La tattica di Draghi e la strategia di lungo termine di Lagarde

Come sarebbe interessante poter leggere stamattina, magari proprio su un quotidiano tedesco oppure su uno americano, un editoriale di Karl Marx in merito al rialzo dei tassi di interesse...

Come sarebbe interessante poter leggere stamattina, magari proprio su un quotidiano tedesco oppure su uno americano, un editoriale di Karl Marx in merito al rialzo dei tassi di interesse operato dalla Banca Centrale Europea e alle scosse telluriche che si sono propagate in molte borse del Vecchio continente con riflessi che vengono da lontano e che minacciano di propagarsi un po’ a tutte le longitudini e latitudini economico-politiche del pianeta.

Lo stile del Marx scienziato dell’economia produrrebbe, molto probabilmente, un testo critico nei confronti di una conduzione bancaria che contraddice la missione stessa di una banca: oltre a fare profitti per sé stessa, quindi per i propri azionisti, dovrebbe sostenere il peso di un mantenimento dell’equilibrio generale, dell’andamento complessivo di una ricchezza nazionale che non va fatta precipitare nell’aumento del costo del denaro come unica risposta possibile alla guerra e alla coda della pandemia.

Christine Lagarde non ha sorpreso nessun operatore finanziario, nessuna impresa e nessun ambito produttivo nel momento in cui ha annunciato che a luglio Francoforte non avrebbe più comperato i titoli nazionali; e nemmeno ha preso in contropiede gli investitori e i governi quando ha preannunciato ciò che si subodorava nell’aria, almeno negli ambienti della grande economia di mercato, e che riguardava il prevedibilissimo aumento dei tassi di interesse.

Allora, come mai la reazione delle borse è stata così verticalmente rovinosa e ha, nel caso del FITSE MIB, registrato addiritura un -5% con circa 40 miliardi di euro bruciati in un solo giorno e con lo spread a livelli non più visti dal 2014? La risposta, dicono sempre coloro che masticano di scambi finanziari e di profitti investiti, sta nell’accelerazione che la BCE ha dato a questo processo da tutti giudicato inevitabile.

Si riteneva che la fine dell’epoca del “whatever it takes” di draghiana memoria, con quindi una inversione di tendenza rispetto tanto all’immissione di flussi di investimenti nelle economie nazionali quanto ai tassi negativi di interesse, potesse oltrepassare il periodo estivo, avere maggiore consapevolezza sugli sviluppi della guerra e poi, col principiare dell’autunno, iniziare la sua corsa improbabile verso un freno dell’inflazione che, come era altrettanto prevedibile, avrebbe rialzato la testa grazie alle spinte speculative sui prodotti di maggiore richiesta sul mercato a causa del conflitto in Ucraina.

Probabilmente i mercati hanno peccato di ingenuità o, molto più semplicemente, hanno fatto i conti diversamente da come li ha fatti Lagarde: l’eredità pratica degli anni passati alla guida del Fondo Monetario Internazionale deve trovare, in qualche modo, la sua concretizzazione nella lotta tra i cosiddetti “falchi” e le cosiddette “colombe” che siedono nel Consiglio direttivo della BCE. Molto difficile poter capire se abbia prevalso il fronte dei duri o quelli dei morbidi, perché il cambio di rotta deciso non lascia ancora capire quali conseguenze avrà sulle economie dei singoli paesi.

Per ora sappiamo che la reazione dei mercati è stata negativissima e, a naso, non fa ben sperare nemmeno per la fragile tenuta economica di una Italia in cui si parlava di scostamento di bilancio per mettere a posto i conti e che, da poco più di ventiquattro ore, quasi nessuno si arrischia anche soltanto a farne cenno.

Nemesi storica, Draghi dovrà rispondere alle mosse di quell’istituto finanziario che ha diretto per lungo tempo e che oggi gli si rivolta contro per seguire le linee continentali e internazionali di adeguamento ad una economia di guerra che non lasci grandi margini di manovra alle direzioni bancarie, entro sempre la cornice di un liberismo che ora si muove imprevidentemente tra due imperialismi che si fronteggiano su un campo di battaglia in cui anche la retorica della “resistenza ucraina” da un lato e del “mostro” dall’altro segnano il passo e tirano il fiato.

La guerra, infatti, può funzionare come alibi per modificazioni nazionali delle riforme economiche, delle correzioni di bilancio, dell’adeguamento delle voci di spesa verso l’aumento di percentuali di gettito pubblico da destinare al riarmo, nell’ottica dell’obbedienza alla linea neo-atlantista nordamericana, ma è difficile che possa coprire anche le mosse strutturali di una banca centrale che, in questo modo, dichiara aperta una vera e propria nuova era nei rapporti con tutti e ventisette gli Stati dell’Unione e, di conseguenza, con i poli economici degli altri settori geopolitici mondiali.

Indubbiamente anche la guerra in Ucraina è una cesura col recente passato, un cambio di pagina nell’atlante della storia della globalizzazione capitalistica e dell’umanità stessa, ma una serie di altri fattori hanno determinato la scelta di Lagarde che, più la si mette a confronto con le politiche di gestione del credito da parte delle altre grandi banche nazionali, la Federal Reserve fra tutte, e meno sembra una reazione esclusivamente ascrivibile alla crisi bellica alle porte dell’Europa.

Di una Europa dipendente economicamente dagli scambi con le grandi potenze emergenti, che non può privarsi nemmeno del rapporto con una Russia che finge di voler isolare completamente con pacchetti di sanzioni su cui non esiste l’unanimità di consenso all’interno della Commissione, del Consiglio di Bruxelles e del Parlamento di Strasburgo.

