Vichy è una piccola città francese nota per la sua acqua “miracolosa”. Dagli stabilimenti termali alla cosmesi (il marchio Vichy oggi proprietà della L’Oréal) fino ad arrivare alla sua commercializzazione (basti pensare che tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso in Italia l’acqua ottenuta con la “bustina” era genericamente chiamata “l’acqua di Vichy”) tutto in questa città situata nel cuore della Francia ruota attorno al vitale elemento naturale. Ma Vichy è anche tristemente famosa per essere stata sede del Governo dello “Stato Francese”, guidato dall’ottantaquattrenne Maresciallo Philippe Pétain, nato nel sud del Paese a seguito dell’invasione nazista. Un governo “fantoccio” che il 24 ottobre 1940 ufficializzò la propria collaborazione con i tedeschi.
Anche il cinema, che stava vivendo gli anni irripetibili del realismo, subì le conseguenze dell’occupazione: da un lato Joseph Goebbels creò la Continental-Films, casa di produzione direttamente gestita dai tedeschi; dall’altro il regime di Vichy impose una censura senza precedenti. L’unica possibilità di girare film era quello di scegliere soggetti storici giudicati “innocui”. Per Marcel Carné, unico grandissimo a rimanere in Francia, e per il poeta e sceneggiatore Jacques Prévert lavorare con quelle restrizioni divenne una forma di resistenza. Nacquero Les Visiteurs du soir e Les Enfants du paradis. Il volto di quelle pellicole fu l’attrice Arletty che nel dopoguerra venne accusata di collaborazionismo. Sorte che la accomunò a molte protagoniste del cinema di Vichy.
Corinne Luchaire, figlia del giornalista filo nazista Jean Luchaire (a sua volta “figliastro” dell’antifascista italiano Gaetano Salvemini), fu interprete di Les Beaux Jours (1935), film sceneggiato da Charles Spaak padre di Catherine, ma nel dopoguerra, complice la sua relazione con il capitano della Luftwaffe Wolrad Gerlach (dal quale ebbe la figlia Brigitte), fu prima incarcerata a Nizza, poi espulsa dal Paese. Morì di tubercolosi ad appena 28 anni. Anche l’amante di Jean Luchaire, Yvette Lebon, attrice in Zouzou al fianco di Jean Gabin e Joséphine Baker venne processata. Provò a difendersi affermando che coi nazisti “C’era sempre champagne”, ma peggiorò la situazione.
Ginette Leclerc frequentava, invece, il cabaret parigino “Baccara-Club” gestito dai nazisti, dove andava abitualmente anche il futuro Don Camillo Fernaldel, e recitò nei film della Continental, tra questi Le Corbeau (Il corvo, 1943) al fianco di Pierre Fresnay. Venne condannata al carcere per poi essere riabilitata.
Sorte ancora più triste per Mireille Balin. Era stata Dulcinea nella versione francese del Don Chisciotte (1933) di Pabst, e, soprattutto, aveva interpretato Gaby Gould, la protagonista femminile del celebre Pépé le Moko (Il bandito della Casbah, 1938), al fianco di Jean Gabin, diretta da Julien Duvivier, ma negli anni dell’occupazione aveva esplicitamente appoggiato i nazisti. Ebbe una ostentata relazione con un ufficiale austriaco, Birl Desbok, partecipò ad incontri e film di propaganda, tra questi spiccò in negativo L’assedio dell’Alcazar (1940) di Augusto Genina che lesse la Guerra civile spagnola in ottica franchista. L’attrice venne arrestata nel settembre del 1944, subì tutte le umiliazioni di una guerra e morì dimenticata e povera.
Conseguenze anche per Suzy Delair, interprete di punta della Continental-Films (L’assassin habit… au 21, Défense d’aimer), per Danielle Darrieux che “collaborò” per aver salva la vita del fratello e del marito e per la leggendaria Dita Parlo, nazista per i francesi, antinazista per i tedeschi.
Ma per Arletty, nome d’arte di Léonie Marie Julie Bathiat, fu diverso. Aveva rifiutato di lavorare per la Continental-Films, non aveva alcuna simpatia politica, non sostenne in alcun modo l’occupazione, ma si era innamorata di un ufficiale nazista, Hans Jürgen Soehring, uomo di fiducia di Hermann Göring.
