È stata necessaria la caduta del governo per convincere Draghi e i suoi ministri a valutare l’ipotesi di introdurre nel «Decreto Aiuti bis» una «decontribuzione» sul lavoro dipendente in sostituzione del controverso bonus da 200 euro previsto a luglio per 31 milioni di persone. Nella ricostruzione fornita ieri da Cgil, Cisl e Uil all’uscita dall’incontro a palazzo Chigi la misura non sarebbe «una tantum» e durerebbe fino «a dicembre».
In realtà si sta discutendo di una «misura una tantum» per la durata di quattro mesi. L’unica differenza è che i soldi arriveranno a rate e non tutti e subito. Uno dei modi possibili, ma ancora del tutto insufficienti, per «aumentare il netto in busta paga» (Pierpaolo Bombardieri (Uil) e dare l’impressione di tamponare l’enorme emergenza salariale in presenza di un’inflazione crescente.
Sempre che il decreto «aiuti bis» sia varato a tempi di record dal parlamento si tratterebbe anche di capire quanti dei 14,3 miliardi di euro stanziati saranno destinati alla «decontribuzione»; quanti soldi andrebbero al taglio parziale o totale dell’Iva sui beni di prima necessità come il pane o la pasta (da azzerare), dal 10 al 5% su carne e pesce (sul punto si sono divise le forze dell’ex maggioranza draghiana); e quante risorse andrebbero alle proroghe delle misure su benzina e bollette fino a fine 2022.
Il governo si è inoltre impegnato a erogare i 200 euro di luglio anche ai lavoratori precari e stagionali esclusi (si veda Il Manifesto del 6 luglio). Dovrebbe essere anticipata la rivalutazione delle pensioni prevista dal primo gennaio 2023. I sindacati hanno chiesto di estendere la tassa sugli extraprofitti alle multinazionali della logistica e dell’economia digitale.
La soddisfazione prudente mostrata ieri dai confederali va relativizzata rispetto alle rivendicazioni avanzate, in particolare da Cgil e Uil, dallo sciopero generale del dicembre 2021 contro il governo Draghi. In questi mesi i sindacati hanno chiesto una pluralità di interventi per sostenere i salari dei dipendenti (e le pensioni): rinnovo dei contratti nazionali (e decontribuzione degli aumenti); indicizzazione dei salari al netto dell’indice Ipca depurato dal caro energia che incide gravemente sui salari reali; taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori; riforma del precariato del mercato del lavoro (si presume, il Jobs Act). La decontribuzione farebbe parte di questo imponente pacchetto. Impossibile da ottenere dalla maggioranza draghiana «senza formule politiche».
«Il taglio dell’IVA non è lo strumento prioritario da agire: primo perché si tratterebbe di un taglio per tutti a prescindere dal reddito; secondo perché noi abbiamo posto il problema di un controllo dei prezzi perché il loro aumento non è legato solo all’inflazione ma anche ad una speculazione» ha detto Maurizio Landini (Cgil). La stessa andrebbe fatta per la proroga del taglio di 30 centesimi sulle accise della benzina. In Francia un «ristorno» simile ha sollevato la critica del Conseil d’analyse économique creato dalla prima ministra Elisabeth Borne. Il taglio è una «misura regressiva» che favorisce i ceti più abbienti e danneggia i ceti che hanno bisogno della macchina per muoversi e lavorare.
Il taglio dell’IVA così concepito sarebbe persino inutile. «Potrebbe funzionare – ha osservato Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori – solo se riguardasse anche l’Iva al 10% e non solo quella al 4%, che produrrebbe un risparmio teorico a famiglia pari in media solo a 90 euro, ipotizzando che i commercianti riducano il prezzo senza trattenerne una minima parte dell’azzeramento dell’Iva. Anche in caso di famiglie numerose, la sostanza non cambierebbe. Il risparmio per una coppia con 2 figli sarebbe pari solo a 122 euro e 78 centesimi su base annua, ben sotto il bonus di 200 euro». Sono i paradossi della politica dei bonus, quella che il governo continua nella sua esistenza postuma.
Il segretario del PD Enrico Letta ha definito «surreale» l’incontro con i sindacati. Per Letta recrimina sul fatto che agiva per il meglio ma è stato fatto cadere. In realtà ha incassato uno sciopero generale a dicembre e due della scuola in 5 mesi. Dopo di che è imploso per la guerra di tutti contro tutti e l’incapacità di rispondere all’emergenza economica e sociale che si è manifestata almeno da un anno. Va ricordata la cronaca: un incontro con i sindacati c’è stato il 2 maggio. Poi sono passati 70 giorni senza riscontri. E il 12 luglio Cgil e Uil si erano detti insoddisfatti per le chiacchiere del governo. «Surreale» è lavorare a una prima misura sui salari dopo la fine.
ROBERTO CICCARELLI
Foto di Markus Spiske