L’origine delle guerre: dall’alba dell’umanità alla crisi ucraina

Perché nemmeno i corridoi umanitari riescono a concretizzarsi nell’annientamento bellico di Mariupol e delle altre città dell’Ucraina? Perché non trova spazio un minimo di tolleranza dell’umanità nella spirale della...

Perché nemmeno i corridoi umanitari riescono a concretizzarsi nell’annientamento bellico di Mariupol e delle altre città dell’Ucraina? Perché non trova spazio un minimo di tolleranza dell’umanità nella spirale della guerra?

Domande come queste lambiccano il cervello e martellano ciò che resta delle coscienze inaridite da anni di distrazioni consumistiche e di teorizzazione del “migliore dei mondi possibili“: quello salvifico delle democrazie occidentali, quello dove la speranza dei disperati del mondo si affaccia e viene presa a schiaffi dal razzismo e dalla xenofobia, da un conformismo che pretenderebbe pure di essere nume tutelare della conservazione del nostro benessere.

Ai quesiti etici sulla guerra ci si deve abituare quando scoppia una diatriba tra Stati, non fosse altro perché l’idiosincrasia naturale legata all’istinto nostro di autoconservazione ci spinge a domandarci: ma chi ce lo fa fare di ammazzarci per conquistare questo o quel territorio, per prevalere su questa o quella nazione se, poi, intanto sempre su questa terra rimaniamo e sempre sulla stessa barca dell’impoverimento del pianeta stiamo ad ondeggiare?

Certo, un filino di retorica ingenuità c’è nel chiedersi: «Ma perché la guerra?». E, al contempo, una ricchissima fiera delle risposte banali snocciola immediatamente elucubrazioni, analisi, pensieri e definizioni che sovrastano la domanda puerile, eppure così ben posta e diretta. Perché la guerra è una costante nella storia dell’essere umano? Perché gli è insita naturalmente? Perché sono le condizioni economiche, legate agli interessi politici e alla voglia di potere che vi si accompagna, a crearne i prodromi, anzi le fondamenta più dure da distruggere?

C’è del vero in ognuna di queste ipotesi formulate con l’artificio retorico della domanda. Perché la guerra è endemicamente presente nel cammino umano, ma lo è ancora di più in questa moderna fase dell’evoluzione in cui iniziano a sentirsi gli scricchiolii delle solidità finanziare e dei grandi imperi industriali fondati sulla presunta eternità delle materie prime estratte dalla Madre Terra.

La velocità con cui tra Ottocento e Novecento si sono diffuse le estrazioni minerarie, le perforazioni dei suoli alla ricerca del petrolio, del gas e i fondali marini per impiantarvi ogni sorta di cavo telefonico, telegrafico e oggi in fibra ultraottica, ci dice che le guerre sono state e sono lo strumento per governare la globalizzazione capitalistica, per moltiplicare i poli capitalistico-imperialisti, per ridefinire costantemente la geopolitica degli Stati.

Domandarsi, dunque, perché le guerre scoppiano è legittimo dal punto di vista etico, mancando la “pace perpetua” kantiana nella impropriamente detta “natura umana“, variabile dipendente dagli sviluppi sociali che si creano dall’incontro fra le cosiddette “civiltà”, ma rimane un esercizio di autoconsolazione personale, di presa di distanza pure collettiva per sentirsi meno cattivi dei nostri simili che ordinano i conflitti, che mandano a morire tanti giovani e che ne fanno massacrare altrettanti altri.

Non si può pretendere che siano i soldati a studiare antropologia, sociologia, storia e filosofia sulla linea del fronte. E nemmeno si può proporre a Putin di dare una occhiata a Tacito, Campanella, Moro, Bruno, Kant e Ghandi, quando pare aver letto solo i manuali di spionaggio del KGB e nemmeno tanto bene quell’arte della guerra di Sun Tzu, visto come sta andando l’avanza del fronte in Ucraina.

Ma si può pretendere che almeno noi, che non partecipiamo direttamente al conflitto, noi che preferiamo l’arcobaleno ai colori di qualsiasi bandiera nazionale agitata come vessillo nazionalista e non di vero affetto per il proprio paese, si rifletta sull’origine della bellicosità ancestrale che ci pervade e sulle conseguenze cui porta una volta tradotta al di fuori di noi.