Léonie Bathiat nacque il 15 maggio del 1898 a Courbevoie, comune vicino a Parigi, secondogenita, dopo Pierre Jean-Baptiste, della lavandaia Marie Marguerite Philomène Dautreix e dell’operaio delle ferrovie parigine Michel che aveva a disposizione un buio pianterreno come dipendente delle tranvie. Una famiglia orgogliosamente proletaria benché, pare, discendesse dalla scrittrice Miette Tailhand-Romme e dal politico Gilbert Romme, colui che nel 1871 aveva predisposto, senza troppo successo, il calendario rivoluzionario.
Ma quell’alloggio, sito al numero 33 di rue de Paris, causò non pochi problemi all’ultima arrivata della famiglia Bathiat che nel 1903, dopo ripetute difficoltà respiratorie, fu costretta a trasferirsi a Clermont-Ferrand in casa della famiglia paterna. Cinquecento chilometri di distanza che formarono il carattere della futura attrice.
Tornata nella città natale solo nel 1910, negli anni della Prima guerra mondiale si innamorò di un giovane soldato, chiamato semplicemente “Ciel” perché aveva gli occhi color del cielo, che venne ucciso sul campo di battaglia. Il dolore per la perdita portò l’allora sedicenne Léonie ad una promessa che rispetterà per sempre: non sposarsi mai per non diventare una vedova di guerra.
I drammi, tuttavia, per la famiglia Bathiat non erano finiti. Il 2 dicembre del 1916 papà Michel, un uomo semplice e analfabeta che era stato minatore nella regione dell’Auvergne, morì sul lavoro travolto da un tram. Come ulteriore tragica conseguenza Marie, Pierre e Léonie persero il diritto di risiedere nel seminterrato assegnato ai dipendenti. Trovarono una sistemazione a casa di una zia nel quartiere parigino di Marais.
Anni difficili per Léonie che fece la dattilografa e, soprattutto, la tornitrice. Poi le cose cambiarono. Una mattina andando al lavoro conobbe un uomo alla fermata dell’autobus, si chiamava Jacques-Georges Lévy ed era un banchiere ebreo svizzero. Scattò la classica scintilla. Non solo. L’uomo la introdusse nel mondo artistico di Parigi. Léonie iniziò così a leggere Proust, a prendere lezioni di canto e pianoforte, a conoscere il teatro, le bellezze del mondo (incluse il Monte Bianco e Venezia), la moda, le “buone maniere” dell’alta società. La ragazza lasciò così la famiglia e si trasferì nella villa di Lévy, tra i vicini Coco Chanel, ma fedele alla sua promessa di sedicenne non si volle sposare e la storia finì.
Poi una nuova relazione questa volta col mercante d’arte Paul Guillaume, amico di Modigliani, De Chirico, Matisse, Picasso, che la consigliò ad Armand Berthez direttore del Théâtre des Capucines. Léonie fece prima la modella per lo stilista Paul Poiret, da molti considerato l’inventore dell’odierna idea di moda, poi accettò l’invito di calcare il palcoscenico, ma serviva un nome d’arte. Dopo aver scartato l’ironico Victoire de la Marne, la ragazza, grazie alle letture fatte con Lévy, si ricordò di una delle eroine del romanzo “Mont Oriol” di Guy de Maupassant chiamata Arlette. Berthez si limitò a suggerire l’anglicizzazione del nome. In quel momento nacque Arletty.
L’attrice salì per la prima volta sul palcoscenico nel 1919, inizialmente come ballerina di fila, per poi padroneggiare diversi generi, dalla rivista all’operetta, dalla commedia al music hall. Dieci anni ininterrotti di attività teatrale e tante relazioni da quella col poeta Pierre de Régnier alla passione scoppiata con la duchessa Antoinette d’Harcourt (era apertamente bisessuale), fino ad arrivare all’amore per l’imprenditore Jean-Pierre Dubost, una relazione che si fermò, come tutte, alle soglie del matrimonio, ma il legame durò per tutta la vita.
Nel 1930 Arletty debuttò sul grande schermo nel film La Douceur d’aimer diretto da René Hervil, cui fece seguito un ruolo da protagonista nella pellicola Un chien qui rapporte (1931) di Jean Choux. L’attrice, tuttavia, preferiva il palcoscenico e negli anni seguenti ottenne sempre più successo interpretando operette curate, tra gli altri, da Maurice Yvain (“Yes, Gabaroche, Azor”), da Raoul Moretti (“Un soir de réveillon”) e da Reynaldo Hahn (“Ô mon bel inconnu”), fino ad arrivare al celebre “Au Bonheur des dames” (“Il paradiso delle signore”) dove recitò al fianco di Michel Simon.
