Ciclicamente, ormai, i commenti sull’attualità sociale e politica italiana si ripetono e dicono di numeri, di fatti, di persone addirittura che non escono di scena, che non lasciano spazio a mutamenti positivi, ad innovazioni e progressi, ma che, invece, sono la manifestazione di una continuità, di una saldatura col periodo pre-pandemico: molto poco è infatti cambiato da prima che il Covid-19 facesse il suo ingresso sulla scena mondiale.
Molto poco se si guarda alla riconfigurazione tutta italiana di un capitalismo che ha osservato passivamente la crisi economica e ha atteso fiumi di ristori danarosi indirizzati per lo più alle imprese di un certo livello, trascurando tutto quel “ceto medio” che viene portato in palmo di mano quando si tratta di decantare le grandi sorti del “Made in Italy” attraverso le eccellenze delle giovani, moderne e innovative “start up” del Bel Paese.
Molto poco è pure cambiato, se non in chiave assolutamente negativa, se ci si riferisce al rapporto tra povertà e ricchezza, tra socialità ed individualismo, tra bene comune e privilegi privati.
L’acuirsi delle diseguaglianze era facilmente prevedibile, visto che la pandemia non era, e tutt’ora non è, un fenomeno espansivo ma regressivo, capace di rivoluzionare gli schemi ma fermamente conservatore nel permettere alle classi dirigenti di mostrare l’emergenza sanitaria come una eccezione che va governata attraverso il sacrificio diffuso, estendibile e condivisibile dalle grandi masse su cui deve poggiare il recupero nazionale, gestito poi nella sua successiva fase espansiva dal mondo dell’impresa.
Il PNRR è pronto per essere applicato, i suoi miliardi sono a disposizione dei padroni e le briciole rimarranno per aggiustare i conti di uno Stato che non sta ripensando ad una sanità veramente pubblica, ad una trasformazione in senso sociale dei suoi apparati, ad una tutela delle giovani generazioni, partendo da una riqualificazione complessiva della scuola della Repubblica.
La filosofia liberista nata verso la fine degli anni ’70, che trovò da allora vasta applicazione in tutti i paesi economicamente avanzati (o su quella strada avviati dai poli capitalisti in competizione fra loro), secondo cui doveva essere limitata l’intromissione del pubblico negli affari pubblici e doveva invece essere subordinato il tutto al privato e alla logica del mercato, non è stata messa da parte dall’emergenza pandemica.
Non ne siamo usciti ancora, ma soprattutto non ne usciremo migliori, perché ci ritroveremo con innanzi una rinnovata proposta liberista, attualizzata e capace di adattarsi anche ai momenti di crisi cicliche non esplicitamente e direttamente frutto delle oscillazioni delle borse e della grande finanza internazionale.
Molto poco, dunque, è cambiato in merito alla strutturazione antisociale del capitale. Moltissimo, invece, è cambiato per quanto concerne l’aumento tendenziale del saggio di profitto (per dirla in termini assolutamente marxiani) in questi ultimi decenni e ancora di più nel biennio pandemico. La concentrazione delle ricchezze plurimiliardarie è divenuta esponenziale e la descrive con grande accuratezza il rapporto della ong Oxfam per il 2021 appena trascorso. E’ una fotografia impietosa di un acuirsi delle diseguaglianze talmente enorme da impedire persino ai grandi mezzi di informazione padronali e marcatamente liberisti di evitare il tema e non fare cenno alla contraddizione.
Tutti i numeri che si possono leggere sono circoscritti perfettamente in una dimensione ulteriore di un sistema capitalistico che si è adattato con grande sagacia al momento di crisi internazionale globale: la flessione dei profitti per le aziende che importano ed esportano e vendono prevalentemente fuori da Internet è praticamente inversamente proporzionale per tutti quei colossi che distribuiscono ogni sorta di merce solo sul web.
Ma non solo. Si sono ovviamente viste sestuplicare i profitti (e i dividendi, ovvio) le multinazionali farmaceutiche: prime fra tutte le produttrici dei vaccini. Non era difficile prevederlo ed, anzi, sarebbe stato strano il contrario, visto che nessuna di loro ha rinunciato, nemmeno per il periodo più duro dell’emergenza (ammesso che lo si sia davvero passato…), alla proprietà sui farmaci prodotti, a quei brevetti che impediscono agli Stati e ai popoli di essere i proprietari di beni veramente comuni, di prima necessità, dal momento che salvano la vita.
Se tutto questo non deve stupire, almeno deve indignare e far riconsiderare a molti le ragioni di una socializzazione dei mezzi di produzione sul lungo termine, l’abbandono progressivo di un regime economico devastante per la vita di miliardi di persone, degli altri esseri viventi e dell’eco-sistema in generale.
