La guerra in Ucraina salva il secondo mandato presidenziale di Emmanuel Macron. Forse come titolo di apertura di un quotidiano sarebbe lunghino, eppure questa è la sintesi migliore che si possa fare del ballottaggio per l’Eliseo.
Vince il “presidente dei ricchi“, ma vince pure quel presidente europeista che ha rinunciato ad un nazionalismo istituzionale e moderato, considerando forse l’estrema debolezza del vecchio partito gollista, aggiornando il suo vocabolario politico con parole che ha ereditato, sostanzialmente, dal biennio pandemico.
La continuità emergenziale è innegabile: da quella provocata dalla Covid-19 alla guerra vera propria, fatta tra (dis)umani il passo è stato brevissimo e, oltre tutto, tempestivamente inevitabile. E’ servito a Macron per riaffermare il ruolo fondante di una Francia moderna in cui la classe media, fatta di quella buona vecchia borghesia imprenditoriale che votava al centro indefessamente e che aveva anche qualche strabismo a destra, si è saldata con gli elementi intransigentemente liberisti del mondo imprenditoriale.
L’unica ottima notizia del secondo turno delle presidenziali francesi è la sconfitta di madame Le Pen. Per il resto non c’è da rallegrarsi di alcunché: l’elettorato della sinistra di alternativa, quello cui Jean-Luc Mélenchon ha fatto appello all’impossibile sostegno, anche con un solo voto, alla candidata erede del Front National, ha fatto “fronte repubblicano” soltanto per un terzo di quel 21% ottenuto al primo turno.
Comprensibile ma molto poco utile politicamente: è la dimostrazione che la vecchia polarizzazione dei due grandi partiti della Quinta Repubblica, gollista e socialista, non ha passato alcun testimone ad altre forze politiche capaci di reinterpretarne i valori e i disvalori.
Lo stesso sistema elettorale francese appare sempre meno adeguato ai tempio. Le legislative di giugno saranno un banco di prova veramente interessante e una lezione da apprendere per capire se, pure da noi in Italia, vale la pena scervellarsi così tanto in desideri e slanci di cambiamenti costituzionali e, naturalmente, di leggi per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, del capo del governo o per altre mutazioni delle regole che attribuiscono maggioranze di seggi in base alla grandezza relativa delle forze politiche.
Macron vince, fa vincere l’idea di una Europa che vuole saldarsi attorno all’asse con Berlino in una rivendicazione di maggiore autonomia da Washington ma pur sempre sotto l’ombrello della NATO e non disdegnando affatto la corsa al riarmo. I giornali francesi, proprio durante la campagna per le presidenziali, hanno sottolineato molte volte come Parigi sia l’unica nell’Unione Europea a possedere l’atomica e ad aver spinto notevolmente sul fronte nuclearista, sia pure in chiave energetica.
Il tutto a sostegno delle rivendicazioni macroniste in merito: una Francia orgogliosa del suo capitalismo liberista che vuole spartire il dominio dell’Europa con una Germania che sta riarmando la Bundeswehr con oltre 100 miliardi di euro. E’ veramente quello che sui quotidiani e nelle tv tedesche viene definito “un cambio di epoca“.
La guerra in Ucraina ha soltanto accelerato i tempi, ha costretto i governi europei a fare i conti con il risveglio di un Est stanco delle pressioni della NATO ai suoi confini storici (quelli tanto dell’Impero di Caterina II quanto dell’Unione Sovietica) e del tentativo di riemersione del gigante economico americano in alternativa a quello emergentissimo cinese.
Macron è la croce liberista di una medaglia europea che ha la sua testa nel socialdemocratico Scholz, il cui cancellierato era iniziato all’ombra del merkelismo e pareva tanto debole da non poter ereditare le capacità mediatrici, unificatrici e coadiuvanti del capitalismo continentale con la punta estrema e più pericolosa delle istituzioni europee: la vocazione finanziario-bancaria di una organizzazione plurinazionale dai tratti confederativi solo sul piano meramente economico.
Il sovranismo francese ha giocato una partita truccata proprio dallo scoppio della guerra in Ucraina: invece che rafforzarsi, il legame tra Le Pen e Putin è divenuto all’improvviso un pericoloso ingombro politico. Impossibile da scansare all’ultimo momento: soprattutto se questo momento ha coinciso perfettamente con l’intera campagna elettorale del primo turno per le presidenziali.
Non sono stati sufficienti i cambiamenti di nome al partito che fu del padre Jean-Marie, e nemmeno il passaggio dall’aggressività verbale contro i nemici di sempre da indicare al popolo come i veri pericoli per la società: migranti, rom, sinti, culture gender ripescate ogni tanto per essere messe nel calderone dei pregiudizi a buon mercato, con oltretutto la mancanza di un pericolo terrorista che potesse saldare la nazione attorno ad un rinfocolarsi vigoroso di un nazionalismo tutto occidentale, per niente europeista e con un chiarissimo riferimento alle “radici cristiane” di un continente da liberare dalle élite bancarie e dalla plutocrazia finanziaria giudaico-massonica.
I vecchi arnesi della destra estrema, pur mandati in soffitta, hanno riecheggiato come fantasmi di un recentissimo passato e, sommati alle simpatie putiniane di madame Le Pen, riferimento francese dell’internazionale nera protetta dal capo del Cremlino, sono stati un utile impedimento per mostrarla come una alternativa credibile per la stabilità dei mercati, del liberismo francese dentro un contesto di rassicurante europeismo atlantista.