Ballerina, attrice di cabaret, teatro, ma anche modella per pittori quali Marie Laurencin, Kees van Dongen, Moïse Kisling, Fujita e Jean-Gabriel Domergue.
Poi il ritorno sul set. Jacques Feyder, infatti, la volle per Pension Mimosas (Pensione Mimosa, 1934) storia drammatica di un uomo cresciuto nella pensione della madre oppressiva e distrutto, complice il gioco d’azzardo, da una relazione tormentata. Nel film, che anticipò alcune tematiche del realismo francese, Arletty interpretò un’amica del protagonista. La pellicola, tuttavia, fu importante soprattutto per un altro motivo. Sul set, infatti, l’attrice conobbe Marcel Carné, all’epoca aiuto regista di Feyder.
Dopo quell’esperienza Arletty tornò a teatro, tra i titoli “L’École des veuves” di Jean Cocteau, recitò in altri film, Une aventure à Paris, Faisons un rêve, Désiré, Aloha, le chant des isles, Les Perles de la couronne (Le perle della corona), ma le strade dei due erano destinate a rincontrarsi.
Passato alla regia, infatti, Carné, reduce dal successo di Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie, 1938), uno degli straordinari frutti della collaborazione col poeta e sceneggiatore Jacques Prévert con un magnifico Jean Gabin, voleva raccontare un’altra storia di “fatalismo esistenziale” tratteggiando le vite di due coppie all’interno di un piccolo albergo, nacque Hotel du Nord (Albergo Nord, 1938).
Renée (Annabella) e Pierre (Jean-Pierre Aumont), il cui amore è osteggiato dai genitori, decidono di rifugiarsi in un albergo, l’Hotel du Nord, per suicidarsi. Mentre la ragazza tenta di portare a compimento il proposito, il giovane si spaventa e fugge spaventato credendola morta. Nella camera vicina vive una coppia di amanti, Edmond (Louis Jouvet) e Madame Raymonde (Arletty), che viene coinvolta nelle indagini nella polizia. Pierre viene arrestato, mentre Renée, in via di guarigione, si fa circuire da Edmond. Ma i due giovani riusciranno a ricongiungersi nonostante le avversità.
Adattato dal romanzo “Hôtel du Nord” di Eugène Dabit, il film giocò sul parallelo tra la coppia pura e sfortunata e quella più cinica e dissoluta, con un insolito lieto fine. I produttori volevano mettere in risalto Annabella, “ma la vera anima del film è Arletty, che scambiando la parola atmosfera per un insulto, compone una delle scene più famose di tutto il cinema francese” (Mereghetti).
Arletty, ormai uno dei volti più popolari di Francia, recitò successivamente in Le Petit Chose (1938) di Maurice Cloche, Mirages (Miraggio, 1938) di Alexandre Ryder, Tempête (Tempesta, 1939) diretto da Dominique Bernard-Deschamps (1939) e soprattutto, Fric-Frac, commedia diretta da Claude Autant-Lara e Maurice Lehmann (1939) che vide per la prima e unica volta insieme Michel Simon e Fernandel.
Un ingenuo impiegato di una gioielleria (Fernandel) diventa prima vittima, poi amico e infine complice involontario di una prostituta (Arletty) e di un piccolo malvivente (Michel Simon).
Una commedia semplice retta dalla bravura degli attori.
Film dopo film, spettacolo dopo spettacolo, ritratto dopo ritratto, foto dopo foto (celebri i nudi per Moïse Kisling), Arletty stava tratteggiando un’idea di donna diversa da quella pura e innocente interpretata, tra le altre, da Dita Parlo. Una donna forte, sensuale, determinata, indipendente. Provocante e provocatoria. Marcel Carnè la volle così anche per la sua successiva pellicola. Il regista stava, infatti, lavorando ad un film forte da un soggetto di Jacques Viot adattato per lo schermo da Jacques Prévert. Questa volta non c’era lieto fine. Era Le jour se lève (Alba tragica).
