Il gergo militare è peggiore del politichese burocratico di certe circolari amministrative, decreti governativi e disegni di legge. Risulta ostico soprattutto a chi come me non ha mai avuto nessuna propensione a frequentare l’ambiente dell’esercito e che, per giunta, o ignominia delle ingnominie, è stato pure riformato dal servizio di leva. Una medaglia civilissima che conservo con grande orgoglio, perché è stata, seppure involontariamente, un premio alla mia idiosincrasia con ogni genere di arma, bianca, nera o rossa del sangue di qualcuno.
Dunque, dopo tutti i documenti di guerra scorsi dal 1989 in avanti, tramite cronache sui quotidiani e qualche ricerca di archivio prima, per poi passare alle più comode consultazioni internettiane, stupisce sempre un po’, e naturalmente indigna, leggere che il nostro esercito – che comunque non sta lì solo per essere chiamato a svolgere compiti di civilissima protezione del territorio e della popolazione ma anche, nel caso, per fare la guerra deliberata dal Parlamento per scopi esclusivamente difensivi della nazione – venga chiamato all’addestramento di guerra e quindi messo in stato di pre-allerta.
Del resto c’è una guerra che è scoppiata da appena tre settimane, proprio in quello che è il cuore dell’Europa spostato leggermente ad est rispetto all’asse portante della pseudo-politica estera dell’Unione, quello rappresentato dalla Francia e dalla Germania.
Le altre voci governative dei 25 restanti componenti l’agglomerato federativo economico del Vecchio continente, sembrano non pervenuti in una carta dove la meteorologia bellica addensa nubi su una Ucraina martellata dai bombardamenti russi che fanno stragi di civili e che ora arrivano anche dal mare per la martoriata Mariupol e per l’Odessa che aspetta lo sbarco delle truppe anfibie associato ad un attacco terrestre dalla lingua di terra neosovietica della Transnistria.
La cronaca di guerra, dunque, tiene sulla corda le cancellerie europee, allarma le truppe dei vari Stati che iniziano a prepararsi ad una eventuale estensione del conflitto: la NATO fa esercitare i suoi uomini nella Scandinavia un tempo terra neutrale, similmente alla Svizzera che ha abbandonato la sua pluricentenaria tradizione in questo senso, mentre Biden promette all’Ucraina miliardi di dollari in armi per Kiev, al pari dell’Europa che ha scelto di non funzionare come centro di una mediazione per fermare il conflitto, ma come fronte pronto ma non attivo, vigile ma non interventista.
La circolare del nostro esercito, letta in questo contesto, può forse stupire più di tanto? Affatto. Ma deve ugualmente indignare, perché il governo della Repubblica non ha informato il Parlamento e, dal punto di vista del rapporto con la popolazione, ha tenuto all’oscuro della preparazione dei nostri soldati al “warfighting” tutte e tutti noi. Se siamo quasi in guerra – diciamo così…- piacerebbe almeno saperlo.
Ma ormai è una tradizione anche italiana, da almeno trent’anni, far parte di coalizioni belliche prima che lo stato di guerra sia votato dalle Camere: l’argomentazione che si porta per giustificare queste “sviste” fa riferimento al fatto che l’Italia non invade o aggredisce nessuna altra nazione, ma corre in difesa di qualche popolo che non può fare a meno del grande esempio democratico principalmente a stelle e strisce.
Se davvero esiste una differenza tra la guerra in Ucraina e gli altri conflitti cui le nostre truppe hanno preso parte, perché – si dice – questa è accanto a noi, ci riguarda proprio direttamente e rischia di arrivare molto vicina ai nostri confini se si pensa che i Balcani sono, un po’ da sempre, osservati speciali da parte della Russia che non dimentica certo il suo stretto legame secolare con la Serbia, allora le parole dello Stato maggiore dell’Esercito dovrebbero allarmarci ancora maggiormente e farci riflettere sul corto circuito tra istituzioni democratiche, isteria popolare e preparazione bellica sottaciuta o non espressa chiaramente coram populo per chissà quale ragione di rapporti interni alle forze armate della Repubblica.
