L’Europa è un modello di integrazione industriale più che di integrazione politica. Un «sistema produttivo integrato» con al centro la Germania e la sua manifattura, che trasforma e assembla semilavorati e prodotti intermedi provenienti per lo più da altri Paesi. Per questo ciò che accade a Berlino non può lasciarci indifferenti.
Ieri, lo Statistisches Bundesamt (l’ufficio di statistica tedesco) ha reso noto il dato di luglio della bilancia commerciale. Il surplus è stato di 5,4 miliardi (6,2 miliardi a giugno). Meglio delle attese, ma poco rispetto ai fasti degli anni passati. Con quel segno meno di maggio – il primo dopo trent’anni – che incombe come il fantasma della chiusura di un ciclo. Basti ricordare che ancora nel 2019 la media mensile era stata di 19 miliardi. Nel 2016, l’avanzo aveva raggiunto addirittura i 253 miliardi di euro (l’8,3% del pil).
Una costante violazione delle regole Ue, in base alle quali il saldo delle partite correnti di un Paese non può superare, nella media triennale, il 6% del pil. Ma anche un peccato tollerato, ancorché gli squilibri commerciali tra centro e periferia siano stati concausa del crack di alcuni Paesi europei nel decennio scorso.
A vedere i numeri di oggi, nondimeno, sembra un altro mondo. E viene da chiedersi se tali cambiamenti siano strutturali oppure no. La guerra sta certamente fungendo da acceleratore nel processo di transizione verso un nuovo ordine economico mondiale. Energia, produzione, mercati: è un ribollire di trasformazioni che lasceranno certamente il segno. Intanto, gli ultimi dati macroeconomici dicono che la Germania rischia di tornare ai primi anni Duemila, quando veniva bollata come «il malato d’Europa». Nel secondo trimestre di quest’anno ha evitato la recessione per un soffio, ma un autunno e un inverno neri sono adesso più che una probabilità.
Nel bollettino di agosto la Bundesbank è stata chiara: «L’alto grado di incertezza sulle forniture di gas e il forte aumento dei prezzi influiranno pesantemente su famiglie e aziende». E il bollettino è stato scritto prima del clamoroso stop “a tempo indefinito” del più grande gasdotto d’Europa annunciato ieri dai russi di Gazprom. La previsione è che già da questo autunno l’inflazione arrivi al 10% e che essa possa combinarsi con una severa contrazione dell’economia (segnali negativi anche dai prezzi alla produzione a luglio in Europa: +4%). Con effetti a «catena» sui distretti della sua «manifattura allargata».
Un guaio anche per l’Italia, insomma, che della Germania è il primo partner commerciale e produttivo (nel 2021 interscambio di 144 miliardi). Senza componentistica italiana non ci sarebbero auto tedesche, ma se la Germania dovesse fermarsi, centinaia di aziende italiane rischierebbero il default. Dal Trentino Alto Adige alla Basilicata. Non è un dato da poco che il 20% della componentistica prodotta in Italia finisca nelle macchine tedesche. Merci italiane esportate in Germania per la produzione di beni finali che la Germania, al netto del mercato interno, dovrà collocare dentro e fuori i confini dell’Unione europea.
Ma fuori dall’Europa che succede? La guerra russo-ucraina – sarebbe il caso di dire l’approccio europeo alla guerra – sta rendendo più difficili anche i rapporti con la Cina. E la Germania, nel caso di forte deterioramento dei rapporti tra l’Europa e Pechino, sarebbe il Paese che ci rimetterebbe di più. La sua industria automobilistica, come ha rilevato l’Ifo di Monaco, rischierebbe una contrazione dell’8,5%. E l’Italia, anche in questo caso, pagherebbe il suo prezzo. Addio «proiezione euroasiatica del blocco tedesco», per dirla con Joseph Halevi.
Intanto, negli Usa, che pure rappresentano una fetta di mercato importante per la Germania, la recessione è sempre più considerata preferibile all’inflazione. I dati di ieri sul mercato del lavoro dicono che ad agosto gli occupati sono cresciuti di 315.000 unità, più di quanto si attendeva il mercato. Troppi. Serve un altro giro di vite della Fed. Gli americani devono spendere di meno, altrimenti l’inflazione non decresce. E questo avrà ripercussioni anche sulle nostre esportazioni.
Tempi difficili. Ma proprio per questo sarebbe venuto il momento di riconsiderare lo schema neo-mercantilista imposto in Europa dalla Germania. Un modello di accumulazione basato su politiche fiscali restrittive e lavoro svalutato sul piano interno.
LUIGI PANDOLFI