Una Europa dove contano solamente scelte finanziarie e bancarie e dove la stessa microeconomia quotidiana è lasciata penosamente indietro, sotto il peso delle riforme da attuare per conservare le risorse del PNRR e del più ampio disegno del Next Generation EU. Il fallimento sociale delle politiche liberiste della Commissione guidata da Ursula von der Leyen è, se non tutto, in gran parte leggibile nell’intervento anticipatorio della BCE di una crisi che investirà l’Italia e l’intera Europa a breve termine.

La guerra ha già fatto fare al costo della vita un balzo in avanti pericolosissimo: si viaggia sull’8% tanto negli USA quanto da noi e, invece di diminuire i tassi di interesse e ridare fiato agli scambi commerciali e alla tenuta concorrenziale, proprio per non far salire l’inflazione, cosa fa la BCE? L’esatto opposto. Perché la sua missione è quella: la speculazione finanziaria e non il sostegno sociale, la limitazione degli effetti devastanti delle fluttuanti criticità sulle larghe fasce popolari di indigenti che crescono a dismisura (e non certo da oggi…).

Marx, se gli venisse chiesto di scrivere un articolo più politico, oltre che con un taglio anche economico, direbbe, con tutta probabilità, che il capitalismo finanziario annaspa nelle incertezze e non ha una visione minimamente chiara del suo futuro (tanto che si spaventa enormemente e reagisce con quel -5% a Piazza degli Affari), mentre quello bancario forza la mano, altera la sua stessa fisionomia e gli scopi per cui esiste aprendo così la scena ad una incertezza molto più grande di quella prodotta dai primi mesi di una guerra che si preannuncia molto, molto lunga.

Marx direbbe questo? E chi lo sa… Di sicuro non sarebbe tenero con banchieri che vanno ben al di là del comportamento classico che dovrebbe tenere un dirigente del credito e, allo stesso tempo, si interesserebbe a quel fenomeno un po’ nuovo che viene citato frequentemente in queste settimane: la stagnazione sommata all’inflazione. Una economia incapace di rigenerarsi e un aumento dei prezzi che produrrebbero, simbioticamente, quella parola macedonia, quel neologismo cacofonico che risponde al nome di “stagflazione“.

Mettere al sicuro il potere di acquisto dei salari e delle pensioni, tutelare la già fragile situazione della precarietà diffusa e della sopravvivenza di milioni e milioni di italiani (e decine di milioni di europei) dovrebbe essere la missione del governo italiano e della Commissione di Bruxelles.

Qualcosa fa pensare che, almeno per quanto riguarda l’Italia, l’ipotesi di Draghi di mettere mano ad un intervento dell’esecutivo che disponga otto, nove miliardi di euro per defiscalizzare ulteriormente il costo del lavoro per le imprese, non sia la soluzione magica che ci si aspetterebbe da quell’uomo che, appena venne chiamato da Mattarella a reggere il dopo-Conte, pareva essere il Re Mida moderno, il solutore di ogni enigma economico, di ogni problematica di ampio spettro.

Quando si hanno pochi soldi a disposizione, e si prevede che la BCE per un bel po’ di tempo ormai, non comprerà più i titoli di Stato, logica vorrebbe che, per sostenere l’effetto inflattivo che si abbatterà maggiormente sulla povera gente, sul mondo del lavoro (del lavoro abbiamo detto, non delle imprese…), si prenda da chi ha di più e si costruisca una riforma generale della fiscalità che interagisca con le prime misure adottate da Palazzo Chigi per frenare la corsa galoppante del costo del denaro e dei prezzi delle merci all’ingrosso e al dettaglio.

Logica sociale vorrebbe che si contrastasse la stagflazione con interventi di medio termine indirizzati ad un prelievo straordinario sulle grandissime ricchezze accumulate, anche negli ultimi due anni di pandemia da grandi gruppi imprenditoriali e paperoni dell’ultim’ora, e si mettesse mano ad una riforma del lavoro che ripristini vecchie garanzie sempre attuali (visto che il sistema capitalistico è, purtroppo, più attuale e innaturale che mai) come l’indicizzazione automatica dei salari e delle pensioni rispetto al costo della vita, la stabilizzazione del maggior numero di lavoratrici e lavoratori possibili con contratti a tempo indeterminato e, come ulteriore supporto al disagio sociale crescente, ne aggiunga nuove come il salario minimo garantito.

La Germania l’ha appena fissato, con il voto del Senato federale, a 12 euro all’ora. Il dibattito politico italiano, ossequioso verso le indicazioni confindustriali, si trastulla se debba essere di 9 o 10 euro… La maggior ricchezza nazionale tedesca non può essere l’ulteriore alibi per tenere tutto al ribasso. Prima di ogni altra cosa i diritti sociali di chi si suda il salario ogni mese e a fine dello stesso nemmeno vi arriva.

Ecco, Karl Marx farebbe, forse, un discorso molto articolato. Migliore certamente della pseudo analisi qui descritta e infarcita con aspettative tanto politiche quanto economiche. Ma varrebbe la pena ascoltarlo, perché, fermarsi alla superficie della propaganda di guerra da un lato e di quella delle promesse bancarie dall’altro, non farebbe che illuderci di trovarci ancora nel migliore dei mondi possibili, nella migliore condizione per resistere alla crisi, per tenere duro in un autunno che padroni, banchieri e finanzieri vorrebbero pacifico e che, invece, dovrà essere parecchio movimentato.

MARCO SFERINI

11 giugno 2022

Foto di Markus Spiske

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