Che fine ha fatto la guerra in Ucraina? E’ rimasta vittima della immediatezza delle notizie che seguono la legge del sensazionalismo, degli scoop a buon mercato e della concorrenza spietata tra le tante testate giornalistiche che hanno fatto a gara, nei primi due mesi del conflitto, per accaparrarsi, con centinaia di inviati spediti sul campo, quell’ascolto di un pubblico famelicamente incuriosito dal primo conflitto veramente moderno nell’Europa delle monete, dei profitti e della NATO che si allarga a dismisura.
Le dirette fiume delle televisioni, le iperconnessioni quotidiane di tutti noi sui telefonini, per sapere dove e quando stessero avanzando le truppe di Putin, sono durate persino troppo rispetto agli standard comuni del livello di attenzione crescente che si registra su un particolare fenomeno del momento. Per l’appunto: del momento. Non è dato a nessun evento poter occupare la scena massmediatica per più di un tot ti tempo.
La guerra, va da sé, era ed è tutt’ora un fatto talmente enorme e globale che non può non occupare ogni giorno una finestra informativa nell’apertura di tutti i tg e dei siti web dei quotidiani. Forse, nel presenzialismo di lungo corso, è stata battuta soltanto dall’esplosione pandemica di due anni e mezzo fa: quella ci coinvolgeva direttamente e, quindi, per mesi e mesi gli schermi televisivi erano divenuti espressione di una onnipresenza asfissiante sui temi della Covid-19.
L’informazione, per la verità, ne ha giovato da un lato e ne ha patito dall’altro: l’overdose di informazioni ha preservato chiunque dall’alibi del non sapere, del non poter non conoscere; ma, al contempo, ci ha buttato addosso una tale, ripetitiva, ossessivo-compulsiva valanga di opinioni da generare l’effetto contrario rispetto a quello necessario di una chiara, diretta comunicazione istituzional-scientifica sui fatti che mutavano di giorno in giorno e sulla straordinaria capacità di un virus di superare la repentinità della tambureggiante diffusione di notizie che viene veicolata improvvidamente dai social network, prima ancora che dalle televisioni o dalla carta stampata.
La guerra in Ucraina ha tenuto banco per due mesi e mezzo come prima notizia da dare, con annesso e connesso il triste bollettino quotidiano sui fronti che avanzavano o retrocedevano.
Giustamente qualcuno ha osservato che, alle legioni dei virologi che imperversavano ogni dove, si erano sostituiti generali, comandanti in pensione, analisti geopolitici, inviati di guerra, giornalisti ucraini sbraitanti dalle loro abitazioni nella Kiev quasi assediata dai russi. Il nuovo canovaccio dello spettacolo messo in scena dalle televisioni, pronto per ogni pagina social, era praticamente stato concordato indirettamente dalle mosse del proprio collega e da quelle di un altro.
La vicendevolezza della concorrenza giornalistica non poteva non prendere il sopravvento e, in particolar modo, averlo sulla veridicità delle notizie che venivano date con la forma ufficiale della correttezza per quanto riguardava l’interpretazione esclusivamente occidentale del conflitto, mentre ogni voce critica su entrambi i blocchi in contesa globale, ogni tentazione pacifista ma non equidistante dalle sofferenze di niente e nessuno, era relegata al diritto di tribuna e allo sberleffo giornaliero, oltre che all’ormai strutturalmente endemico odio tipico delle reti sociali internettiane.
Poi, dopo due mesi e mezzo di dirette e maratone, di dibattiti, deduzioni, cartine dell’Ucraina esposte in tutti gli studi televisivi, con l’unico pregio di aver insegnato indirettamente un po’ di geografia a chi non sapeva nemmeno dell’esistenza di quel paese dell’Est europeo, la marea montante del bellicismo italico si è stabilizzata, adeguandosi agli standard imposti da un regime dell’informazione che doveva necessariamente spostare l’attenzione anche su altri avvenimenti.
