La morte di Elizabeth Alexandra Mary del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, nonché sovrana dei reami del vecchio impero britannico, riconsiderato, dopo il suo disfacimento coloniale, come Commonwealth dal retrogusto leggermente cromwelliano, piaccia o non piaccia è un evento, qualcosa che rimarrà nei libri di storia e che, giustamente, viene seguito rivangando in profondità la storia del “secolo breve“.
Forse è un po’ vero che il Novecento perde, con la morte di Gorbaciov, ed ora con quella di Elisabetta II, quell’indebito ingresso che aveva fatto nel nuovo millennio e nel nuovo secolo, provando a farsi ascoltare anche dalle generazioni più recenti, tentando di andare oltre sé stesso.
Più per civetteria che per voglia di perseverare nella preservazione della memoria. Più che altro per ricordare i fasti di due grandi nazioni, di due imperi che hanno teorizzato un mondo moderno l’uno e una rivoluzione mondiale l’altro, salvo poi essere costretti dagli eventi a rinchiudersi nelle loro ampollose e burocratiche faccende di Stato.
L’avversione al cambiamento radicale, come Stato di una Unione Europea a cui, senza ombra di dubbio, non si può non rimproverare di essere madre e matrigna del patto che unisce i ventisette rimasti a farne parte, è stato il tormento più grande dopo le tensioni separatiste scozzesi e quelle indipendentiste irlandesi.
La Brexit, proprio nell’ultimo periodo di regno di Elisabetta, ha marcato un solco profondo tra un tipo di capitalismo continentale e una autonomia in tal senso che non ha, in fondo, spaventato più di tanto le borse internazionali.
Su Covid e guerra in Ucraina, come si è potuto agilmente constatare, Londra si è perfettamente allineata alle direttive globali e, nel contesto europeo, ha sposato l’atlantismo bellicista, facendosi portavoce, con Boris Johnson prima e ora con l’appena nominata Liz Truss, dell’ala più intransigente in quanto a difesa del governo di Volodymyr Zelens’kyj.
La regina, accusata di passività, di non essere stata mai protagonista delle decisioni politiche prese da quelli che il cerimoniale esige vengano chiamati “i suoi governi“, in realtà poteva rimproverarsi proprio il fatto di non essere autorizzata ad esprimersi in tal senso.
Quando Margaret Thatcher represse nel sangue le proteste dei minatori inglesi, schiacciando il movimento operaio che lottava contro il conservatorismo becero che limitava i diritti elementari della classe lavoratrice, Elisabetta II se ne lamentò con la “Lady di ferro“, ma a niente valse.
Ormai la lotta della working class era arrivata al suo epilogo. Pur resistendo tenacemente, le trade unions avevano perduto una battaglia e quella sconfitta avrebbe pesato enormemente sui successivi sviluppi sociali e politici del Regno Unito e anche del resto dell’Europa.
La regina, come simbolo dell’unità di un paese millenario, come emblema di una tradizione che non si intende interrompere, ha resistito longevamente e ha permesso alla monarchia di perpetuarsi, di apparire meno anacronistica di quanto lo fosse nel momento di maggiore crisi, quando la morte di Lady Diana Spencer fece alzare l’asticella delle preferenze repubblicane fino ad oltre un terzo della popolazione.
Fu lì che Elisabetta, toccato il punto forse più basso del suo consenso e del suo regno, seppe interpretare il sentimento comune e si adeguò. Uno sforzo non da poco per una come lei, abituata a mettere in pratica sempre e soltanto il dovere, facendo della sua vita di privilegi aristocratici, di ineguaglianza per eccellenza e per antonomasia, un elemento ancora rispondente ad un qualche senso, ad una qualche ragione di esistere.
La sua morte, trattata con la delicatezza che si riserva ad una figura mitologica, ad un classico che non cessa mai di essere tale, può oggi aprire nel Regno Unito e anche negli altri paesi del Commonwealth, una discussione seria ed approfondita su una transizione verso una certa idea di “repubblica britannica“.
