Non è possibile in questo otto marzo non pensare alle donne in guerra. A tutte le donne in guerra e a tutti i conflitti che sono disseminati per il pianeta. Lo si fa partendo, ovviamente, dal teatro della morte, delle violenze e di tutto l’orrore più vicino alla nostra pseudo-pacifica vita occidentale.
Una brutalità che si somma in Ucraina da quasi due settimane e che lascia a terra i corpi di intere famiglie che ce l’avevano quasi fatta a raggiungere il confine tra la vita e la morte, tra la salvezza e la disperazione; che costringe madri a mettere in tasca ai figli dei biglietti di ringraziamento per coloro che avranno cura dei loro bambini fuggiti a piedi da Kherson o da quell’emblema di rischio atomico che è diventata Zaporižžja.
Sembra quasi di leggere di Marco, dagli Appennini alle Ande, ed invece è la guerra del 2022, di un’epoca attuale che noi consideriamo straordinariamente moderna e che mette ancora al bando i diritti dei più deboli, considerandoli degli accidenti, delle variabili comunque sempre e solo dipendenti dagli indici di borsa, dalla commercializzazione delle merci, dall’espansione economica di un impero piuttosto che un altro.
Le donne del 2022 affrontano ogni giorno la prepotenza di un maschilismo che si insinua nell’intimità fisica e in quella psicologica, tra le ombre dei corpi e le pieghe dell’animo. Un giorno le violenta con il pensiero, un’altro con la brutalità plastica della forza che ti afferra e ti mette a terra per farti sentire colpevole di non aver resistito abbastanza, di aver ceduto troppo presto, di non essere stata in grado di sferrare quei calci nei virilissimi testicoli tanto del maschio quanto della guerra che conduce.
Il machismo è un tratto fisiognomico di una virilità deforme, di una trasfigurazione interiore attraverso l’esaltazione edonistica di sé stessi, di un corpo pieno di muscoli che possono essere il mezzo tentatore per sedurre o lo strumento per costringere alla propria volontà, uccidendo il vero desiderio, la vera voglia di condivisione di un affetto, di un sentimento e, perché no, anche di un legittimo, reciproco impulso sessuale.
La guerra dei corpi, delle anime e dei generi spazza via ogni buona intenzione: il possesso, il potere, la proprietà sull’altra (o sull’altro), diventano, soprattutto nello sparpagliarsi dei conflitti tra le annichilite vite quotidiane dei popoli, bottino della guerra stessa. Tutto è permesso alle truppe che avanzano, che si prendono tutti gli spazi, che non lasciano niente e nessuno al di fuori della marea di tuoni e di sferragliamenti che provengono dalle bocche dei cannoni, dai cingoli dei carri armati, dal sibilo dell’aria perforata dalla velocità supersonica delle pallottole.
Le donne resistono, lasciano, come gli uomini, i loro lavori e diventano ostaggio due volte: della guerra e dei soldati che vengono loro contro. Non incontro. Hanno appena il tempo di lasciare scappare i loro figli, di nasconderli, di guardarli negli occhi sperando di ritrovarli dopo che tutto sarà finito e ci si illuderà un’altra volta che le guerre non possano più tornare, perché dalla storia si dovrebbe imparare a non ripetere gli errori. Ma la morale non coincide con gli interessi di una economia omicida che predispone alle guerre naturalmente, sostenendo una propensione allo scontro che è nella natura degli animali umani al di là dell’istinto di sopravvivenza.
Non uccidiamo per sopravvivere, ma per vivere meglio di altri, per avere di più, per difendere il nostro cortile di casa dalle ingerenze esterne, dalle minacce e, certo che sì, spinti anche da una megalomania che non si sa se sia conseguenza di tutto ciò o invece una delle genitrici delle peggiori stragi della storia dis-umana.
