Indubbiamente per il Regno Unito è un cambio politico di programma non da poco: un primo ministro così decisionista, irruente, bellicista e modernamente conservatore deve lasciare sotto il peso ufficiale di un cumulo di scandali che lo hanno cotto a fuoco lento, travolto inesorabilmente alla fine senza lasciarli più la possibilità di sostituire altri ministri alla cordata di quelli che si erano dimessi in questi giorni.
Le motivazioni pubbliche fanno tutte riferimento a precise contestazioni che, oggettivamente, non si possono tralasciare.
Eppure le ragioni del crollo di Boris Johnson sia dalla segreteria del Tory sia da Downing street (che qualcuno ha scherzosamente ribattezzato “Drowning Street“, ossia “Via dell’annegamento“) vanno ricercate anche altrove e non solo negli scandali che ha causato alla sua parte politica e al suo governo. Si trattasse di banalissime attitudini alle gaffes, non ci sarebbe quasi nulla da stigmatizzare: qual’è il leader di un paese che non ne ha mai fatte (a cominciare da quelli più potenti come Biden…).
In realtà, alle festicciole fatte durante il il “lockdown” proprio nei palazzi del potere governativo ed all’assunzione di collaboratori non proprio integerrimi, Johnson ha sommato nel tempo una collezione di sconfitte elettorali che hanno minato la credibilità dei Tory e che hanno, almeno stando ai sondaggi, posto il partito dei conservatori britannici dietro il Labour guidato da Keir Starmer.
Ultima, ma non ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso, è stato il contrasto con l’opinione pubblica inglese sull’appoggio totale all’Ucraina e all’Occidente nella guerra in corso nell’Est Europa. Per tutte le dichiarazioni fatte e per tutti gli impegni pubblicamente presi, si può tranquillamente dire che Boris Johnson era il più fervente sostenitore della linea di “guerra per procura” della NATO e degli USA, spingendosi persino oltre.
Non c’è dubbio che, almeno nei prossimi mesi, mentre le offensive russe in Donbass si fanno sempre più vaste e pressanti, la programmazione dell’invio di armamenti a Kiev subirà una decelerazione: saranno inviate tutte le armi leggere e pesanti promesse, sarà mantenuto l’appoggio militare ma non potranno essere prese dal governo di Londra decisioni ulteriori in merito.
Anche sul piano storico, il paragone ricorrente tra la guerra portata da Putin contro l’Ucraina e quella nazista all’Europa e al mondo intero, tentato più e più volte da Johnson, ha finito col forzare il pure affezionato riferimento alla resistenza britannica ai tiranni del mondo che viene invocato ogni volta che il Regno Unito di ieri e oggi muove guerra o si impegna contro nuovi tentativi di egemonia di una nazione sulle altre.
Adesso alla Gran Bretagna tocca cambiare passo. La normale amministrazione non contempla nuove decisioni nel merito e quindi toccherà attendere il nuovo primo ministro per sapere se la politica dei Tory sulla guerra in Ucraina prenderà una direzione differente da quella seguita da Johnson oppure se continuerà nel suo solco.
Il paradosso di tutta questa vicenda, semmai, è che non nasce da contestazioni politiche che riguardino argomenti di grande importanza nazionale o internazionale, bensì rapporti tra la condotta morale e il ruolo del primo ministro.
Johnson le ha tentate tutte pur di rimanere a galla e, ad oggi, continua a provarci andandosene rimanendo. Per tradizione storica, consuetudine politica e quindi per prassi istituzionale consolidata, quando un primo ministro di sua maestà si dimette, il governo rimane in carica per il disbrigo della ordinaria amministrazione, come del resto avviene un po’ in tutti gli Stati. Ma il “caso Johnson“, pur rientrando pienamente in questa casistica – in quanto governo – è molto particole…
Anzitutto perché la lacerazione profonda che solca i Tory si è ampiamente riflettuta sull’esecutivo di Londra: tra ministri e sottosegretari hanno abbandonato il loro posto una sessantina di conservatori e loro alleati. Come potrebbe rimanere in carica, seppure ad interim, un primo ministro più che dimezzato, è qualcosa che travalica l’immaginario stesso dei britannici e fa indignare i commentatori che parlano alla BBC.
E poi, perché Johnson, sopravvissuto politicamente al voto di sfiducia che un mese fa aveva tentato di disarcionarlo (allora non era ancora la maggioranza più uno dei suoi parlamentari a volerlo mandare a casa, ma comunque un buon 40% gli era già apertamente contro), potrebbe tentare un colpo di coda, sfidando quelle regole non scritte che, da sempre sono parte fondante del costituzionalismo del Leone anglosassone.
