Contro l’odio di oggi non basta la “Giornata della Memoria”

Alcuni giorni fa, in una cittadina del livornese, due ragazzi salgono su autobus e si dirigono al parco per ritrovarsi con altri amici. Hanno dodici anni, i loro amici...
Auschwitz, 27 gennaio 1945

Alcuni giorni fa, in una cittadina del livornese, due ragazzi salgono su autobus e si dirigono al parco per ritrovarsi con altri amici. Hanno dodici anni, i loro amici sono coetanei e altri, che non conoscono, un poco più grandi: quindici. Parlano, discutono di argomenti da adolescenti: la scuola, i videogiochi della Play, il cinema, la televisione.

Poi arrivano altri ragazzi e ragazze. Due di loro iniziano a guardare Luca (il nome è di fantasia) e lo canzonano. All’inizio sembra una presa in giro quasi benevola, ma, piano piano, si trasforma in un atto di bullismo e, dopo qualche istante, involve ulteriormente tramutandosi in una vera e propria violenza verbale. E poi fisica.

«Con te non parliamo, ebreo! Dovresti finire nei forni!». Calci, pugni, schiaffi. Luca subisce umiliazioni e pestaggio senza che nessuno muova un dito per difenderlo. Gli sputano addosso, lo picchiano ripetutamente. E lo lasciano lì, a contorcersi, prima di potersi rialzare e andare a casa ammaccato nell’animo, nella mente, nel fisico. Luca ovviamente racconta ai genitori quanto accaduto. Loro ne informano il sindaco e poi vanno a sporgere denuncia dai Carabinieri. L’indignazione generale emerge non appena le cronache locali e nazionali si interessano alla vicenda e la diffondono.

A ridosso di questo giorno, la Giornata della Memoria, un ennesimo gravissimo atto di antisemitismo entra con tutta la sua ferocia nel dibattito sociale, culturale e politico di una Italia che è tutta attenta – giustamente – alla Corsa al Quirinale.

Mentre sui social si discute, ci si insulta e si inveisce, mentre la maggioranza delle persone si schiera contro bullismo e antisemitismo ed esprime solidarietà a Luca e alla sua famiglia, conosciuta in città per la sua appartenenza religiosa all’ebraismo, la Giornata della Memoria incede velocemente, getta il suo enorme punto interrogativo su tutto questo: come è possibile che due ragazze di appena quindici anni, che a scuola negli anni passati avrebbero dovuto apprendere della tragedia novecentesca degli olocausti fatti patire dai nazisti a tante popolazioni, della Shoah, dello sterminio di rom, sinti, omosessuali, apolidi…, abbiano in sé stesse così tanto odio?

E perché questo odio torna e ritorna ciclicamente nei corsi e ricorsi storici, nella stretta attualità dei nostri tempi e si riversa sulle menti e sugli animi dei più giovani? Da dove arriva questo veleno che pervade chi dovrebbe invece accostarsi alla vita con una innocenza ancora quasi intatta?

La prima cosa che viene da pensare è che il fallimento sia scolastico, sociale. L’istituzione della Giornata della Memoria allora non è servita a nulla? In tutti questi anni gli ex deportati e deportate, i partigiani e le partigiane e i resistenti tutti che hanno testimoniato di persona, proprio nelle scuole e in ogni pubblica occasione, l’orrore dell’universo concentrazionario nazista, hanno parlato a chi? A giovani impermeabili nelle loro coscienze ad un racconto inequivocabilmente chiaro, tanto è tremendo e deflagrante? Riesce difficile poterlo credere e, infatti, non è certamente così.

Oppure tutte le testimonianze, come quella della senatrice Liliana Segre, sono state in qualche modo oltrepassate da una narrazione tossica degli eventi, da un revisionismo dei fatti storici alimentato, da un lato da una rabbia sociale che sedimenta in larghi strati della popolazione e che deriva quasi sempre da una sinergia tra disagio economico e ignoranza sostanziale tanto del passato quanto del presente; dall’altro da un abbandono scolastico in preoccupante aumento (soprattutto dopo il biennio pandemico), espressione di una crisi che coinvolge economicamente, socialmente e, quindi, anche culturalmente una nazione dove la democrazia scricchiola sotto il peso delle esigenze del mercato e delle compatibilità finanziarie con il resto dell’Europa e del pianeta.

O forse la spiegazione è molto più semplice e non ha bisogno di tante analisi pseudo-sociologiche, di riferimenti culturali e politici, di paragoni e parallelismi: esiste una cattiveria molesta che riesce a farsi largo quando tutto attorno vengono meno quelle reti di protezione date da comportamenti di massa che, altrimenti, impedirebbero il suo emergere.

Quando, come ha scritto molto bene proprio Liliana Segre, si consente al linguaggio dell’odio di legittimarsi, di aprirsi un varco e di potersi fare strada in mezzo al resto dei discorsi e si tollerano certi epiteti, certe stigmatizzazioni pregiudizievoli, ci si può davvero sorprendere che i giovani non siano pervasi da tutto questo?