L’otto marzo, come il primo maggio, è una data che ricorda la lotta per l’affermazione di una società in cui l’essere altro dall’uomo, l’essere non-maschio, l’essere in una condizione di subordinazione tanto ad un individuo quanto ad un potere organizzato e strutturato è la sistematicità e fa parte del problema più ampio della globalizzazione di un capitalismo oggi nella sua fase forse più feroce: quella liberista.
Dall’inizio del ‘900 fino ad oggi, molti tabù sono stati infranti, tanti preconcetti sono stati smascherati grazie a quelle lotte ritenute troppo spesso “eccessive“, “radicali“, “intransigenti“. La sfida nei confronti della convenzionalità, della buona morale e del cosiddetto “senso comune” non può essere moderata, morbida, accondiscendente e tollerare dei compromessi. Deve essere dirompente, deve dividere le coscienza, lacerarle per mostrare loro in quale comodo adagio si sono disposte nel considerare “normalità” l’eredità del passato, la calcificazione delle consuetudini attorno anche ai migliori istinti libertari.
La repressione più dura e durevole è quella che invisibile agli occhi, che materialmente non si espone, che viaggia nell’aere, nell’etere: attraverso parole che diventano comportamenti e rafforzano la prepotenza, autoproclamato e autoconcessosi diritto al disporre di tutto ciò che ci capita a tiro. Come in guerra, come in Ucraina oggi o come in Libia, Somalia, Afghanistan, Siria, Yemen ieri ed anche tutt’oggi. Perché in quei paesi dove è permanente lo scontro armato, le donne, le ragazze, le bambine e i ragazzi e i bambini sono costrette a rimanere in un limbo di fragilità che altrimenti non sarebbe loro proprio.
Nessuna e nessuno è veramente debole di per sé, se non per una induzione dall’esterno, per una coercizione che subisce e alla quale non riesce a sfuggire. Anche un elefante diventa debolissimo se davanti si trova un cacciatore armato di tutto punto. La forza brutale, la violenza sadica e la voglia di uccidere che ne consegue, sono distinguibili dalle guerre soltanto se si parla di cronaca nera o di caccia agli animali non umani.
Per il resto, non c’è differenza: potere economico e potere politico, compenetrandosi necessariamente nel capitalismo, danno vita a tutte quelle condizioni foriere delle violenze che malediciamo ogni giorno e che ci ripetiamo non appartengono a noi che ci riteniamo buoni, impossibilitati a scendere ad un livello tanto barbaro e incivile.
Eppure la guerra trasforma un po’ tutti. Pochissimi riescono a sfuggirle in assoluto. Tantissimi si lasciano prendere dal vortice degli eventi e così si finisce con il non riuscire più a distinguere, nella massificazione della crudeltà a buon mercato, chi sia meno colpevole di un altro, chi abbia anche soltanto provato a emarginarsi per un secondo dall’imbruttimento morale, fisico e mentale indispensabile per far parte del conflitto che divampa.
Le donne ucraine, insieme a tutte le altre donne che vivono da decenni in zone di guerra, sono l’iconica rappresentazione di una resistenza alla conservazione dell’esistente, alla ipocrita caricatura del nostro sopravvivere quotidiano nel migliore dei mondi possibili. Fatto di disuguaglianze sempre più grandi, di sfruttamento, di schiavismo, di repressioni, autoritarismi, violenze, pregiudizi e guerre. Un mondo che considera intelligenti coloro che sono forti e che devono prevalere sui deboli. Era il paradigma hitleriano che ha supportato tutta l’azione politica del nazismo nei dodici anni in cui ha devastato prima la Germania, poi il mondo intero.
La forza non è intelligenza e non è diritto. L’intelligenza deve essere al servizio proprio di chi ne ha meno, di chi è più debole e ha bisogno di aiuto. Ma il passo successivo non può che essere la piena consapevolezza dell’uguaglianza senza se e senza ma. Proprio nelle più grandi differenze che possono sembrare di ostacolo alla sua affermazione. La sfida più grande di tutte è esattamente questa: tanto uguali quanto diversi.
MARCO SFERINI
8 marzo 2022
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