Il modello liberista, che permette a Bezos e Musk, a Zuckerberg e Gates di essere tra quelli che hanno patrimoni che valgono quanto un il 40% dell’intera popolazione mondiale, non deve necessariamente essere messo in discussione per un capriccio di noi comunisti che aspiriamo a quella giustizia sociale che sostituisca l’iniziativa privata in economia; deve essere messo in discussione prima di tutto per l’incompatibilità manifesta che dimostra di avere con la sostenibilità della vita sul pianeta.
Per mantenersi tale, il liberismo ha dovuto, in questi decenni, sostenere progetti neo-conservativi (gli Stati Uniti con il Tea Party e con il trumpismo ne sono l’esempio più eclatante e devastante) che politicamente contraddicevano il bisogno economico della grande impresa e del padronato di avere sempre meno controlli pubblici sul mercato ma che, sul piano meramente gestionale, consentivano al capitale di foraggiarsi attraverso sostegni di Stato sempre maggiori, a tutto scapito delle classi medio-basse.
Il trumpismo è stato tutto questo: una esasperazione di un conservatorismo di nuova generazione, rimodulato in base agli umori popolari frustrati da bisogni insoddisfatti da decenni di politiche di compressione dei salari, di riduzione dei diritti sociali e di un acuirsi indiscriminato del livello di sfruttamento della forza-lavoro da parte proprio di quei grandi gruppi dell'”e-commerce” che si sono avvantaggiati soprattutto con la pandemia di queste loro peculiarità di produzione e vendita.
Ma gli Stati Uniti non sono un fenomeno isolabile, a sé stante: sono la cartina di tornasole di un mondo dove il liberismo si è riversato con tutte queste contraddizioni, aprendo la strada ad una nuova stagione di lotta contro qualunque fenomeno o movimento anticapitalista che potesse prendere corpo, tramutarsi in coscienza collettiva e dare vita a piattaforme rivendicative come quelle scoppiate quasi all’improvviso con “Occupy Wall Street“.
L’imprevedibilità delle lotte spaventa di più i grandi finanzieri e gli enormi capitalisti internettiani di una tipica organizzazione novecentesca della lotta di classe attraverso i suoi corpi intermedi sindacali e attraverso le tattiche e le strategie dei partiti comunisti. Ed anche questa, in fondo, è una contraddizione che proviene dall’aggiornamento sistemico e strutturale di una economia in crisi ed in espansione al tempo stesso.
Non significa che la forma-partito sia o debba essere soppiantata da uno spontaneismo movimentista che avvampa senza programmazione e si spegne con altrettanta deludente velocità. Ma, indubbiamente, va tenuto conto del fatto che, in mancanza di una riorganizzazione dell’anticapitalismo militante, ogni cuneo contraddittorio che si può inserire nel fianco del liberismo attuale è comunque una apertura di nuovi stimoli al dubbio, alla critica, alla messa in discussione di milioni e milioni di esistenze che sopravvivono in un limbo di vita che impedisce loro di pianificare una esistenza degna di essere vissuta.
Il rafforzamento degli Stati, tramite la stretta alleanza tra neoconservatorismo e neoliberismo, non è una riqualificazione delle democrazie, una apertura del mercato alla tutela dei diritti umani, civili e sociali. E’ un ennesimo utilizzo delle sovrastrutture per un fine ben preciso: evitare una ciclicità di crisi economiche in un momento in cui la stabilità concorrenziale è una variabile dipendente dall’evolversi della pandemia che, pertanto, si può invocare ad alibi per giustificare qualunque ridimensionamento dei diritti dei lavoratori. Nel nome, si intende, del “bene del Paese“, qualunque esso sia.
Confindustria in Italia ci ha già proposto più volte in questi due anni proprio lo schema appena descritto, acquiescentemente messo in pratica dal governo di Draghi, il cui futuro è incerto soltanto per la ridefinizione degli equilibri tra le forze politiche in vista dell’elezione quirinalizia.
Nessun esecutivo riformatore (tanto meno sociale) è alle porte. Il potente acronimo del PNRR è lì, moloch imperturbabile, icona di un memorandum che preannuncia, in perfetta sintonia con la strategia liberista statunitense, un protezionismo esasperato dei profitti e, pertanto, una iniqua distribuzione delle risorse date in parte in prestito e in parte a stato-sociale (ancora più) morto da una Europa che è tutto fuorché il sogno progressista che molti nel centrosinistra si ostinano a volerci far credere sia.
MARCO SFERINI
18 gennaio 2022
foto tratta da Pixabay