L’ennesima sconfitta di Marine Le Pen non è, purtroppo, frutto di una unità antifascista riconoscibile in quanto tale, ma un combinato di interessi antisociali che si sono uniti ad una piccola parte di coscienza repubblicana, uno zoccolo duro di quel “fronte” che è andato sempre più logorandosi col passare del tempo, con il venire meno di una alternativa socialista alle destre, di una anche pur minima cornice progressista di politiche moderate che puntavano ad un temperamento degli eccessi del mercato.
La credibilità istituzionale è diminuita con gli scandali presidenziali, ma in particolare si è assottigliata a causa del venir meno di un ruolo di credibile garanzia sociale esercitato dagli inquilini dell’Eliseo, visto sempre più come il centro di un potere lontano dalle classi sociali più disagiate, avversario delle esigenze dei più deboli, antitetico a quella “égalité” tradita con le riforme economiche, con quelle pensionistiche e con l’investimento sempre più preponderante da parte dello Stato nel settore privato.
Per questo, se Macron viene rieletto con il 58% dei consensi espressi da un 71% di aventi diritto al voto, con una percentuale di astensionismo in crescita costante e decisamente la più alta dal 1969 ad oggi, ma non fa breccia tra i milioni e milioni di francesi che, giustamente, hanno smesso di affidarsi e fidarsi delle belle promesse di un presidente che non può non garantire il mondo padronale e la grande finanza.
Sono e rimangono i suoi numi tutelari, i protettori di una politica tutta tesa ad assicurare alla Francia un ruolo quanto meno comprimario con la Germania nella stabilizzazione di un asse Parigi-Berlino nella guida futura dell’Europa di Bruxelles e Strasburgo.
La guerra ha salvato Macron dal dover discendere i gradini dell’Elisio e uscirne, ma non lo ha messo assolutamente al riparo da un concretizzarsi di quella contraddizione che i riformatori dell’impianto istituzionale e legislativo elettorale avevano previsto e cercato di evitare per garantire al Presidente della Repubblica la “copertura” governativa attraverso una solida maggioranza parlamentare.
E’ altamente probabile che nelle legislative di giugno il livello di astensione si abbassi e gli “insoumise“, nonché i comunisti e gli altri piccoli partiti della sinistra di alternativa, tornino al voto non solo per esprimersi, pur in un uninominale maggioritario a doppio turno, secondo i propri radicati convincimenti, ma per sostenere in tal senso una rivincita della guache e portare Mélenchon alla guida del governo della Repubblica.
Le mosse di Macron in queste ore prospettano un timore di tale natura: rumoreggiano sui giornali le indiscrezioni che vorrebbero il Presidente orientato ad assegnare l’incarico di Primo Ministro ad un esponente di sinistra. Non Mélenchon, forse un esponente indipendente di quella sinistra che guarda a La France Insoumise o ad un progressismo ecologista che ha dato davvero cattiva prova di sé stesso al primo turno sposando posizioni interventiste, chiedendo l’invio di armi all’Ucraina senza alcun freno inibitorio ispirato da un ambientalismo che, almeno un tempo, era anche pacifismo.
Il rinnovo dell’Assemblea Nazionale rischia di essere per Macron un “terzo turno” elettorale, una prova di tenuta della presidenza stessa appena faticosamente mantenuta.
I 269 seggi attuali de La République En Marche, unitamente all’alleanza parlamentare con il Mouvement Democrate di Bayrou e la “destra costruttiva” di Agir potrebbero ridursi notevolmente e la maggioranza parlamentare a sostegno del Presidente sgretolarsi davanti all’avanzata del lepenismo – zemmourismo da un lato e dal consolidarsi di un nuovo sentimento socio-politico di sinistra in una società erosa dalle pretese liberiste, quindi da un continuo impoverimento collettivo e personale, da una inedia del corpo delle tutele nei confronti delle classi più deboli e proletarizzate a forza dall’indigenza crescente.
La collocazione della Francia, al momento, rassicura i poteri economici continentali, la BCE e tutti gli alleati nord-atlantici nel prosieguo di una politica interna che poggi sull’incontestabile dominio del mercato, sul contenimento delle pretese operaie e di tutte le lavoratrici e i lavoratori, dei precari e dei pensionati, mentre esternamente l’appoggio alla NATO non viene messo in discussione benché minimamente.
Ma tutto ciò si regge su un equilibrio precario. Come la vita di milioni e milioni di francesi che attendono di regolare i conti con un Presidente già ampiamente dimezzato nei consensi e nella credibilità popolare e sociale. La guerra incombe e giugno è dietro l’angolo. E così anche il pericolo di una destra che ha rischiato ancora una volta di prendere il controllo di una delle democrazie più vecchie d’Europa.
Le sfide della sinistra di alternativa sono tante: la pace, l’anticapitalismo, il ristabilimento di un asse tra diritti e libertà civili e diritti sociali. A queste sfide i comunisti e gli “insoumise” sono chiamati a lavorare il più unitariamente possibile.
MARCO SFERINI
26 aprile 2022
Foto di Atypeek Dgn