La storia della guerra ha bisogno di più tempo di qualunque altro avvenimento per essere compiutamente raccontata. Non lo si può fare oggi, a confitto in corso, perché i punti di vista prevalgono nettamente sulle oggettività rintracciabili e su quello che un giorno sarà il serio lavoro degli studiosi, di tanti studenti e di insegnanti che si metteranno ad incrociare i dati, le testimonianze e, con a disposizione le testimonianze dirette di chi è sul campo, cronache ormai visive, migliaia e migliaia di filmati e centinaia di migliaia di riprese amatoriali dai telefonini ad Internet, potranno tracciare un quadro sufficientemente completo degli eventi che ci sopraffanno in questo momento.
Se per farne la storia, occorrerà che la guerra sia terminata e che la geopolitica internazionale si sia risistemata sui suoi grandi piedi d’argilla, il racconto quotidiano di quello che avviene in Ucraina ci dice che le parti in causa non mettono un freno all’impeto bellico e che i loro sostenitori nord-atlantici da un lato e bielo-russi dall’altro fanno il tifo sperticato per una ulteriore sostanziazione del conflitto che, di fatto, esclude quasi a priori qualunque possibilità di dialogo, di trattativa anche formale, di mantenimento di un canale di interlocuzione fra nemici che, in qualche modo, deve essere tenuto aperto, perché altrimenti c’è solo lo scontro frontale, totale e globale.
La diplomazia non ha fallito perché, in tutta evidenza, non è mai veramente stata presa in considerazione quasi da nessuno. Forse soltanto francesi e tedeschi da un lato e cinesi dall’altro, più per timore che per convinzione hanno provato ad insistere su questo terreno, ricevendo da parte americana e atlantica come risposta le parole di fuoco di Biden e di Stoltenberg; mentre da parte cinese, i tono più misurati si sono attestati sulla linea del non interventismo anche verbale, facendo sommessamente notare al mondo intero che comunque Pechino non starà a guardare se l’espansione bellica dovesse superare i confini dell’Ucraina e riversarsi anche nel resto d’Europa e minacciare l’Asia.
Chi farà la storia delle guerra tra Russia e Ucraina, forse un giorno potrà osservare che il mondo interno ne era già coinvolto, ben prima che le ostilità si aprissero, che Putin desse l’ordine perentorio di “proteggere le popolazioni del Donbass” e “denazificare” quella marca occidentale che da sempre è la vecchia Rus’ di Kiev.
E ciò non soltanto per via della globalizzazione capitalistica che mette in regime concorrenziale tutti i comparti economici degli Stati e degli agglomerati di questi stessi: se il regime putiniano preparava il conflitto diretto contro l’Ucraina da tempo, dall’altra parte gli USA e la NATO, servendosi della debolezza europea, facevano il loro gioco, avanzando nello scacchiere orientale, modificando i confini storici delle influenze estere delle vecchie grandi potenze della Guerra fredda.
Non si tratta di tirare sempre fuori il, pure importantissimo, argomento dell’espansione militare nord-atlantica nell’Europa dell’Est; semmai di comprenderla, ormai, in un disegno ben più complesso che viene fuori a poco a poco, mossa dopo mossa, mentre la guerra devasta le città, martirizza le popolazioni e scarnifica i territori fino a renderli esangui, esanimi e privi di una riconoscibilità, dell’essenza stessa di un residuo di vita, di società.
A questo proposito, coloro che pretendono dai pacifisti l’abbandono di una presunta passività e neutralità, mentre possiamo assicurare che la lotta per la pace è tutt’altro che passivizzazione delle coscienze, fanno la voce grossa in queste ore per cercare di dimostrare che proprio l’aggressione di Putin all’Ucraina sta provocando l’allargamento del territorio della NATO ad Est: Svezia e Finlandia si propongono di chiedere l’adesione ufficiale al patto nord-atlantico «per non fare la fine di Kiev», ha precisato Sanna Marin, Ministro Capo di Helsinki.
E’ fuori di dubbio che ad una azione corrisponde sempre una reazione. Questa – diceva Ghandi – è proprio la funzione della resistenza nonviolenta e civile. Ma, sfortunatamente, il criterio è universale e, pertanto, mentre il movimento pacifista appare sempre più sullo sfondo, senza leader riconoscibili, senza manifestazioni di massa che coprano di arcobaleno il mondo, e l’unico a farsi sentire è papa Francesco, all’azione di Putin contro l’Ucraina corrispondono tutta una serie di reazioni che con la fattualità della guerra c’entrano ben poco e sono risposte “preventive“, che guardano al futuro.
Se Biden apostrofa il presidente russo malamente, se Stoltenberg rincara la dose con una muscolarità verbale impressionante e si schierano migliaia e migliaia di nuove truppe ai confini con l’Ucraina, mentre un quantitativo enorme di armamenti viene indirizzato verso Kiev, in risposta alle quotidiane pretese di Volodymyr Zelens’kyj, ma soprattutto per consolidare i piani espansionisti dell’occidente, non ci si può certo attendere che la risposta russa sia la decelerazione delle colonne dei carri armati che cingolano verso il Donbass o che tornano a minacciare Kharkiv.
Purtroppo questa è la spirale della guerra e, mentre Putin non fa mistero di voler andare fino in fondo, altrimenti non avrebbe nemmeno iniziato questa orrorifica guerra, i leader occidentali devono poter stare moralmente più in alto, almeno a parole, per mostrare al mondo che la parte giusta è quella che in risposta all’aggressione accantona la diplomazia e sblocca miliardi e miliardi di dollari dei bilanci statali per dare all’Ucraina tante di quelle armi che non si contano più.