L’unico momento della storia inglese in cui questo si è realizzato, seppure con tutte le particolarità del momento, dopo una guerra civile in cui l’assolutismo di Carlo I venne sconfitto dal parlamentarismo di Oliver Cromwell, è avvenuto appunto a metà del ‘600 con un sanguinoso conflitto civile.
Oggi, se la repubblica entrasse piano piano nelle plausibili possibilità di un cambiamento della forma dello Stato, è abbastanza logico ritenere che il passaggio del potere avverrebbe pacificamente, senza troppi sommovimenti: basterebbe affidarsi, come fatto del resto in Scozia, molto democraticamente, ad un referendum.
L’Italia fu, forse, antesignana in questo senso e, nonostante si sia sostenuto – con qualche ragione – che il passaggio dalla monarchia sabauda alla repubblica democratica ed antifascista avvenne senza un rottura traumatica nella società, va tenuto in conto che il nostro Paese usciva da un ventennio di fascismo e da una guerra mondiale di cui era stato, suo malgrado, infelice protagonista…
La Gran Bretagna oggi può vantare una storia millenaria ricca di cultura: dalla “Magna Carta Libertatum” fino alla più vicina rivoluzione puritana che vide, per la prima volta nella storia dell’umanità, la testa di un re saltare dal suo collo; dalle compensazioni agli espansionismi europei di potenze passate attraverso fasi medievali (il Sacro Romano Impero e la Prussia) e altre nelle intercapedini di grandi eventi rivoluzionari (la Francia di Luigi XVI prima e di Danton e Robespierre poi, alla atroce espansione coloniale, al fondamentalismo razzista dal Sudafrica all’India.
La Gran Bretagna, quindi, può oggi, come tutte le grandi nazioni, esprimere molti mea culpa per un imperialismo mondiale che non ha mai del tutto abbandonato: lo trasporta nel nuovo tempo moderno con sembianze e declinazioni obbedienti ad una resilienza che mira a fare dell’istituto monarchico uno dei migliori esempi di equilibrio istituzionale anche per il millennio apertosi da ventidue anni a questa parte.
Il capitalismo nazionale, continentale e globale deve potersi fidare di chi detiene dei privilegi ereditari piuttosto di chi viene eletto democraticamente dall’interezza della popolazione. La rivoluzione di Cromwell, nel voler trasferire il potere di governo del paese al parlamento, non pretese di capovolgere lo stato dei rapporti di classe di allora. Il cambiamento fu limitato alla possibilità concreta che la borghesia di allora avesse più margini di manovra per i propri interessi.
L’espansione terrestre e il dominio marittimo, da Drogheda al canale della Manica, dalle Americhe fino all’Australia, hanno garantito alla Gran Bretagna monarchica una intangibilità indefessa. Le classi dirigenti dei secoli successivi alla rivoluzione civile non hanno minimamente pensato di stravolgere un sistema statale che si sposava perfettamente con quel capitalismo (moderno) che avrebbe fatto la sua comparsa primordiale proprio in Inghilterra, per poi espandersi globalmente.
Dal retaggio storico di questa nazione si può imparare quindi l’evoluzione civile e sociale del mondo in cui ancora oggi ci troviamo a vivere. Per questo le domande che ci si pongono, dopo la morte di Elisabetta, sui mutamenti istituzionali sono legittime, mentre le risposte sono altamente imprecise, anche solo se tentate.
Quanto può ancora la forza della tradizione storica, del costituzionalismo non scritto, del diritto fondato su solide basi di convivenza reciproca e di rispetto dei patti essere il supporto di una casa reale che, morta Elisabetta, pare non essere più in grado di rappresentare una grandezza e una lunghezza temporale di questo tipo?