Ucciso un uomo, il giovane operaio François (Francesco nella versione italiana, Jean Gabin) si barrica nella sua stanza in un edificio della periferia proletaria di Parigi. Assediato dalla polizia ripensa alla storia che l’ha portato in quella situazione: l’incontro e l’amore con la giovane fioraia Françoise (Francesca nella versione italiana, Jacqueline Laurent), il rapporto con la seducente Clara (Arletty) e lo scontro con Valentin (Valentino nella versione italiana, Jules Berry), l’uomo ucciso, viscido e mellifluo con rapporti poco chiari con le due donne. Al sorgere del sole, con una folla di amici e curiosi sotto la finestra e la polizia pronta ad entrare, François si spara.
Una delle vette del realismo francese e del cinema mondiale che tratteggiò, grazie alla penna di Prévert capace di mettere in evidenza anche la differenza tra classi sociali, l’impotenza di due uomini di fronte a due donne. Appena uscito, nel giugno del 1939, fu subito censurato perché considerato, in tempi di guerra, “demoralizzante”. Nel dopoguerra censurata anche una scena di nudo di Arletty (del 1947 il più conciliante remake hollywoodiano, The Long Night – La disperata notte – diretto da Anatole Litvak).
Già, la guerra. Nel 1940 la linea Maginot non resse ai panzer nazisti. Il 14 giugno le truppe tedesche occuparono Parigi. A sud si instaurò lo “stato fantoccio” della Repubblica di Vichy. Tra le figure di spicco dei collaborazionisti, oltre a Philippe Pétain, c’era il capo del Governo francese Pierre Laval, la cui figlia Josée, moglie del conte René Pineton de Chambrun, aveva una certa “passione” per l’arte (nel dopoguerra vennero trovati nel suo palazzo 333 dipinti rubati nel nord della Francia) e per il cinema. Arletty, che come Carné e Prévert rimase in Francia pur rifiutando di lavorare per la Continental-Films, la sera del 25 marzo 1941 venne presentata da Josée Laval a un ufficiale nazista. Si chiamava Hans Jürgen Soehring.
Soehring, nato il 23 luglio del 1908 a Istanbul, dopo aver tentato fortuna in Argentina ed essere stato un diplomatico (parlava fluentemente inglese, spagnolo, francese) allo scoppio della guerra fu nominato, quale uomo fidato di Goering, giudice militare della Luftwaffe a Parigi. Arletty aveva dieci anni in più. Fu sbagliato, perverso, colpevole, ma fu amore.
Tornando al cinema, fare film liberi in quegli anni era praticamente impossibile. Tra il 1940 e il 1944 in Francia vennero realizzate poco più di duecento pellicole. Arletty recitò in alcune di queste, Madame Sans-Gêne (1940), Bolero (1941) e L’Amant de Bornéo (1942), prima di essere nuovamente chiamata da Carné e Prévert.
Il regista, che esortava il cinema a “scendere nella strada”, dopo essere stato costretto a rinunciare a diversi film, si era concentrato con il poeta su un soggetto inattuale, gli unici che potevano essere fatti al di fuori della Continental-Films di Goebbels, ambientato nel tardo Medioevo. Ancora una volta un conflitto tra amore puro e amore falso. Il 5 dicembre 1942 uscì Les Visiteurs du soir (L’amore e il diavolo).
Due menestrelli, Dominique (Arletty) e Gilles (Alain Cuny), giungono nel castello del barone Hugues (Fernand Ledoux) che sta organizzando le nozze tra la figlia Anne (Marie Déa) e il cavaliere Renaud (Marcel Herrand) portando scompiglio. I due, infatti, sono emissari del Diavolo (Jules Berry) deciso a seminare la discordia tra gli umani. Alla fine verrà sconfitto e l’amore resisterà in eterno.
Una favola medievale che si discostò dal realismo francese e per questo subì critiche. I riferimenti all’attualità inizialmente dovevano essere più marcati, ma la scena finale del cuore pulsante della coppia di amanti pietrificati era un chiaro riferimento al cuore vivo della Francia sotto l’occupazione nazista. Ancora una volta fu Arletty a rubare la scena, sensuale anche nei curati abiti d’epoca.
