Che nel M5S fosse da tempo in atto una guerra a bassa intensità era chiaro a tutti. La deflagrazione era inevitabile. L’occasione è arrivata in Senato con la risoluzione sulla guerra in Ucraina. Che alla fine un cambiamento l’ha prodotto davvero. Non sulle armi, ma con la scissione.
Un passaggio del discorso di Pierferdinando Casini, pronunciato in aula, subito dopo quello del Presidente del consiglio Draghi, ha probabilmente suscitato qualche tenerezza tra i meno giovani. Quando ha ricordato che nel bel tempo antico il dibattito si sarebbe chiuso secondo prassi, con le parole: il Senato, udite le comunicazioni del governo, le approva e passa all’ordine del giorno. Citazione corretta.
È un paradosso solo apparente che il parlamento in cui risuonava quella formula testualmente priva di qualsivoglia motivazione avesse un peso ben maggiore di quello che oggi ha espresso una verbosa risoluzione. Il cui punto focale pare sia stato nell’”ampio coinvolgimento” di se stesso nelle decisioni governative.
Un’aula parlamentare ha un peso che si misura con la sostanza politica che in essa si esprime. Il dibattito in assemblea è il momento terminale di un processo politico complesso che si svolge prima del voto e fuori dell’aula. Quale che sia l’esito, serve a rendere visibile al paese quel processo. Chi prende la parola lo fa non per convincere gli indecisi, ma per rappresentare pubblicamente una posizione, una scelta, un progetto. E se questa sostanza manca, il peso dell’istituzione crolla.
La crisi della democrazia parlamentare di cui molto si discute, in Italia e non solo, è crisi dei partiti. Nella versione italiana, viene in specie dalla crisi del maggiore soggetto politico uscito dal voto del 2018. Era probabilmente scritta nel Dna del Movimento, il non-partito che non ha mai avuto una vera organizzazione strutturata, un vero gruppo dirigente, un vero progetto politico per il paese. Non bastano certo a crearli le investiture dall’alto, le esternazioni sui blog, i voti plebiscitari assunti su piattaforma su quesiti più o meno orientati.
Questo ha permesso al Movimento, nato come contenitore indifferenziato di proteste, di rimanere a Palazzo Chigi con tre governi del tutto diversi. Ma non ha retto le pressioni delle scelte poste da drammi epocali come la guerra in Ucraina, o da vicende oggettivamente di ben più modesta portata ma di fatto parimenti decisive, come il limite dei due mandati.
Quali effetti possiamo aspettarci? Una crisi appare al momento improbabile. Ma i veleni scorrono, e lo scenario di un indebolimento di Draghi per la scissione M5S può portare a un nuovo mantra sulla governabilità/stabilità, con la richiesta di esecutivi forti eletti per la legislatura e annesse proposte di riforme istituzionali.
La risposta era ed è che l’ingegneria istituzionale alla fine non serve.
In un paese che voglia definirsi democratico la stabilità e la governabilità dipendono dalla sostanza – e in specie dalla coesione – della società che si esprime nelle istituzioni, assai più che dalla loro forma. E una società che in parti rilevanti attende risposte che non arrivano è per definizione instabile.
Un esempio è dato dalle ultime elezioni francesi. Non a caso, si legge sui giornali d’oltralpe che la Francia si è italianizzata. Una forma di governo pensata come iper-presidenziale consegna ora la prospettiva di governicchi e defatiganti trattative post-elettorali. Altro esempio viene dagli Stati Uniti, dove il presidenzialismo classico ha condotto alla radicalizzazione e alla spaccatura della società e del sistema politico. Che l’eletto sia presidente di tutti rimane un flatus vocis. Con buona pace di chi da noi vorrebbe il sindaco d’Italia.
Un altro effetto collaterale è dato da una più alta probabilità che Draghi, in presenza o in remoto, sia nel prossimo agone elettorale. In fondo, è stato proprio Draghi l’elemento catalizzatore del cambiamento. Lo è stato per la scissione M5S, potrebbe esserlo in futuro per la Lega, magari non in termini di scissione, ma di successione a Salvini e di restaurazione dell’originaria anima nordista. Come potrebbe essere riferimento della ristrutturazione del centro politico evocata da alcuni.
Draghi può piacere o no. Personalmente, ho sempre pensato che nel tecnico formalmente apolitico prima o poi affiori un’anima di destra. In ogni caso, è inutile fingere che Draghi non esista. Forse si potrebbe se fosse stato mandato al Quirinale. Ora, è improbabile che scompaia senza lasciare traccia. E dunque il problema è: la sinistra cosa farà per certificare la propria esistenza in vita?
MASSIMO VILLONE
Foto di Szabolcs Toth