La spartizione dell’Ucraina e le debolezze delle parti in lotta

Nonostante tutti i proclami di vittoria imminente dall’una e dall’altra parte, Russia e Ucraina mostrano sempre più il fiato corto mano a mano che la guerra si prolunga, si...

Nonostante tutti i proclami di vittoria imminente dall’una e dall’altra parte, Russia e Ucraina mostrano sempre più il fiato corto mano a mano che la guerra si prolunga, si intensifica e necessità di una completa riorganizzazione degli effettivi in campo. Non si tratta di fare delle analisi strategico-militari, che lasciamo volentieri agli addetti a questi grandi omicidi di massa chiamati in tutt’altra maniera: si tratta semmai di evidenziare le potenzialità dei due eserciti, dei due blocchi che si fronteggiano e gli obiettivi modificati che stanno venendo a galla in queste ultime giornate.

Il 9 maggio, la data entrata nella storia russa per la schiacciante vittoria sovietica contro il Terzo Reich, non sarà proposta come momento di celebrazioni a Mariupol e non sarà probabilmente neppure uno spartiacque tra la guerra orchestrata fino ad ora e quella che verrà: perché di conflitto ancora si parlerà a lungo, visto che le pretese putiniane da un lato e quelle zelenskijane dall’altro non trovano, al momento, un punto di incontro anche minimissimo per fermare il fuoco, per addivenire ad una tregua e per discutere, prima di ogni altro tema, della sorte dei territori occupati dai russi.

L’impressione, suffragata dalla lettura di fonti terze, da osservatori e da esperti di politica internazionale, è che l’obiettivo di Putin sia ora non la conquista dell’intera Ucraina ma, viste le difficoltà riscontrate nella disfatta della battaglia di Kiev e il ripiegamento ad est, il raggiungimento di una “linea della tregua” che si attesti, ad esempio, sul fiume Dnipro che separa sostanzialmente i territori della cosiddetta “Nuova Russia” da quel resto di Ucraina molto meno russofona, filo-europeista e atlantista, dai tratti quasi mitteleuropei se si guarda alla Galizia e alla Rutenia Subcarpatica.

La battaglia di Mariupol non è ancora terminata: la resistenza dei neonazisti dell’Azov ha aggravato la situazione dei migliaia di civili stremati dai bombardamenti russi, in una città rasa al suolo dall’aggressione delle milizie putiniane e da quelle delle repubbliche separatiste del Donbass. Fino a che la città non sarà definitivamente conquistata, la mattanza continuerà senza esclusione di colpi, per poter poi ridislocare le truppe sia a nord sia ad ovest, puntando su Odessa.

L’Ucraina deve attendersi questo scenario: una divisione a metà del suo territorio, una occupazione russa di tutto il centro-sud del paese e patetici referendum assolutamente confermativi delle secessioni degli oblast’ di queste regioni che, in parte, già oggi sono praticamente parte integrante della Federazione russa.

Sia Putin sia Zelens’kyj devono trovare una via d’uscita a quello che rischia di essere un conflitto eterno nel dopoguerra: gli Stati Uniti negano di sostenere le attività militari ucraine sul piano militare, tattico e strategico. C’è da giurarci: senza il loro sostegno – come afferma del resto il “New York Times” – Kiev non sarebbe stata in grado di attaccare e distruggere il gioiello della marina russa, la “Moskva“. E forse nemmeno di colpire ieri un’altra nave del Cremlino non meno importante, la “Admiral Makarov“.

Il governo di Zelens’kyj deve fare i conti con la crisi alimentare, con le esportazioni praticamente bloccate, con tutta la fascia costiera sottoposta al blocco navale di Mosca: gli affondamenti delle navi fanno scalpore, risuonano mediaticamente ovunque, ma poi i problemi rimangono.

I rifornimenti di armi dall’Occidente nord-atlantico vengono rallentati dai bombardamenti sulle arterie ferroviarie e quindi i trionfalismi sulla “vittoria imminente” e la “liberazione” di tutto il territorio dall’invasore russo finiscono con l’avere sempre più il retrogusto di una amarissima propaganda di guerra.

D’altro canto, la solitudine di Putin è evidente, anche all’interno di una compagine di governo e di stato maggiore delle forze armate di cui il presidente non si fida granché: sostengono le malelingue che abbia personalmente dato ordini militari scavalcando proprio i suoi generali, ritenuti poco competenti.

Anche qui, c’è da crederci, perché le vittorie in guerra sono ben altro da quello che fino ad ora la cosiddetta “operazione militare speciale” ha prodotto. Milioni di profughi, migliaia di morti, città rase al suolo, bombardamenti in tutta l’Ucraina. Ma non è mai stata dichiarata quella che in queste ore si paventa come rischio imminente: la mobilitazione generale, quindi un impegno a trecentosessanta gradi di Mosca che trasformerebbe anche lessicalmente l’operazione speciale in una vera e propria guerra della Russia contro l’Ucraina.