Il film rimase nei cinema per un anno. Il successo economico di Les Visiteurs du soir permise così al regista di ottenere fondi eccezionali per la sua successiva opera. L’idea di una nuova pellicola nacque a Nizza. Carné e Prévert, che stavano lavorando ad un progetto poi abbandonato, incontrarono per caso il mimo e attore Jean-Louis Barrault che raccontò loro un episodio della vita del leggendario mimo Baptiste Debureau, colui che definì il costume tipico della maschera di Pierrot, processato per l’uccisione di un uomo. In tribunale giunse “tutta Parigi” per sentire finalmente la sua voce
Il regista e lo sceneggiatore partirono da quella storia per descrivere un’epoca e una Parigi che non esistevano letteralmente più. Per farlo scrissero la parte di una donna forte e determinata. L’unica in quella storia a non essere realmente esistita. Nella sceneggiatura scritta tra l’agosto e l’ottobre 1943 la chiamarono Garance. Un ruolo scritto appositamente per Arletty. Nacque Les Enfants du paradis (Amanti perduti).
Le riprese iniziarono nel 1943 per concludersi, dopo molti rinvii, ostacoli, pressioni della Continental-Films, l’anno successivo. Il costo complessivo della pellicola arrivò a 60 milioni di franchi. L’edizione integrale, divisa in due parti Boulevard du Crime e L’Homme blanc, durava oltre tre ore e un quarto.
Nella Parigi della prima metà dell’Ottocento al teatro dei Funambules, una compagnia ottiene successo grazie al giovane mimo Baptiste Debureau (Jean-Louis Barrault) adorato dai poveri che occupano il loggione (chiamati Les Enfants du paradis). L’attore si innamora romanticamente di Garance (Arletty) affascinante donna legata equivocamente al bandito poeta Pierre-François Lacenaire (Marcel Herrand). Garance non è insensibile a Baptiste, ma è corteggiata anche dall’attore Frédérick Lemaître (Pierre Brasseur) e dal ricco conte Edouard de Montray (Louis Salou). Sarà proprio grazie alla conoscenza di quest’ultimo che eviterà l’accusa di omicidio. Dopo sette anni. La donna vive col conte. Baptiste ha sposato, senza amarla, la compagna d’arte Nathalie (María Casarès), che lo adora e dalla quale ha avuto un figlio. Frédérick è divenuto celebre. Garance, torna di nascosto a teatro per rivedere Baptiste, il quale sente risorgere in se l’antico amore. Nel frattempo Lacenaire uccide il conte, da cui è stato insultato. Il mimo e la donna conoscono finalmente la loro prima notte d’amore. Al sopraggiungere di Nathalie, accompagnata dal bambino, Garance fugge per le vie di Parigi, mentre impazza il carnevale, invano inseguita dal disperato Baptiste.
Un affresco sontuoso della Parigi di Luigi Filippo tra passioni, avventure e delitti. Un film magnifico considerato il più bello della storia del cinema francese, François Truffaut affermò: “darei tutti i miei film per aver diretto Les Enfants du Paradis“.
Magnetica, come sempre, Arletty nel frattempo, lontana da svastiche e ricevimenti come emerso da una fitta corrispondenza, continuava la relazione con Soehring che, complice il suo amore per una francese e per l’essere giudicato troppo “morbido”, venne declassato e mandato in Italia dove combatté nella battaglia di Montecassino, una delle tante, troppe, guidate dal “camerata Kesselring”, per ricordare l’immenso Piero Calamandrei.
Lei lo chiamava “Faune”, per via delle sue orecchie a punta, lui “Biche”, cerbiatta. L’attrice rimase in cinta durante le riprese de Les Enfants du paradis. Decise di abortire. La tristezza sul suo volto nella scena finale del film era reale.
Così come reale era la lotta al Nazismo. Il 25 agosto 1944 Parigi venne liberata. Il film di Carné, un inno alla Francia e alla sua capitale, venne scelto per essere il primo ad essere proiettato dopo la Liberazione. La prima si tenne il 22 dicembre 1944. Ma Arletty non c’era. Due mesi prima, il 20 ottobre, era stata arrestata con l’accusa di collaborazionismo per via della sua relazione con Soehring, che a luglio l’aveva invitata a fuggire. Anche l’amicizia con lo scrittore Louis-Ferdinand Céline, uno che col nazismo ebbe più di un “problema” che nel 1948 le dedicò lo scritto “Arletty, jeune fille dauphinoise”, non aiutò. L’attrice venne internata nel campo di Drancy, poi nella prigione di Fresnes, quindi agli arresti domiciliari ed, infine, invitata a lasciare Parigi.
