L’unica analogia possibile tra le elezioni legislative francesi e quelle amministrative italiane, includendo a buon peso anche la chiamata al voto referendario sui temi della giustizia, sta nella crisi della partecipazione, nella progressiva e costante riduzione di empatia tra i cittadini, le istituzioni e gli strumenti che sono dati dalle costituzioni per incidere sulla politica nazionale.
Non è da oggi, e nemmeno da ieri, che la cosiddetta “politica“, quella disgraziatamente intesa per antonomasia come ciò che finisce per risultare, ossia quanto di più lontano vi sia dagli interessi pubblici, ha operato un logoramento di questi strumenti: il voto autenticamente “politico“, ossia quello per eleggere le assemblee legislative, fino alla scelta drastica tra un “Sì” e un “No” su temi che dovrebbero però essere chiari, nettamente espressi e lucidamente demandati alla volontà popolare solo quando è il Parlamento a non riuscire a dirimere la questione in oggetto.
La crisi della rappresentanza politica è figlia di una perversione economica, di un liberismo spintissimo che ha piegato le idee ai personalismi, che ha creato solo dei leader e ha decretato la morte delle ideologie e ha così teorizzato che i beni comuni potevano – per assurdo – essere tutelati dai diretti concorrenti privati.
Quel “mondo libero“, che ci ostiniamo a contrapporre ai regimi oligarchici e alle dittature presenti in altri continenti e altre aree del pianeta, è libero soltanto formalmente: ogni giorno costringe al baratto tra diritti civili e diritti sociali schiere di giovani e, come garanzia di tutto ciò, offre solo incertezza, precarietà, sempre meno tutele dal posto di lavoro a quello della pensione, dai fondamentali pilastri dell’ormai obliato “stato sociale” al magnificare l’alternanza scuola-lavoro come il primo passo verso l’accesso ad una valorizzazione delle proprie conoscenze e delle proprie capacità.
La risposta data da Mélenchon e dalla sua Nuova Unione Popolare è la risposta giusta, di una sinistra non estremista o settaria, tanto meno antieuropea, ma di un aggregato di forze che hanno costretto all’angolo il riformismo socialista con un lungo lavoro di autonomia politica, presentandosi sempre per ciò che erano: una alternativa tanto alle destre fasciste quanto al centrismo macroniano.
I risultati di questo lavoro, almeno in questo primo turno delle legislative francesi, hanno effettivamente pagato. La coerenza permette di riscuotere i successi solo dopo molto impegno e dopo molta costanza nel non lasciarsi deviare dalle soluzioni più facili e dagli appetiti governisti più seducenti, svendendo, come contropartita, i presupposti di una politica di sinistra per davvero alternativa e non vagamente riferita ad un temperamento degli effetti del moderno capitalismo liberista.
Tuttavia, la questione della disaffezione nei confronti della politica istituzionale e della democrazia rappresentativa è un problema che, come si è visto molto bene in questi giorni, non riguarda purtroppo solamente la logora condizione di una Italia assorbita nel vortice dei tecnicismi finanziari gestiti dall’ammucchiata di unità nazionale sotto l’egida draghiana.
Ad ogni tornata elettorale, quella che pure sappiamo non essere una novità, diventa la convitata di pietra dei dibattiti. E giustamente, perché l’astensione dalle urne, se non è sorretta – come nel caso dei referendum – da una piena coscienza politica, divenendo così un atto consapevole unico e raramente ripetibile, rischia di assumere i connotati di una critica populisticamente impregnata di un infantile ribellismo.
Tanto in Francia quanto Italia, l’ampliarsi dello spettro della mancanza di fiducia nell’essenza del voto e nelle sue ripercussioni istituzionali e sociali è un indice veramente molto preoccupante che riguarda una eterogenesi dei fini che solo in parte assolve le classi dirigenti dei singoli paesi: nessuno vorrebbe vedere trascinata la propria forza politica così in basso da domandarsi se ne ha senso ancora l’esistenza.
Eppure questo avviene soprattutto quando chi ti votava fino a ieri è rimasto deluso dalle tattiche e dalle strategie intraprese, mentre chi ti concede ancora il suo consenso finirà per considerare irrilevante anche quell’ultimo tentativo di fiducia e alla successiva tornata elettorale o andrà ad ingrossare le fila astensioniste o preferirà un altro partito.
