilevanza il 7% delle scheda validamente votate.
E così è solo grazie al premio di maggioranza, occulto ma come abbiamo visto molto alto, che il centrodestra ha a portata di mano quella maggioranza dei tre quinti del parlamento con la quale potrebbe eleggere da sola i consiglieri laici del Csm e i giudici costituzionali: il quorum è a 360 parlamentari e il centrodestra dovrebbe averne già 355.
La legge elettorale non può essere una giustificazione: gli avversari del centrodestra conoscevano bene il funzionamento del Rosatellum e lo conosceva benissimo il Pd che lo aveva voluto cinque anni fa. Pensando di vincere l’anno successivo, ma pensando male.
Il marzo del 2018, data delle precedenti elezioni politiche, è politicamente un’altra era geologia ma il confronto è il più omogeneo e consente una serie di valutazioni interessanti. La prima: il centrodestra ha vinto ma non ha allargato il suo bacino di consenso. Meloni ha costruito il suo successo sfruttando bene la legge elettorale e cannibalizzando i suoi alleati.
Infatti in voti assoluti il centrodestra ha guadagnato poco rispetto al 2018, restando sui 12 milioni di voti e aggiungendone circa 150mila alla camera e qualcosa di più al senato (dove però stavolta gli aventi diritto erano di più perché votavano i 18enni). Stesso dicasi per il centrosinistra: aveva 7,5 milioni di voti alla camera e ne ha confermati 7,3. Chi ha subito un tracollo è stato il Movimento 5 Stelle, passato da 10,7 a 4,3 milioni di voti alla camera e da 9,7 a 4,2 milioni di voti al senato.
Molto avrà pesato l’astensione. Ma non tutto, perché i 5 Stelle domenica hanno ottenuto i risultati migliori (pur nell’arretramento) dove l’astensione è stata più alta. Caso limite la Campania, dove l’astensione è salita al 23% e però i 5 Stelle hanno conquistato ben undici candidati uninominali tra camera e senato (7 su 7 deputati in Campania 1).
Anche i 5 Stelle hanno in un certo senso sfruttato bene il Rosatellum, i seggi uninominali premiano chi concentra i voti in un collegio o in una circoscrizione. La controprova è il caso della lista dell’ex sindaco di Messina Cateno De Luca che con lo 0,8% di media nazionale tra camera e senato ha conquistato una senatrice e un deputato, naturalmente a Messina.
Il partito di Giorgia Meloni è cresciuto moltissimo dal 2018, di quasi sei milioni di voti assoluti. È arrivato a 7,3 milioni di voti, quasi gli stessi che nel 2018 aveva tutta la coalizione di centrosinistra. È cresciuto in tutte le regioni, è un partito nazionale, ma non è cresciuto ovunque con la stessa forza. In Emilia Romagna ha moltiplicato i consensi per sei e anche di più, passando dagli 84mila del 2018 ai 575mila di domenica.
In Campania il moltiplicatore è dimezzato, il partito di Meloni è passato da 105mila a 401mila voti. A conferma del fatto che si è trattato di un successo diffuso e non legato a specificità territoriali, si può notare che la crescita di Fratelli d’Italia procede parallela alle percentuali migliori di affluenza. Dove gli elettori hanno votato di più – in Trentino, Friuli, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Toscana – il partito di Meloni è cresciuto di più.
ANDREA FABOZZI
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