Non c’è stato bisogno di incrociare molte cronache e molti dati per scoprire che, ancora prima che le civiltà moderne si incontrassero intercontinentalmente con le scoperte geografiche e la fine degli spazi bianchi sulle mappe, tutti i popoli indigeni e autoctoni hanno costruito delle società verticali, sentendo il bisogno di organizzarsi collettivamente, in quanto “animali sociali“, ma cercando la protezione di un saggio, di un leader spirituale, politico che li guidasse e ne fosse il “padre“, il custode del benessere e il difensore primo.

E’ la primordiale paura dell’essere umano nei confronti del mondo sconosciuto: dalla preistoria fino ad oggi. Ci sono sempre, per quanto evoluta possa dirsi la nostra civiltà, delle paure che ci abitano e che ci pervadono. Paure che vengono strumentalizzate da chi ha più acume e che, quindi, finisce col divenire “necessario” per il suo popolo. L’origine della specie e l’origine dei conflitti sono strettamente legati, perché la guerra è l’esagerazione esponenziale di conflittualità che un tempo erano a livello tribale e che sono diventate strutturali, connesse allo sviluppo di ogni società.

Ripetiamocelo ancora: lo stupore innanzi alla nascita di un conflitto è ingenuità fino a che non si conosce la storia dell’umanità, ma l’indignazione invece deve rimanere la cifra con cui misurare la nostra capacità di reazione critica, di opposizione morale e politica all’orrore che ci portiamo appresso come bagaglio plurimillenario da adoperare per risolvere le “controversie internazionali” e pure quelle di casa nostra.

Non è concesso al pacifismo di essere solamente il contrario del bellicismo. Deve essere un movimento ideologicamente plurale, fatto di anticapitalismo anzitutto, per legare sempre il prodotto guerresco alla fabbrica economica che ne ha il brevetto; fatto di antispecismo, per non sottovalutare tutte le altre guerre che ogni giorno facciamo senza accorgercene: quella contro gli animali non umani e l’ambiente è un olocausto continuo, che mettiamo da parte e che consideriamo trascurabile perché mette in discussioni abitudini culinarie, gusti, percezioni e desideri che si perdono nella notte dei tempi.

Inoltre, il pacifismo, proprio la voglia di essere in uno stato di pace, non deve essere espressione di vivere oltre ogni conflitto: se per “pace” finiamo per intendere l’estensione del concetto ad un “vivi e lascia vivere“, ad un menefreghismo che eviti qualsiasi stimolo al miglioramento di ciascuno per il miglioramento di tutti, all’esclusione di qualunque lotta per l’emancipazione dei diritti di noi animali umani, degli altri animali, dei diritti civili e sociali, allora tradiamo in nuce proprio il futuro della pace.

Perché la messa al bando delle armi, degli eserciti e dei commerci che ne incentivano la diffusione grazie alle guerre che li sostengono, grazie ai governi che interpretano bene la volontà dei poteri economici, non può tradursi in una attesa messianica, in una speranza che tutto questo avvenga grazie ad un naturale prodursi di eventi favorevoli che creino le condizioni date per mettervi fine. Non si può fare del pacifismo una bandiera della pacificazione sociale, dell’estinzione della lotta di classe, del riconoscimento delle disuguaglianze sempre più vaste che abbracciano l’intero pianeta.

E’ proprio da questo solco incolmabile, tra popoli ricchi e grandi ricchi che li amministrano indirettamente con i comitati di affari governativi e popoli poveri che arrancano dietro neocolonialismi spietati, che nascono le guerre più spietate, più lunghe, perché hanno bisogno di tempo per capovolgere sistemi di tutele sociali non privi di contraddizioni ma, indubbiamente, non meno colpevoli verso i propri cittadini di quanto lo siano le democrazie occidentali.

Malediciamo pure la guerra, sfoghiamoci e imprechiamo. Ma poi, sapendo perché esiste, tagliamole le radici fino in fondo, lottando contro le vere ragioni che la producono.

Anticapitalismo, antispecismo ed egualitarismo sociale sono le nostre bussole per indicarci e indicare alle generazioni che verranno l’uscita dalla crisi mondiale, dall’annichilimento autodistruttivo prodotto dal profitto, dall’accumulazione finanziaria, dalla pretesa, in base a ciò, che a vivere e sopravvivere siano venti persone su cento al mondo, mentre le altre rimangano in uno stato di asservimento e di sottomissione, così come il resto degli esseri del pianeta. Natura compresa.

MARCO SFERINI

6 marzo 2022

foto: screenshot Wikipedia dal film “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick

categorie
Marco Sferini

altri articoli