Chi giura di conoscerlo bene, sostiene che non finisce qui, anche se ogni fatto parla contro un possibile recupero della situazione. E’ del tutto evidente che, con la fine dell’era Johnson, inevitabilmente vi saranno dei cambiamenti anche nella linea di politica internazionale del futuro governo britannico. Ma si tratterà più che altro di livellamenti, di smussare alcune spigolosità e di attenuare i danni soprattutto di immagine causati dalla gestione disinvolta dell’attività di governo.
In Gran Bretagna, più che in Italia, se chi mente alla pubblica opinione è un capo di governo, un ministro, un sottosegretario, ciò equivale alla fine immediata del rapporto di fiducia e di conseguente delega politica che gli è stata affidata.
Avviene così anche negli Stati Uniti d’America, dove, per estensione storica del diritto inglese, raccontare menzogne sul proprio conto, ingannare gli elettori o frodare il fisco sono considerati reati peggiori dell’appoggiare guerre in mezzo mondo nel nome della democrazia esportabile…
Nel primo caso, quello di molti presidenti americani e di leader come Boris Johnson, si tratta di contravvenzioni che non possono essere sottaciute, tollerate e lasciate passare: ne verrebbe minato l’intero impianto costituzionale, la stessa credibilità delle istituzioni che proviene da secoli di consolidamento di una morale sia religiosa sia laica ispirata ad un puritanesimo intransigente.
Nel secondo caso, quello della doppia morale tra politica interna ed estera, è evidente che quando si parla di rispetto dei diritti di altri popoli, la questione salta il piano etico e diventa squisitamente pragmatica: per cui, princìpi, valori e morale passano in secondo piano e tutto obbedisce alle regole della potenza nazionale in campo politico, militare, economico.
Boris Johnson cade, come altri suoi predecessori illustri (e non solo inglesi), per una serie di scandali che ne hanno minato la credibilità e che hanno spinto il suo partito a scegliere una via di recupero dei consensi che stanno rovinosamente precipitando…
Il timore che il Labour possa continuare la scalata nei numeri dei sondaggi, consolidando così la tendenza di britannici a rivolgersi altrove per il futuro assetto parlamentare e di governo, è più che fondato e deve giustamente allarmare quei conservatori che avevano ottenuto uno straordinario successo elettorale meno di tre anni fa.
Adesso il primo ministro dai capelli ribelli, dal ciuffo sventolante un po’ alla Donald Trump, se ne va e al tempo stesso resta. Ma se ne deve andare. Su questo non ci sono dubbi. Si aspetterà la convention autunnale dei Tory per rimettere le cose a posto a Downing Street e dimenticare il “partygate” o le assunzioni di collaboratori che erano molestatori sessuali seriali.
Ciò che ha causato la caduta di Johnson è la reiterazione di una disonestà intellettuale che si è andata sommando, nel giro di pochi anni, ad una serie di comportamenti scriteriati che hanno mostrato tutta l’incompetenza di Boko nel saper gestire tanto l’emergenza pandemica quanto le politiche interne. Dispiacerà alla NATO e a Biden perdere un alleato iperbellicista come lui, in prima linea nel lanciare anatemi contro Putin per alzare ancora di più il livello dello scontro.
Ma, come già sottolineato, la politica dei Tory sulla guerra in Ucraina è stata sufficientemente chiara in questi mesi e, quindi, prescindendo anche dalla figura del primo ministro uscente, è del tutto probabile che vi sarà una conferma in tal senso, soprattutto se a succedergli sarà il ministro della difesa Ben Wallace.
In una intervista televisiva nei primi giorni del conflitto scatenato dalla Russia, ebbe ad affermare con piglio da grande analista politico e militare: «Io penso certamente che la visione che il presidente Putin ha di se stesso sia condizionata da una sindrome da uomo basso deciso a sbandierare un’immagine da macho. Tale sindrome è più rara nella donne. Anche se poi c’è Maria Zakharova, la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, che è una commediante che ogni settimana minaccia un attacco nucleare contro questo o quell’altro. Lei è certamente una donna, eppure è pazza esattamente come lui».
Se questo è il meglio dell’analisi politica che un membro del governo inglese sappia produrre (pur comprendendo l’ineluttabile ricorso alla propaganda per influenzare il consenso popolare alla politica interventista dell’esecutivo), si spiegano le tolleranze avute verso i molteplici comportamenti consapevolmente stravaganti dell’ormai quasi ex primo ministro.
E si capiscono anche i toni concessi a Johnson per fare della Gran Bretagna, insieme alla NATO e agli USA, il più deciso sostenitore di un allargamento del conflitto nel progetto di ridisegno globale della geopolitica britannica, europea e mondiale.
MARCO SFERINI
8 luglio 2022
Foto di Samuel Wölfl