Numerose testimonianze indussero le autorità francesi a lasciarla libera, sebbene con un divieto di lavoro per i successivi tre anni, ma a quelle accuse Arletty rispose come solo lei poteva fare: “Dopo essere stata la donna più invitata a Parigi, sono la donna più evitata”, “Se non volevate che dormissimo con i tedeschi, non avreste dovuti lasciarli entrare” fino alla frase simbolo, provocatoria, irriverente, per molti esagerata “Il mio cuore è francese, ma il mio culo è internazionale”.
Quell’amore colpevole continuò anche dopo la guerra. Soehring e Arletty passarono insieme il Natale del 1946. L’uomo le chiese di sposarla, ma l’attrice, fedele alla promessa fatta a sedici anni, rifiutò. La relazione durò fino al 1949.
L’ex ufficiale non subì alcuna incriminazione o particolari persecuzioni per la sua militanza nazista (benché smentita dal diretto interessato, pare che la sua iscrizione al partito di Hitler risalisse al 1937) divenne uno scrittore, tra i fondatori del movimento culturale Gruppe 47 al fianco di Hans Werner Richter, per poi ritornare a fare il diplomatico per la Germania Ovest. Sembra incredibile. Nel 1954 lavorò al Ministero degli esteri, poi in diversi stati africani prima di essere nominato nel 1960 ambasciatore della Repubblica Federale di Germania nella neonata Repubblica Democratica del Congo di Patrice Lumumba. Si sposò con Analisa “Anna” Pistor, in seguito documentarista, dalla quale ebbe due figli. L’amicizia con Arletty durò tutta la vita. Hans Jürgen Soehring morì durante un viaggio con la famiglia sul fiume Congo il 9 ottobre 1960 in circostanze tutt’ora misteriose. Il suo corpo non venne mai ritrovato.
Arletty terminati i divieti tornò, invece, sul palcoscenico e sul set. A teatro il ritorno fu nel 1949 con “A Streetcar Named Desire” (“Un tram chiamato desiderio”) di Tennessee Williams, in un adattamento di Jean Cocteau, diretto da Raymond Rouleau, la sua Blanche fu diversa da tutte le altre e il successo fu totale. Seguirono “La descente d’Orphée aux enfers” al fianco di Jean Babilée e “Un otage” di Brendan Behan.
Al cinema tornò con chi l’aveva fatta diventare uno dei volti più amati di Francia Marcel Carné e Jacques Prévert che stavano lavorando a La Fleur de l’âge. Iniziato a girare nel maggio del 1947 dopo dieci settimane di lavorazione il film venne bloccato dalla produzione. Nemmeno l’offerta imprevista di Salvo D’Angelo, a capo della cattolica Universalia Film che l’anno seguente finanziò La terra trema di Luchino Visconti, riuscì a risolvere la situazione. Del lavoro fatto sul set e del materiale girato rimane solo qualche scatto della fotografa Émile Savitry.
L’attrice recitò così in altri film, Portrait d’un assassin (1948) di Bernard-Roland, Le Père de Mademoiselle (1953) per la regia di Marcel L’Herbier e Robert-Paul Dagan e Le Grand Jeu (Il grande giuoco, 1954) diretto da Robert Siodmak dove recitò al fianco di Gina Lollobrigida, film modesto, brutta copia dell’originale diretto nel 1934 da Jacques Feyder.
Nel 1954 Arletty tornò a lavorare per l’ultima volta con Marcel Carné. Non solo. Si ricreò la coppia indimenticabile di Alba tragica con Jean Gabin che all’occupazione di Parigi era andato negli Stati Uniti per poi rientrare in Europa e combattere i nazisti.
Il regista, per una volta senza Prévert, voleva fare una pellicola sul pugilato, i produttori introdussero a forza una storia d’amore causando non pochi problemi in fase di sceneggiatura, ma quello che ne uscì fu l’ultima gemma del realismo francese (termine detestato dal regista che preferiva il termine populista). Era L’air de Paris (Aria di Parigi) nelle sale dal 15 agosto 1954.
Se la moglie Blanche (Arletty) sogna di trasferirsi in Costa Azzurra, Victor Le Garrec (Jean Gabin), un vecchio campione di pugilato, non si vuole allontanare da Parigi e cerca nella sua scalcinata palestra di scoprire nuovi campioni. Trova nel giovane André Ménard (nella versione italiana Andrea Mancini, interpretato da Roland Lesaffre) una nuova promessa, ma il ragazzo è presto chiamato a scegliere tra la boxe e la bella indossatrice Corinne (Marie Daëms). Tra una carriera promettente e l’amore.