Una pungentissima battuta, sintetizzando benissimo l’impressione che si ha dei rapporti tra il governo di Kiev e gli alleati occidentali, recita: «Zelens’kyj continua a chiederci armi, qualcuno per favore gli dica che le abbiamo finite». I più moderni dispositivi anticarro, per la contraerea, contro la guerra chimica e batteriologica e persino i carriarmati promessi da Boris Johnson: il quantitativo di armamenti che è arrivato e arriverà in Ucraina fa di quel paese un vero e proprio arsenale esplosivo.
Chi scriverà la storia di questa guerra, un giorno potrà annotare che ben prima del suo scoppio si trovavano a Kiev addestratori militari americani, inglesi, in sostanza dei paesi che aderiscono alla NATO e che gli ucraini stessi possedevano già da tempo i famigerati droni turchi “Bayraktar“, capaci di ammazzare un uomo che corre sul ciglio della strada con una precisione degna del peggior cecchino di guerra.
La preparazione della reazione all’azione supponibile di Putin è stata, dunque, più che altro non una forma di deterrenza, bensì una prova generale di riqualificazione del ruolo dell’Alleanza atlantica nel cuore dell’Europa, disegnando tutti gli scenari possibili. E nonostante ciò, ancora ci si domanda come mai l’Europa si sia fatta trovare diplomaticamente impreparata?
La politica di Biden ha certamente deluso coloro che lo hanno votato pensando che in politica estera sarebbe cambiato il passo, che si sarebbe venuti via dai teatri di guerra come l’Afghanistan avviando una transizione verso quella “democrazia” che tanto si esalta e si pretende di esportare e che, in particolare, il bilancio statunitense avrebbe riguardato di più la tutela delle larghe fasce di popolazione indigente piuttosto che una coltivazione di un neo-militarismo imperialista.
Non è dato sapere cosa avrebbe combinato Donald Trump, ma di sicuro Biden non si è allontanato molto dalle pulsioni bellicose del repubblicanesimo sovranista, autarchicheggiante e complottista che l’ha preceduto. Nell’uno e nell’altro caso, già noi oggi possiamo affermare che siamo nel mezzo di una guerra combattuta per determinare quale modello imperialista dovrà prevalere o, comunque, quale equilibrio nuovo si dovrà determinare in sostituzione del precedente che aveva segnato il passo in quanto a pretesa di unilateralità.
Il fallimento più evidente è quello di un’Europa che, prima del 24 febbraio scorso, poteva ancora formalmente conferirsi il titolo di “continente della pace“, nonostante la guerra nei Balcani di fine anni ’90 e nonostante le controversie diplomatiche, le asperità interne tra i paesi dell’Unione e le guerre quasi decennali in Crimea e Donbass.
Non soltanto Bruxelles e Strasburgo non sono riuscite, come istituzioni comunitarie, a saldare le posizioni, a costruire una politica di pace che muovesse, non tanto dal pacifismo che pretendiamo noi, quello che guarda al disarmo come elemento costitutivo di una nuova stagione dei rapporti internazionali tra gli Stati e di vita per i popoli, ma che per lo meno si rifiutasse di diventare la cassa di risonanza dell’imperialismo a stelle e strisce e l’avamposto della NATO.
Una straordinaria illusione politica. Perché l’Europa è dalla fine della Seconda guerra mondiale che è tanto l’avamposto americano al di qua dell’Oceano atlantico, quanto il cagnolino scodinzolante della potenza americana. Proprio la fine dell’unipolarismo statunitense, processo acceleratosi con l’accrescersi della potenza cinese e la crisi delle aree non stabilizzate con vent’anni di guerre in Afghanistan, Medio Oriente e Africa, ha scatenato le pretese putiniane, rendendole purtroppo attuali nel contesto venutosi a creare.
La diplomazia può pretendere di avere voce, in tutto ciò, per bocca di chi? Biden e Johnson la escludono a priori e consolidano così l’ineluttabilità di un momento non adatto al terreno del dialogo, rendendo necessario il confronto bellico. Putin deve terminare la sua guerra di conquista, altrimenti il disegno di creazione della “Nuova Russia” nell’Est ucraino resterà incompleto, in particolare dopo gli sviluppi scandinavi, dopo l’ennesimo frontiera che diventa un confine tra NATO e Russia e non più solamente tra Russia e Finlandia. Lo stesso Mar Baltico cambia nettamente fisionomia e si stringono sempre più i margini di collegamento fra Mosca e l’accesso ai mari del nord.
Il teatro del Mar Nero, dunque, diventa lo sbocco fondamentale di una potenza in guerra che non ha nessuna intenzione di cedere un millimetro dalle sue posizioni. Così non intendono fare gli occidentali nord-atlantici. La diplomazia, così come il pacifismo, sono gli attuali sconfitti di questa guerra mondiale che si combatteva già quando noi pensavamo, ingenuamente e stupidamente, di essere ancora in pace e di assistere soltanto a delle schermaglie tra poli di potere, economia e militarismo in eterno confronto tra loro.
Questa ingenuità è tutta nostra, perché i governi sapevano bene a che gioco stavano giocando. Questa ingenuità la pagheremo cara. La stiamo già, un po’ tutte e tutti, direttamente o meno, pagando ad un prezzo salatissimo.
MARCO SFERINI
14 aprile 2022
Foto di Vladimir Berr