C’è un errore in cui non si deve incappare nel valutare criticamente le decisioni della Consulta sui referendum appena approvati o bocciati dai supremi giudici costituzionali: si tratta della sottovalutazione di una serie di problematiche giurisdizionali (di diritto, in sostanza) che rischiano di apparire di poco conto, soffocate dalla tentazione semplificazionista e banalizzante della riduzione estrema dei concetti che gli stessi quesiti propongono (o proponevano nel caso di quelli cassati).
La valutazione sulla costituzionalità delle domande rivolte al popolo con lo strumento referendario non dovrebbe cadere sotto la mannaia del giudizio aprioristico, molto popolare ma anche molto grossolano e, per questo, alimentato essenzialmente da chi ha interesse a dividere sempre l’opinione pubblica in fazioni contrapposte e inconciliabili.
Dovrebbe invece essere esaminata a prescindere dal contesto politico. Almeno in un primo momento. Perché, in un successivo passaggio, tutta l’importanza di questa portata devono averla e, anzi, devono rivendicarla: ma per questo esiste, per l’appunto, la campagna referendaria. Si sa che, come sempre accade, proprio la dialettica degli opposti schieramenti inizia – come è anche normale che avvenga – ben prima dell’inizio dei comizi elettorali.
La Corte Costituzionale, dunque, valutando nel merito dell’aderenza dei quesiti alla Costituzione stessa, tutto dovrebbe fare tranne che anche soltanto dare l’impressione di essere stata mossa nei propri giudizi attraverso viatici di carattere politico, inquinando così il diritto con la personale opinione in merito ai quesiti che essa stessa deve vagliare.
Il tema non è di lana caprina, non è quel “pelo nell’uovo” citato dal presidente Amato, ma corre il serio rischio di divenire ozioso se ci si addentra troppo nei tecnicismi del diritto e si finisce con lo svilire inevitabilmente, sotto il peso di una incedente noia, la materia del contendere tra le parti: le motivazioni che hanno portato la Corte a bocciare il referendum sulla cannabis, oppure quelle che l’hanno condotta a non approvare quello sull’eutanasia sono molto più complesse dei dibattiti che si iniziano a fare in televisione e anche di commenti come questo che si propongono su Internet e sui giornali.
La Corte ce ne scuserà, ma rientra nei nostri diritti di cittadini poter criticare l’operato di questa o quella istituzione della Repubblica, proprio per migliorare la nostra capacità di comprensione, di analisi e, quindi, riversare il tutto in un uguale miglioramento nel fare politica al servizio del Paese. Per questo, fatte salve tutte le prerogative che la Consulta detiene e che non devono essere messe in discussione, tutelata quindi la sua piena autonomia e indipendenza di valutazione a protezione della Carta del 1948, tocca però riflettere su alcuni rilievi che non possono non essere mossi.
L’impressione che si ricava dalle ammissioni e dalle bocciature dei referendum proposti, è che abbia prevalso una tendenza veramente poco laica nel permettere al popolo italiano di esprimersi su temi che sono fortemente divisivi e che, per questo, meriterebbero anzitutto che a trattarli, insieme con gli umori popolari, fosse il legislatore per primo: il Parlamento.
Dal 2018 ad oggi, le Camere non hanno solo cambiato la loro composizione materiale nella strutturazione dei gruppi, con passaggi da questa a quell’altra formazione o con la imponente trasmigrazione nel calderone del Gruppo Misto. Le mutazioni sono state tante e così differenti da permettere di affermare che il Parlamento che ci troviamo a contemplare oggi non è lo stesso Parlamento che era stato eletto cinque anni fa.
In questo lustro, in cui si sono avvicendati esecutivi disparati (e disperati), in cui la pandemia ha fatto, e tuttora sta facendo, il suo corso, è cambiata la “missione” del legislatore, chiamato ad essere il ratificatore delle decisioni di governi che, via via, approfittando anche dello stato di emergenza dichiarato con il Covid-19, hanno assunto un peso sempre ulteriore, surclassando le prerogative parlamentari e riducendo le Camere a spettatrici della vita politica e sociale del Paese.
In questo contesto di deperimento della democrazia parlamentare, il ricorso all’istituto referendario diventa quasi obbligatorio: se ne richiamano i nobili natali nel diritto italiano, se ne rinverdiscono le conquiste, ma ci si dimentica quasi sempre di accompagnare queste valutazioni all’evidente insufficienza che la rappresentanza istituzionale della volontà popolare dimostra di avere.