Non che non ve ne fosse l’opportunità e nemmeno ne mancasse il bisogno. Generalmente – come osservato da Jacques Deridda – la stampa informa i fatti e non sui fatti. Quindi ciò che veniamo a sapere dai mass media è non il prodotto di una meticolosa e asettica cronaca, ma un primo filtro dell’informazione che, di per sé stessa, altera la sua funzione quasi naturalmente perché non si può pretendere che il cronista sia completamente avulso dalla propria visione delle cose, quindi, sia completamente privo di soggettivismo.
Il problema, però, qui non riguarda tanto la funzione disinformatrice di una massmediologia che obbedisce alle regole del mercato e che, quindi, deve produrre il massimo di vendite di copie, di ascolti televisivi e di contatti e click internettiani.
Qui si tratta semmai del venir meno dell’informazione stessa o, per meglio dire, di un suo riconformarsi agli standard della normalità rispetto all’eccezionalità: passata l’eclatante fase dell’avvenimento che deve stare su ogni piattaforma e diffondersi capillarmente, perché di per sé un evento come la pandemia, e poi uno come la guerra, si fanno oggettivamente largo fra tutte le altre, seppur importantissime, notizie, il passaggio successivo è il rientro nei canoni della abitudinarietà di un fatto che, protraendosi nel tempo, perde il mordente sulla curiosità popolare e, quindi, assume le fattezze della consuetudine.
Questo non significa che il giornalismo italiano trascuri quello che accade in Ucraina. E’ un dato di fatto che questo avvenga, perché la natura del cronista e della cronaca medesima sta proprio nel riportare quanto avviene sull’onda di una emotività generale, per poi subire anche la discesa della curva dello stupore, del bisogno costante di notizie che incalzano tanto quanto il dibattito pubblico, le chiacchiere da bar o da treno e autobus.
Scorrendo tutti i siti Internet dei più grandi quotidiani e settimanali italiani, si può chiaramente evincere che la guerra ha raggiunto praticamente la giornaliera disamina dei dati sui contagi da Coronavirus: per leggere quel che avviene in Ucraina bisogna far girare la rotellina del mouse a lungo, scendendo fino agli articoli della mondanità. La crisi di governo, la siccità imperversante e gli scioperi dei trasporti la fanno da padroni nelle preoccupazioni estive degli italiani.
La guerra e la pandemia vengono, così, classificate nella scala di una informazione consuetudinaria, da riferire nello schema dei bollettini quotidiani e da contornare a volte con le cronache che riguardano i rapporti internazionali tra Stati Uniti d’America e Russia, nei viaggi di Biden in Israele, nel pericolo dell’atomica iraniana o con le immagini gomito a gomito tra il presidente e Bin Salman.
Il rischio sempre presente è che la sottovalutazione degli eventi prenda il sopravvento e finisca per costringerci, nostro malgrado, ad una progressiva minimizzazione di quel che avviene. E’ il risvolto di una medaglia che, dall’altro lato, conserva l’immagine di una storia che, probabilmente a prescindere dall’attuale ruolo svolto dai media in merito tanto alla pandemia quanto alla guerra, sarà riconsiderata dall’attualistica prima e dalla storiografia poi dandole il giusto spazio nei punti di osservazione che dal futuro si avranno sul recente passato.
Al momento, è proprio l’impossibilità di mettere la parola “fine” ad entrambi i grandi eventi di questi ultimi anni, a garantire a loro e a noi una certa attenzione di massima, una finestra di curiosità sul precipitare o meno di certe situazioni. Purtroppo, ed anche questo ormai è un tratto distintivo consolidato del modo di fare informazione all’epoca della velocità di una comunicazione supersonica, il più delle volte sono proprio coloro che ricevono le notizie a dover esercitarsi in una sorta di scuola di apprendimento delle notizie, per valutarle e per potersi formare una opinione magari salutarmente critica.
Dunque, alla domanda: «Ma che fine ha fatto la guerra in Ucraina?», una tra le risposte paradossalmente più consone può essere… «Proprio perché non ne sentite quasi più parlare, vuol dire che c’è ancora». Eccome, purtroppo, se c’è…
MARCO SFERINI
17 luglio 2022
Foto di Matti Karstedt