L’errore è a monte, quando si inizia ad accettare, facendo finta che si tratti di cose di poco conto, trascurabili per la maggior parte, che si possa pensare, scrivere e dire, proprio evocando la libertà di espressione e di stampa garantita dalla Costituzione della Repubblica, che tutto sommato qualche ragione c’era se Hitler ha ordinato la pianificazione della “soluzione finale” del “problema ebraico” e di tutti i popoli da lui considerati inferiori perché deboli e, pertanto, indegni di vivere.

Se questo odio razzista permea la società dagli strati più bassi di un sottoproletariato largamente privo di difese culturali e di spirito critico per poter controbattere e darsi gli strumenti per accrescere il proprio sapere, allora l’approdo successivo è l’equipollenza tra l’etica che ci viene dall’insegnamento della memoria, della Storia in generale, e una anti-etica che si nutre di un revisionismo titillato da troppo tempo da forze politiche che, alla prova dei fatti, poi negano questa vicinanza e, anzi, rivendicano una pieno riconoscimento delle democrazia come sede naturale della propria attività politica.

Se Luca viene preso a sputi da due quindicenni, deriso e picchiato, insultato e oltraggiato, accusato di essere diverso dagli altri e meritevole solo della fine fatta fare dai nazisti a centinaia di migliaia di bambini e ragazzi nei campi di sterminio di Sobibor, Treblinka, Auschwitz-Birkenau, oppure morti per inedia, per fatica, per torture come Anna Frank, ciò accade perché questa nostra società non ha fatto abbastanza per escludere l’odio e il disprezzo come mezzo di rivalsa per le tante frustrazioni che siamo costretti a subire a causa dell’emarginazione anti-sociale, del confinamento dei nostri sentimenti e desideri in un empireo irraggiungibile e, non c’è dubbio, a causa di una regressione scolastica oltre ogni ragionevole incipienza.

La cura degli interessi economici del Paese, il protendersi delle politiche governative alla tutela e alla salvaguardia prima di tutto degli interessi privati e poi di quelli veramente pubblici, tralasciando così la ricostruzione e il potenziamento di un nuovo stato-sociale fatto, prima di tutto, di scuola, lavoro, pensioni e sanità, è andata a convergere con la facile strumentalizzazione della rabbia automaticamente generata per via di trascuratezze continue e recidive nel corso degli ultimi decenni.

Dalla battaglia molto intellettuale sul revisionismo storico, si è passati ad una contrapposizione tutta socio-politica tra il sovranismo neonazi-onalista, che si è accreditato come parte integrante dell’arco parlamentare moderno, accettato e persino omaggiato da una certa sinistra che gli riconosce il ruolo di “avversario” nel consesso democratico, e un progressismo orfano di un socialismo e di un anticapitalismo veramente tali, in quanto movimenti popolari e di massa. Nulla di tutto questo oggi si può trovare sulla piazza della politica italiana.

Le conseguenze sono evidenti: i sovranisti, moderni fautori di un autoritarismo che plaude al presidenzialismo come madre di tutte le riforme anti-costituzionali, sono riusciti a creare, in questo vuoto di rappresentanza politica del mondo del lavoro e del disagio sociale diffuso, dei punti di contatto con la parte più indigente della popolazione, a stabilire una empatia rinnovata e, quindi, ritrovata, escludendo da questa nuova cultura nazionalista ovviamente i presupposti cardine della Carta del 1948: solidarietà, uguaglianza civile, morale e sociale.

Alle condizioni economiche bisogna sempre guardare perché sono il termometro dei rapporti di forza tra le classi. Ma non c’è dubbio alcuno che, per quanto riguarda casi come quello di Luca, le ragioni ultime che spingono all’odio razziale, all’antisemitismo, al disprezzo per gli omosessuali o per rom e sinti, alla marginalizzazione dei più poveri e al rifiuto violento, ad esempio, dei senzatetto, sono da ricercare negli ambienti più vicini alla quotidianità dei ragazzi e delle ragazze.

Scuola, famiglia, lavoro, università. Nessuno di questi luoghi può chiamarsi fuori nella responsabilità complessiva che riguarda il ritorno ciclico del disprezzo e dell’anatema gratuito contro il “diverso da noi”.

In questi ultimi decenni, proprio il liberismo ha coltivato in tutto il mondo lo spostamento del punto di osservazione della condizione disagevole di milioni di indigenti dall’ovvio (per noi) scontro verticale tra capitale e lavoro a quello orizzontale tra poveri e ancora più poveri.

La tragedia dell’orrore nazista di ieri va insegnata meglio, ogni giorno dell’anno, ogni volta che se ne ha occasione e non soltanto il 27 gennaio. Ma i motivi per cui l’odio riemerge e prepotentemente sgomita e si apre strade altrimenti impraticabili, vanno individuati prima di tutto nell’accondiscendenza, in particolar modo di un variegato mondo della cosiddetta “sinistra“, nei confronti delle forze liberiste da un lato e della patente di “legittimo avversario” democratico ai sovranisti dall’altro.

Gli errori si sommano e questo non percepito “sonno della ragione“, alla fine genera sempre e soltanto dei mostri…

MARCO SFERINI

27 gennaio 2022

foto tratta da Wikipedia

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