Spesso, e a torto, affidiamo il resoconto della Storia (quella con la esse rigorosamente maiuscola) all’esposizione dei fatti in una sequela cronologica, piena di datazioni, di nomi di battaglie, di luoghi noti o meno noti e, ovviamente, di grandi personalità che hanno decretato l’andamento del corso degli eventi.
E’ un passaggio obbligatorio di acquisizione di una conoscenza sommaria che, a partire dagli studi superiori, dovrebbe divenire sempre più meticolosa nella specificazione, nella disarticolazione degli accadimenti per capire, con approfonditi studi, come veramente hanno preso forma e sostanza tutti i movimenti sociali, politici ed economici che hanno attraversato e si sono fatti attraversare dal cammino umano.
Questo avviene quando si studia l’origine, lo sviluppo e la decadenza di qualunque fenomeno registrabile nel grande libro della Storia universale.
Tanto più se si tratta di riferirsi a quell’arte tanto violata nella sua intima natura, in millenni e millenni, che con spregio oggi viene apostrofata come “la politica“, non per antonomasia, ma quella che ha soppiantato l’essenza, l’alto valore dell’interesse comune per la res publica, per la polis, ed è servita a molti, tanti, troppi per coltivare interessi del tutto personali, privati e allontanarla dal servizio che andrebbe reso alla popolazione tutta.
Nel cercare di capire come si è evoluto un certo tipo di società, una certa politica in seno ad essa e, in questa, quella di una precisa parte, si potrebbe fare come si fa per le grandi epopee degli Stati, degli imperi, delle battaglie decisive per le sorti di un continente o, addirittura, di una intera epoca storica.
Si potrebbe studiare solamente la vita e le opere delle figure più comunemente conosciute, nonostante oggi sia davvero sempre più patrimonio di pochi un simile interesse…; oppure si potrebbe invertire la tendenza e andare a cercare chi ha preso parte al grande teatro della vita e della politica pur non essendo stato il protagonista assoluto.
Quelli che vengono considerati “personaggi minori” di una commedia, solitamente sono quelli che hanno ruoli dirimenti, da cui è impossibile prescindere e per cui, il farne a meno, comporterebbe una riscrittura dell’intero testo e, quindi tutta un’altra storia da mettere in scena.
Accade così anche nella vita reale: il meccanicismo indotto dalla concatenazione dei fatti, espressi dalle azioni dei singoli, crea l’enorme sceneggiata quotidiana che andiamo a rappresentare inconsapevolmente ogni giorno, magari pensando che le nostre singole scelte, soprattutto politiche, non incidano poi molto nel risultato finale di piccolo, medio o lungo periodo.
Se parliamo di sinistra in Italia, di socialismo e di comunismo, abbiamo il nostro pantheon, il nostro sancta sanctorum, la nostra schiera di grandi, eminenti personalità che hanno certamente dato un contributo enorme alla causa e che, quindi, più che giustamente sono – come si usa dire – “entrati nella Storia“.
Accanto alla conoscenza di mostri laicamente sacri come Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, solo per citare i segretari nazionali del più grande partito comunista dell’occidente europeo, tutta una serie di figure impropriamente definibili “minori“, una moltitudine di “anonimi” ha fatto sì che quelle idee e quelle scelte politiche potessero camminare ed evolversi, cambiando a volte sé stesse e, senza ombra di dubbio, influendo su quello sviluppo sociale che la borghesia avrebbe voluto molto, ma molto diverso.
Lucio Libertini è stata una di quelle gambe, di quelle menti, di quelle braccia che hanno camminato, pensato e detto e scritto per sostenere attivamente, per tutto il corso della propria vita, una passione nei confronti degli sfruttati, dei più deboli, di un proletariato che, dialetticamente come tutto il resto, era in divenire.
Il lavoro di Sergio Dalmasso “Lucio Libertini. Lungo viaggio nella sinistra italiana” (Edizioni Punto Rosso, 2020) è, a questo proposito, proprio una attentissima ricerca che unisce l’esistenza del singolo con quella della comunità in cui sceglie di formarsi e di lottare per l’emancipazione sociale, per un mondo dove il capitalismo sia finalmente superato.
Una impresa ciclopicamente titanica che, a volte, fa scivolare nell’innamoramento romantico dell’alternativa di società, oppure rintuzza la passionalità verso compromissioni che sfuggono di mano, che ottenebrano i veri primigeni sentimenti di altruismo per arrivare ad abbracciare particolarismi e interessi che dal bene comune piegano verso verso quello egoisticamente privato.