La preoccupazione di Biden e Stoltenberg riguarda un contropiede putiniano nei confronti della NATO: più il leader del Cremlino si avvicina alla soglia del “niente da perdere“, più la situazione politica e militare si infittisce di problemi e rasenta la disperazione, più viene drammaticamente alla vista il punto di non ritorno per una esponenziale aumento del conflitto, ben oltre i confini dell’Ucraina.

Per questo la rampogna dell’amministrazione americana contro il “New York Times” è stata particolarmente severa: perché il quotidiano ha certamente detto ciò che corrisponde al vero, ossia che gli USA, ben prima dell’inizio della guerra, hanno supportato logisticamente e militarmente Kiev in tutto e per tutto.

Le smentite ufficiali del Pentagono valgono solo come comunicati ufficiali, dati alla Storia per poter affermare: «Noi abbiamo sempre detto che in realtà non è così!». Sappiamo, dalle tante guerre che hanno preceduto questa, che capovolgere le dichiarazioni dei comandanti militari e dei ministri della difesa USA significa avvicinarsi moltissimo alla verità.

Ma intanto il fronte diplomatico soffre indicibilmente, frustrato da tentativi mai davvero tentati e da scontri a distanza che permeano la guerra di un ulteriore peso politico che non approda, alla fine, a nessun risultato pratico: soltanto i canali di rifornimento degli armamenti sono implementati e oltre duecento militari ucraini addestrati da Washington per usare obici di nuovissima costruzione, capaci di colpire obiettivi anche in territorio russo.

Il riarmo dei paesi europei e il rafforzamento dei contingenti della NATO ai confini con l’Ucraina sono segnali tutt’altro che di distensione e di deterrenza.

Se il 9 maggio sarà una data che separerà il prima dal dopo, c’è da ritenere che verrà ricordata non per un passaggio ad una minore tensione bellica, bensì ad un impegno di maggiori truppe, maggiori armamenti su quella linea del fronte che è sempre molto vasta e che preme verso il centro dell’Ucraina, da sud e da est.

La minaccia nucleare, in fondo, non è mai del tutto completamente escludibile: ad ora resta un pericolosissimo deterrente di guerra psicologica, ma non c’è giorno in cui non venga evocata dal Cremlino, dalle televisioni russe oppure minimizzata da un Lukašėnka stretto tra la Russia in armi e la NATO in armi.

La parzialità di certe posizioni diventa evidente nel momento in cui non costituiscono una parte della narrazione quotidiana della guerra e non si saldano con altre opinioni o dichiarazioni degli alleati. Accade così al dittatore bielorusso nei confronti di Putin, ed accade lo stesso a Macron, Scholz o von der Leyen se non arriva l’approvazione della Casa Bianca sul tracciamento di timidissime linee di politica estera europea.

Il destino dell’Ucraina non lo può conoscere nessuno. Tanto meno Putin e Zelens’kyj che giocano la partita con l’ampia visuale su un mondo che in larga parte sta a guardare, che in larghissima parte sfrutta le contraddizioni locali per la riformulazione della geopolitica globale, mentre la popolazione civile muore nell’orrore di una guerra che si preannuncia sempre più complicata e la cui soluzione non è in mano a nessuno degli attori in campo, se presi singolarmente.

La forza delle armi non sta permettendo ad una parte, piuttosto che ad un altra, di proclamarsi vincitrice o, quanto meno, di assurgere ad una posizione elevata di privilegio, di chiara e netta superiorità militare. Tralasciamo la moralità e l’etica che ne escono mortificate, come è logico che sia… Vinceranno sul lungo periodo quelli che saranno riusciti a mettere nell’angolo della finanza e dell’economia di mercato coloro che avranno subito maggiori danni dalla guerra nel suo complesso.

La vittoria militare e quella politica andrebbero sempre distinte dalla predominanza liberista di una nazione rispetto alle altre nel contesto di una guerra. Soprattutto se si tratta, come si tratta oggi, di uno scontro moderno dove la fase imperialista di uno Stato è più che mai l’espressione compiuta e fattuale di una necessità economica, di un farsi largo in una condizione mondiale disperata di una umanità che sgomita per sopravvivere e di governi che devono arrangiarsi per rimanere al potere nonostante tutte le contraddizioni di un capitalismo quotidianamente assassino.

Ma questa è una guerra permanente che tanti non scorgono e che in troppi fingono di non vedere…

MARCO SFERINI

7 maggio 2022

Foto di Алесь Усцінаў

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