Queste dinamiche, apparentemente molto democratiche, nascondono invece un disvalore carsico, sottotraccia, impregnato di una sfiducia così cumulatasi nel tempo da divenire disillusione costante, rassegnazione indelebile, che nessun comizio, frase ad effetto o promessa possono eliminare facilmente. La ritualità del voto non stancherebbe se ne seguisse una piena e fedele adesione dei delegati ad amministrare secondo quanto hanno affermato in campagna elettorale e non verrebbe percepita come una mera formalità se, appunto alla forma, corrispondesse una sostanza.
Troppe volte il popolo sovrano è stato tradito nelle sue aspettative e quasi sempre lo è stato nei piccoli obiettivi che si potevano raggiungere per migliorare la qualità della vita di ciascuno e di tutti. Il neo-trasformismo della politica italiana ha dato prova conclamata di essere l’abito meglio indossato anche da chi giurava e stragiurava che avrebbe conservato la sua autonomia intatta, la sua indipendenza al di sopra di tutto, mantenendo così fede agli impregni presi.
La quasi scomparsa del Movimento 5 Stelle è la conseguenza di una serie di giravolte parlamentari che lo hanno reso peggio che uguale agli altri partiti solidamente considerati come endemicamente perduti nella spirale del mantenimento del potere ad ogni costo. La capacità delle destre nel saper intercettare il malcontento popolare, proprio quando la delusione è più cocente per via dello stridere tra valori e concretezza, detto e fatto, rimane una costante che fa registrare una variabilità solo all’interno della coalizione per via dei rapporti di forza elettorali che mutano.
A far retrocedere questa avanzata sovranista verso una nuova egemonia cultural-politica nel Paese non aiuta il trasversalismo interclassista del PD, la ormai pochezza numerica del movimento ereditato da Giuseppe Conte e, tanto meno, l’appaiamento della sinistra moderata ad un “campo largo” del progressismo italiano che non è né largo e né progressista.
Se vogliamo veramente battere le destre, soprattutto sul terreno sociale, dobbiamo iniziare a definirci chiaramente e a far riconoscere le proposte politiche per quello che sono e devono poter essere: occorre abbandonare il leaderismo come unica soluzione al problema dell’unità delle coalizioni, soprattutto a sinistra; così come è necessario elaborare un progetto che non sia esclusivamente figlio della contingenza attuale, che pure è gravosa per le classi sociali più indigenti e deboli: serve un ambito ideale, persino ideologico, serve una cultura di massa che, lo si voglia o no, deve essere veicolata da mezzi di comunicazione di massa.
Per questo la necessità di un giornale cartaceo, che abbia ovviamente il suo corrispettivo su Internet e che usufruisca intelligentemente di tutti i canali social, per quanto anacronistica possa apparire, è primaria perché consentirebbe un dibattito ragionato, una condivisione delle proposte, una elaborazione delle stesse su un campo davvero largo, che non sia però quello lettiano dell’assemblaggio elettorale di un centro che riesce ancora a farsi chiamare “sinistra“, ma che dal famoso “basso” aggreghi e coinvolga sui territori tutte le lotte sociali e politiche tese a mostrare l’evidenza invisibile delle disparità che aumentano prepotentemente ogni giorno.
Farla finita col leaderismo non significa non avere considerazione per le peculiarità dei singoli interpreti della vita politica italiana. Mélenchon è un leader. E’ del tutto evidente.
Ma nemmeno lui avrebbe potuto costruire un successo delle dimensioni che abbiamo potuto constatare alcuni giorni fa, se non avessero concorso una serie di fattori a determinare il raggiungimento di nuovi confini a sinistra, di nuova empatia tra politica e popolo, recuperando tutta un’area di sinistra moderata che, altrimenti, senza la proposta unitaria di una vera alternativa antiliberista, sarebbe probabilmente rimasta a casa e avrebbe disertato le urne facendo segnare un ancor peggiore segno negativo in tal senso.
Come si vede, il recupero della disaffezione avviene solamente se si dà un motivo sufficientemente credibile per poter considerare quel gesto politico, civile e civico, il voto, un valore aggiunto al meccanicismo stanco della ritualità istituzionale che, in molte occasioni, fa apparire la democrazia noiosamente ripetitiva, piena di orpelli e di discussioni evitabili, lasciando così praterie di consensi a quelle destre pronte ad accaparrarsi il malcontento di pancia di un elettorato frustrato, arrabbiato per questo e preda, quindi, dei migliori pifferai populisti del momento.
Un po’ di tempo c’è per organizzarsi prima del voto politico. Cerchiamo di non sciuparlo.
MARCO SFERINI
14 giugno 2022
Foto di antonio filigno