Con queste parole, il 21 febbraio scorso, Vladimir Putin ha, di fatto, annunciato alla nazione l’inizio della guerra in Ucraìna: «L’Ucraìna contemporanea è stata completamente e interamente creata dalla Russia». «Per la precisione – ha continuato – dalla Russia comunista e bolscevica. Dopo la rivoluzione del 1917 Lenin e i suoi compagni hanno agito in modo scorretto sottraendo alla Russia una parte dei suoi territori storici».
Per il tramite del più classico «uso pubblico della storia» il presidente russo ha sostenuto, in questo modo, la legittimità della sua scelta politica che ha riportato la guerra in Europa ventitré anni dopo quella scatenata dalla Nato nella ex-Jugoslavia nel 1999.
Dal primo discorso di Putin ad oggi la strumentalizzazione del passato, tanto in Russia quanto nel campo dell’Alleanza atlantica, è stata senza dubbio protagonista dello spazio pubblico e del dibattito sul conflitto.
Attorno all’uso politico della storia è stata operata una torsione di senso e significati che le classi dirigenti ed i mass-media prevalenti o «egemoni» (in termini di concentrazioni proprietarie e diffusione ma non di capacità di convincimento) hanno amplificato e modellato con un linguaggio semplificato e spesso privo di sostanza concettuale e materiale. Con la finalità di alimentare consenso alla guerra; all’invio di armi in Ucraìna (trasformata nel campo di battaglia tra la Nato e Mosca); al riarmo e all’aumento delle spese militari.
Si assiste, così, all’utilizzo di «parole» cui non corrispondono più le «cose» che dovrebbero indicare.
L’invasione russa diventa «operazione speciale di de-nazificazione»; la difesa militare dell’esercito ucraìno (con armi e personale militare della Nato) diventa uguale alla Resistenza di Stalingrado contro i nazisti e più in generale viene assimilata al fenomeno globale e costituente della Lotta partigiana degli anni ’40; nel quadro di un conflitto (almeno per ora) tra due Stati-Nazione (con un aggressore e un aggredito) viene continuamente evocata la «guerra totale» distorcendo il senso che questa formula ha significato durante i terribili anni 1939-45; coloro che arruolandosi nelle milizie paramilitari di Kiev fino a pochi mesi fa sarebbero stati indicati con lo stigma di «foreign fighters» diventano volontari di nuove brigate internazionali, come se il battaglione Azov fosse il corrispettivo dei combattenti repubblicani nella Spagna del 1936; il 25 aprile in Italia si pretende di sfilare nei cortei che celebrano la Liberazione con le bandiere della Nato, sostenendo la falsità che essa rappresenti la continuazione dell’alleanza internazionale contro il nazifascismo, quando ne simboleggia, invece, la rottura con l’inizio della Guerra Fredda e la divisione del mondo in blocchi militari nucleari contrapposti.
Nel frattempo il Parlamento italiano ha votato in queste settimane alla (quasi) unanimità l’istituzione della giornata della memoria e del sacrificio degli alpini, celebrando la battaglia di Nikolajevka (Ucraìna) del 26 gennaio 1943 condotta dalle truppe fasciste di occupazione contro l’Urss – non è un caso che Liliana Segre abbia fortemente protestato per questa scelta.
Il tutto mentre in aperto contrasto con il dettato dell’articolo 11 della Costituzione vengono inviate armi come soluzione della controversia internazionale.
Si giunge così, come conseguenza «logica» di questo processo regressivo, alla stortura del prossimo 9 maggio ovvero il «giorno della vittoria» che celebra l’anniversario della resa del III Reich all’Armata Rossa nel 1945.
Putin utilizzerà quella data simbolo non per ricordare la fine della Seconda Guerra Mondiale con la sconfitta di Hitler ma per sostenere la necessità di continuare la sua guerra di oggi, con il corollario di massacri, stragi di civili e bombardamenti.
In una cornice di neo-nazionalismo che da un lato utilizza l’estetizzazione della politica (ovvero la mobilitazione di massa attorno al capo come forma di consolidamento del potere) in sostituzione della democrazia sostanziale e dall’altro contraddice in radice lo spirito internazionalista con cui venne combattuta la Resistenza al nazifascismo allorché popoli di tutti i continenti lottarono uniti contro il vero «nemico totale».
In quel contesto soldati sovietici parteciparono alla Lotta di Liberazione in Europa e migliaia di donne e uomini della Resistenza europea combatterono in nome di quella «patria del socialismo» che nell’immaginario collettivo Mosca rappresentava.
Dal canto suo Zelensky ha ufficialmente chiesto al cancelliere tedesco Scholz «un passo politico potente» invitandolo a Kiev proprio in occasione del 9 maggio, nelle stesse ore della parata militare a Mosca: «Scholz è invitato a venire -ha dichiarato il presidente ucraìno – può far questo passo politico molto potente: venire qui a Kiev il 9 maggio. Non ho bisogno di spiegarne il significato, penso che ne sia ben consapevole».
Sarebbe proprio il caso, invece, di rappresentare il significato di un gesto del genere: il cancelliere tedesco che nel giorno della ricorrenza della capitolazione del III Reich disconoscerebbe, de facto, quella data recandosi nella capitale di una nazione in guerra con la Russia.
Sarebbe, perdipiù, un regalo all’ideologia di Putin. In effetti un uso pubblico e politico della storia «molto potente». E sempre più pericoloso.
DAVIDE CONTI
foto: screenshot