Il polverone sollevato dalla circolare dal sen sfuggita non ha inquietato soltanto noi, povere, meschine, reiette e anacronistiche anime di un pacifismo preso in giro ad ogni puntata di pseudo-dibattito televisivo, ma ha fatto arricciare il naso anche a commentatori, giornalisti, intellettuali e politici tenuti fuori da qualunque considerazione in merito. Non è un punto di orgoglio che ne nasce, semmai una stigmatizzazione per disposizioni che non riguardano – come a prima vista potrebbe sembrare – soltanto un esercito, bensì la vita di un popolo intero e i rapporti dell’Italia col resto di un mondo che ancora non sa bene come venire fuori dal conflitto russo-ucraino.
Il pacifismo può essere la cattiva coscienza degli interventisti di casa nostra: quelli che agitano la bandiera arcobaleno e poi in Parlamento votano per l’aumento delle spese militari fino al 2% del PIL per preparare il Paese ad un possibile conflitto esteso al resto d’Europa. 40 milioni di euro in più ogni giorno per armamenti di ogni tipo e per implementare gli organici dell’esercito. La direzione presa dal governo è chiara: riarmare l’esercito, tenersi pronti per sostenere la NATO se ai confini dell’Ucraina qualche attacco russo penetrasse nel territorio dei paesi confinanti con l’Ucraina.
Si potrà affermare che non c’era altra via d’uscita e che, del resto, al fuoco si risponde col fuoco. Invece c’è sempre una terza via, un bivio da scartare, perché nessuna opzione è mai a senso unico, a meno che non si scartino a prescindere possibilità di dialogo, di ricerca continua di un approccio che eviti la crescita esponenziale delle guerre.
La strada dell’interposizione europea tra Russia putiniana e fronte ucraino-atlantico-statunitense non è stata nemmeno tentata. La prima risposta all’aggressione di Mosca contro Kiev è stata, da parte di un unilateralismo dei vari Stati europei, l’invio delle armi all’Ucraina, l’accettazione dei presupposti di uno scontro considerato ormai inevitabile e risolutivo delle problematiche dell’area euro-slava. Sulla pelle del popolo ucraino che, forse prima ancora di difendere il suo governo, difende le sue case, le sue città, la sua ricchezza che viene sbriciolata dai bombardamenti criminali di Putin.
Domandiamoci se è lecito supporre che anche un certo nazionalismo italiano rinverdisca sé stesso, si attualizzi in questo contesto e magari spalanchi le porte a nuovi consensi per quelle destre estreme che contendono al centrosinistra e alla “grande maggioranza di unità nazionale” l’interventismo di queste ore, la gara di solidarietà pelosa nei confronti dell’Ucraina: il posto della Terra dove si tiene la contesa quasi mondiale sul riposizionamento delle sfere di influenza e dei poli liberisti in concorrenza spietata tra loro.
E’ lecito porsi fare queste supposizioni proprio per la dimensione sproporzionata tra le s-ragioni del conflitto e la minaccia globale che viene paventata dal nuclearismo spinto putiniano nonché dalla richiesta di copertura dei cieli che Zelens’kyj ripete ad ogni videocollegamento con congressi e parlamenti occidentali. E’ lecito anche avere paura, temere che la guerra scaraventi a terra le nostre sicurezze, entri nelle nostre quotidianità materialmente, superando il livello di percezione che abbiamo oggi e che ci inquieta già abbastanza.
Se è lecito farsi queste domande è altrettanto lecito cercare il modo migliore per poter contrastare sia la voglia di riarmo che attraversa la stragrande maggioranza parlamentare e l’intero governo del Paese, sia un pacifismo di facciata che finisce con l’essere la quinta colonna di un fronte che porta più scontri, più guerra, più morte e distruzione. Come a Mariupol dove ospedali pediatrici e teatri non esistono più e sono ormai la sepoltura per centinaia di persone la cui unica colpa è stata trovarsi in mezzo alla sfida mondiale tra potenze riemergenti e interessi economico-politico-militari annessi e connessi.
MARCO SFERINI
17 marzo 2022
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