Lucio Libertini l’ha tentata questa rotta indefessa, questo mantenersi tale e quale agli ideali della sua gioventù, proprio come Enrico Berlinguer, non separandosi mai dall’orizzonte socialista tradotto in un binomio necessario all’espressione più libertaria possibile della trasformazione sociale: l’equidistanza, l’autonomia ed, anzi, l’indipendenza da ogni forma di tentazione autoritaria e stalinista o da quella dell’omologazione socialdemocratica.
Per questo, quando si è separato dalle case comuni in cui ha dato la sua opera di militante, intellettuale e giornalista, era assolutamente conseguente che gli venisse appioppata l’etichetta infamante di “glob trotter della politica“.
In realtà, come ebbe a dire lui più volte, smentendo i detrattori che lo bollavano come “incoerente”, «…sono i partiti che sono cambiati attorno a me…».
Non voleva essere una accusa astiosa, bensì una constatazione di fatto, una evidenza oggettiva: per rimanere quel che era, un socialista di sinistra, un comunista antistalinista e libertario, Libertini ebbe il bisogno di trasferirsi politicamente ed organizzativamente laddove si formavano le condizioni per portare avanti quel tipo di lotta, supportata da quell’impianto critico che vedeva nell’anticapitalismo l’essenziale non negoziabile in nome di nessuna conquista a breve termine.
Come un po’ tutte le donne e tutti gli uomini che, per ragioni anagrafiche, sono stati costretti a tracciare la loro vita lungo il tortuoso “secolo breve“, anche Libertini cumula una serie di esperienze politiche che sono fondamentali per una crescita culturale che è, prima di ogni altra cosa, acquisizione di una consapevolezza critica e sociale. Anzi, di critica sociale propriamente detta.
Le sue “Sette tesi sul controllo operaio” saranno un documento, condiviso con l’acume di Raniero Panzieri, che interverrà nel dibattito apertosi in seno al PSI sul rapporto con i lavoratori nel momento in cui la scelta di aderire al centrosinistra si farà sempre più pressante.
La svolta moderata del partito, che afferma teoreticamente la necessità dell’instaurazione della democrazia borghese come passaggio necessario per la costruzione delle prospettive di transizione dal capitalismo al socialismo, è una delle critiche angolari dello studio di Libertini e Panzieri. Ed allo stesso tempo, però, si ricerca un modo, unitamente ad una pratica, che consenta al proletariato moderno di coniugare la lotta di classe con la democrazia, svincolata dal paradigma del libero mercato come espressione sinonimica della libertà per antonomasia.
L’importanza di quella rivendicazione un po’ paradigmatica, ma per niente dogmatica, tornerà nel correre del tempo, nel ripetersi delle nemesi affrontate dalla sinistra in Italia, soprattutto da quella comunista.
Nel passaggio dal PCI al PDS, Libertini sarà lì a rimettere sul tavolo l’attualità di una prospettiva nettamente opposta al capitalismo, soprattutto dopo la caduta dell’URSS e la fine (?) del legame tra il movimento operaio e del lavoro in occidente e il grande gigante di un “socialismo reale” mai veramente realizzato.
Rifondazione Comunista sarà il suo ultimo approdo, la sua ultima casa comune. Sarà un progetto cui dedicherà tutto sé stesso, come sempre del resto, e fino alla fine dei suoi giorni.
La morte lo troverà intento ancora a scrivere per il congresso e a prepararsi alla grande manifestazione annuale a Roma, a settembre. L’eredità che Libertini ci ha lasciato è la libertà di essere critici nonostante tutto attorno ti spinga a non esserlo e ad omologarti: per la ragion di partito, per la ragion di Stato, per la ragione economica, per una sovrintendenza morale che imporrebbe di adeguarsi.
L’inadeguatezza come cifra del dubbio e come esercizio costante della meticolosa ricerca di una sopravvivenza delle proprie idee che, o tempora o mores, sono rimaste quelle della gioventù: perché il tempo scorre ma il capitalismo, purtroppo, ancora rimane al suo posto e, per questo, abbiamo bisogno anche di Lucio Libertini per imparare a lottare in modo nuovo e antico al tempo stesso.
LUCIO LIBERTINI
LUNGO VIAGGIO NELLA SINISTRA ITALIANA
SERGIO DALMASSO
EDIZIONI PUNTO ROSSO
€ 18,00
MARCO SFERINI
31 agosto 2022
foto tratte dall’archivio della Fondazione Gramsci e dall’archivio nazionale del Partito della Rifondazione Comunista