E’ questa una delle domande che esigerebbe appunto, più che la ricerca di una risposta immediata, della sfera di cristallo. Purtroppo soltanto i rapporti di forza socio-economici e l’evolversi (o l’involversi) delle interconnessioni globali tra gli Stati risolveranno questo enigma o, quanto meno, proveranno a dargli una qualche soluzione anche parziale in attesa di ulteriori mutazioni genetiche tanto istituzionali quanto strutturali.
Di una cosa possiamo essere certi: la forma repubblicana di uno Stato è foriera di una idea progressista di uguaglianza e non di una concezione conservatrice per cui l’essere uguali significa essere livellati al di sotto della sovranità di un singolo individuo (oltre che del padronato imprenditoriale e dell’alta finanza…). La monarchia, partendo dalla stessa etimologia terminologica, è diseguaglianza intrinseca nel pubblico, nella società, nella comunità che è fatta non di cittadini ma di sudditi.
La repubblica, in sostanza, ci avvicina ad una plausibile e possibile evoluzione di progresso civile e sociale. La monarchia ci relega al mantenimento di uno status quo ante che non è più sostenibile se non come elemento fiabesco, nonostante gli sforzi fatti, prima di tutto da Elisabetta II, per rendere accettabile il regno come ipotesi che si riproduce senza entrare troppo in contraddizione con la necessità di una avanzata dei diritti universali dell’uomo e del cittadino a tutto tondo.
In fondo, si è giunti ad un compromesso tra l’ieri e l’oggi: se il re regna e non governa dalla metà del ‘600, può avere le funzioni rappresentative di un capo di Stato ancora più oggi, molto più simboliche e allo stesso pratiche rispetto al passato, quando si tratta di mantenere intatte quelle tradizioni che sono le leggi fondamentali della nazione, garantendo il funzionamento della macchina statale, rispettando l’autonomia governativa e l’indipendenza della magistratura.
Il punto finisce con l’essere proprio questo: dopo il lungo cursus honorum della sovrana appena scomparsa, il timore che nessuno sia in grado di raccoglierne l’eredità in quanto a prestigio della e per la monarchia si fa dubbio costante.
E’ una crisi di identità che appartiene a tutte le grandi cesure che la Storia mette in essere, che impone stando nel tempo e non separandosi da esso. Il fluire degli eventi costringe al confronto con cambiamenti che vanno oltre la nostra vita mortale; mentre la pretesa degli Stati è di sopravvivere, se non per sempre, sicuramente ai propri rappresentanti e ai propri popoli.
Carlo III Windsor, se un referendum per la repubblica non sarà la proposta sociale e politica di un movimento di massa per un cambiamento radicale, avrà questo compito: dimostrare che la monarchia ha un senso nel 2022 in Gran Bretagna. E se non dovesse averlo più nel regno per antonomasia, allora si aprirebbero nuove possibilità affinché in questa fase storica di un presente in continuo cambiamento, pandemico, climatico e geopolitico – bellico, la rivincita delle repubbliche sulle monarchie potrebbe avere una nuova spinta propulsiva.
Corsi e ricorsi storici si alternano. Ma la rivincita dei regni è ancora tutta da venire. Al capitalismo liberista sembrano piacere molto di più le democratiche forme repubblicane per mostrare che, alla fine della via dell’inganno, tutto va bene… madama la marchesa, e che il limitare della storia è sempre davanti a noi per regalarci l’illusione di essere alla fine del cammino umano, di un progresso che non può andare oltre.
Possiamo fare a meno delle monarchie oggi e del capitalismo domani. Fare del mondo una grande repubblica universale era un’altra parte di quel sogno di una cosa che, marxianamente, ci piace poter immaginare come il luogo del futuro in cui non vi saranno più privilegi, profitti e sfruttamenti di ogni tipo. Nel frattempo… viva la Repubblica britannica. Con tanti anticipati auguri di futura nascita.
MARCO SFERINI
10 settembre 2022
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