L’equipollenza dei poteri dello Stato va, dunque, a farsi letteralmente benedire e, mentre tutto questo avviene, anche l’intervento della Consulta non pare rischiarare le ombre, fare luce sugli anfratti bui di una democrazia claudicante e pericolosamente sul ciglio del baratro ogni volta che qualcuno decide di essere il nuovo condottiero delle sorti governative, economiche e sociali di una Italia in preda a tante crisi di nervi.
L’inusualità delle conferenze stampa del Presidente della Corte Costituzionale, seppure previste dal protocollo istituzionale, è parsa come quello che realmente è: una excusatio non petita. In un’ora di puntigliose e cattedratiche affermazioni del Dottor Sottile, si è tentato di giustificare l’operato dei supremi giudici per demotivare i detrattori e i critici veementi, provando a mettere su tutto il cappello nobilissimo dell’italico ius.
La Corte non doveva per forza approvare dei quesiti ritenuti incostituzionali, ma è legittimo dubitare sul suo operato e pensare che anche i giudici si possano essere sbagliati o che si siano fatti trascinare dalle proprie convinzioni prima morali e poi magari anche politiche. Dall’altro lato, se vi è stata veramente o no una deficienza nella scrittura dei quesiti referendari lo stabiliranno i confronti tra le motivazioni addotte per promuovere o per bocciare i referendum con le altrettante motivazioni a supporto degli stessi da parte dei comitati promotori.
Sarà un interessante raffronto di posizioni, ma difficilmente qualcuno di noi si convincerà diversamente se inizia a vagheggiare nell’aere il disappunto di chi ritiene i “NO” della Consulta a cannabis ed eutanasia (così come sulla responsabilità civile dei magistrati) pregiudizievoli in quanto sorretti da una prevenzione tutta politica.
I giudici sono esseri umani e, per quanto possano introiettare la parte della terzietà rispetto alle parti in causa, hanno le loro opinioni e da queste in un certo qual modo sono eterodiretti. Inconsapevolmente, forse. Inavvertitamente, forse altrettanto. Ma non possiamo negare loro l’umanità della politica che lambisce l’imparzialità della magistratura.
Da qui viene, quindi, la sensazione che siano stati bocciati proprio i quesiti che avrebbero rivoluzionato una certa etica perbenista (nel caso della cannabis) e religiosa (nel caso del fine vita, concetto tremendamente articolabile tra eutanasia e “omicidio del consenziente“).
L’errore che non si deve commettere è eliminare la critica nei confronti delle valutazioni della Corte e, al contempo, fare di questo un elemento gratificantemente giustificante tutte le mancanze di una politica italiana ridotta ad un tecnicismo esasperante, con mille tentazioni presidenzialiste ai suoi piedi e con molta poca voglia di legiferare su altri temi che non siano quelli prettamente economici.
Incolpiamo pure la Corte Costituzionale di aver seguito la via sbagliata (e l’ha effettivamente seguita…), ma non facciamo finta di non vedere l’inerzia parlamentare, la muscolarità governativa e la prepotenza delle istituzioni finanziarie internazionali che gettano la loro ombra sul nostro Paese e condizionano pesantemente la vita di tutte e tutti noi.
Le lotte per poter decidere dei diritti che oggi ci sono negati non si possono fermare davanti alla bocciatura di due quesiti referendari. Si deve ricominciare proprio dalla ricostruzione di una rappresentanza parlamentare veramente popolare, che rispecchi quindi le esigenze e i bisogni dei cittadini ma, prima di tutto, delle classi più disagiate e indigenti. In questo Parlamento c’è molta poca voglia di approvare leggi per una vera affermazione di quella giustizia sociale che è da troppo tempo assente dai dibattiti tanto di strada quanto di palazzo.
Che il potere, poi, provi a conservarsi e non consentire troppi mutamenti radicali in una sola volta, sta nella natura del capitalismo plurisecolare ma, forse sarebbe meglio dire, della lotta fra le classi anche antica e pre-moderna. Le decisioni della Consulta vanno lette nel contesto sociale, civile e anche morale del Paese. Non ne possono essere separate. Ma la responsabilità prima di tutta questa insufficienza è nostra e delle scelte che facciamo quando andiamo a votare.
MARCO SFERINI
17 febbraio 2022
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