Da pelle d’oca rivedere Arletty e Jean Gabin insieme, invecchiati, ma sempre bellissimi, quindici anni dopo Alba tragica. Quello che la guerra divise il cinema seppe unire.
L’attrice continuò l’attività teatrale, ma al cinema, complice anche i mancati ruoli da protagonista, non riuscì più a raggiungere i livelli delle sue interpretazioni tra gli anni Trenta e Quaranta. Anche perché nel 1957 un incidente le causò seri problemi alla vista.
Apparve ancora in diversi film da Le Passeger clandestin (Clandestina a Tahiti, 1958) di Ralph Habib a La loi des hommes (Grisbì da un miliardo, 1962) passando per The Longest Day (Il giorno più lungo, 1962) dove venne chiamata insieme ad altre star a rivivere lo sbarco in Normandia (tra gli altri Robert Mitchum, John Wayne, Sean Connery, Henry Fonda e Jean-Louis Barrault col quale aveva lavorato ne Les enfants du paradis) fino ad arrivare a Le Voyage à Biarritz (1963) diretto da Gilles Grangier al fianco di Fernandel. Fu il suo ultimo film. I problemi alla vista, infatti, si accentuarono, Arletty divenne quasi cieca e nel 1966 si ritirò anche dal teatro. Lo stesso anno perse il fratello e l’amato Jean-Pierre Dubost.
Sempre più sola e cieca andò ad abitare in un piccolo appartamento in rue de Rémusat a Parigi, accudita dalle amiche Marie Déa e Hélène Perdrière, anch’ella attrice. Non poteva più recitare, ma la sua voce sensuale e magnetica, la sua mente lucida e ironica potevano ancora raccontare. Comparve così in numerose interviste televisive e documentari, tra questi due sugli amati Carné e Prévert (che aveva un autentico debole per l’attrice), ma soprattutto raccontò la sua versione dei fatti attraverso i libri autobiografici “La défense” (1971), “Je suis comme je suis” (1987), “Les mots d’Arletty” (1988). Sostenne l’Associazione degli artisti ciechi e ne divenne presidentessa onoraria.
Léonie Marie Julie Bathiat, per tutti e per sempre Arletty, si spense nel suo appartamento il 23 luglio del 1992 a novantaquattro anni. Venne cremata a Père Lachaise e le sue ceneri sepolte nella tomba di famiglia del cimitero di Fauvelles a Courbevoie.
Amata da un Paese intero, poi odiata, invidiata, emarginata per quella passione mai nascosta, ma mai esibita. Infine riabilitata. Nel 1981 le venne dedicato il Prix Arletty riconoscimento per i migliori interpreti teatrali francesi. Dal 15 settembre 2002 il ponte sul canale Saint-Martin, dove tutt’ora si affaccia l’Hotel du Nord quello della celebre “Atmosphère! Atmosphère! Est-ce que j’ai une gueule d’atmosphère?”, si chiama Passerelle Arletty. Del 2015 è, invece, Arletty, une passion coupable (Arletty, una passione colpevole) film per la TV diretto da Arnaud Sélignac con Laetitia Casta nei panni dell’attrice e Ken Duken in quelli di Hans Jürgen Soehring.
Arletty, unica nell’universo di Carné, definì con le sue interpretazioni, che sceglieva con grande attenzione, la figura di “una donna spregiudicata, ironica, seduttiva, priva di morale, a tratti spezzata dall’amarezza, ma comunque forte e libera, con un prepotente bisogno d’amore che la trascina in storie inevitabilmente tragiche”. Insomma interpretò sullo schermo se stessa.
redazionale
Bibliografia
“La défense” di Arletty – Ramsay
“Marcel Carné” di Roberto Nepoti – Castoro
“Enciclopedia Rizzoli Larousse”
“Enciclopedia Treccani”
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2021” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza Screenshot di Le jour se lève e Les Enfants du paradis; foto 1, 4, 5 da it.wikipedia.com; foto 2 da mubi.com; foto 3 da imdb.com; foto 6, 7, 8, 9, 11, 12, 15, 16 Screenshot del film riportato nella didascalia; foto 10 da pinterest.com; foto 14, 17 Screenshot del film Le jour se lève.
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