La Storia è ricca di tutte le contraddizioni e le bizzarrie che gli esseri umani condensano in loro stessi, per cui può capitare di incontrare un Giulio Cesare che ha scritto fiumi di commentari sulle proprie imprese militari e politiche, mentre di Socrate ci sarebbe rimasto ben poco se non fosse stato per Platone. Ed anche dei viaggi di Marco Polo probabilmente avremmo saputo quasi nulla, se le circostanze fortuite dei conflitti tra le repubbliche marinare dell’epoca non lo avessero condotto in una prigione a dettare a Rustichello da Pisa le sue memorie.
Così, alternativamente, senza una regola aurea che stabilisca un nesso di causa ed effetto che valga per tutti i secoli dei secoli, abbiamo vite intense e brevi di condottieri di cui sono rimasti dettagliati resoconti, opinioni e anche descrizioni del mondo che fu; mentre di altri personaggi, che vissero più o meno come Alessandro Magno o come Gesù poco meno di quarant’anni, ci resta poco e niente.
Eppure la Storia non li ha per questo dimenticati e relegati nell’inconoscibilità: anzi, la loro grandezza ha permesso forse di conoscerli più a fondo ancora proprio grazie alla miriade di opere che su loro sono state scritte e che, per i punti di vista molto differenti fra loro, ci hanno consegnato un quadro veramente esegetico e consapevolmente critico di quello che pensavano, di quello che facevano.
E’ un po’ la sorte che hanno avuto tanti pensatori dell’antichità, soprattutto ellenici: si pensi ai presocratici, a Diogene il Cinico che, indubbiamente, avrebbe apprezzato questa mancanza di informazioni su sé stesso, visto che non intese lasciare nulla per essere ricordato con le proprie parole. Le biografie all’epoca non andavano molto di moda, del resto.
Col passare dei secoli, le grandi vite brevi di condottieri, statisti, uomini e donne di cultura, artisti e poeti, letterati e grandi scienziati sono state tutt’altro che brevi comete di passaggio, ma hanno lasciato la loro impronta nella Storia e ne hanno plasmato i tempi, accompagnando quelli successivi alla contemporaneità con sempre maggiori dettagli: per sé stessi e per gli altri.
Più le vite sono state brevi e più il mistero si è impadronito di tanti di quei momenti relegati in un arco temporale fatto di pochi decenni: una goccia nel mare della presunta infinitudine della quarta dimensione. Ma la goccia finisce sempre, riproponendosi costantemente, col scavare un bel buco nella roccia su cui batte con precisione ritmica.
Il mistero ha permeato più ancora le esistenze di grandi personaggi che sono rimasti, volutamente o meno, prigionieri di eventi molto più grandi di loro, nei quali tuttavia hanno espresso un ruolo principale, da protagonisti assoluti, spesso divenendo gli attori di un dramma incontrollabile. Perché le rivoluzioni, gli sconvolgimenti epocali, sono proprio questo: sono delle rotture che paiono improvvise e che, invece, sedimentano per anni e anni e il cui humus crea le condizioni talvolta latenti per determinare un cambiamento che, almeno nella sua fase apicale, è densissimo di mutazioni sociali, civili, morali e materiali.
La vita di Maximilien Robespierre, a questo proposito, non fa assolutamente eccezione. Tutto ciò che è stato scritto prima è, in pratica, la descrizione di un rapporto tra lui e gli eventi che lo hanno visto partecipe in prima persona, tanto intenso quanto impossibile da cogliere in tutte le sue sfumature. La Rivoluzione francese è così ricca di cronache e di descrizioni della quotidianità sia di Parigi sia del resto del decadente regno di Luigi XVI, tanto da poter dire che, pur non avendo filmati o sonori dell’epoca, siamo in possesso di vere e proprie rappresentazioni visive di quello che avvenne. Il confronto tra le fonti ce ne dà la certezza.
Ciò vale per i mesi precedenti le sollevazioni popolari, ad iniziare dalla presa della fortezza della Bastiglia, e vale ancora di più per tutto il tragitto della tempesta rivoluzionaria che travolse la monarchia, l’ordine feudale e innalzò la borghesia a nuova classe dirigente della Francia. Se nell’Inghilterra di fine ‘700 questa stessa classe si muoveva nel mero ambito economico e sopravviveva un equilibrio tra aristocrazia e nuovi commerci e strutturazioni dei rapporti sociali, a Parigi accade qualcosa di inaspettato: si reclama una uguaglianza che non pretende di essere anche economica, ma che pone per la prima volta nella storia moderna il tema del privilegio come retaggio del passato, come somma ingiustizia da superare.
Robespierre la vede diversamente e lo scrive nei suoi discorsi all’Assemblea nazionale prima e alla Convenzione poi. L’editrice PGreco ha fatto quello che altri importanti diffusori della cultura non hanno osato: raccogliere questi essenziali documenti scritti dall’avvocato di Arras, facendoli precedere da una brillante prefazione di Umberto Cerroni. “Il Terrore e la Rivoluzione giacobina” è un volume che andrebbe tenuto sempre accanto, perché è una specie di ricerca di archivio senza dover andare a consultare un archivio per conoscere meglio Robespierre ma pure la corte di Versailles (e poi quella delle Tuileries) nei suoi ultimi fasti, i rapporti con i capi della rivoluzione, tra cui Mirabeau, Danton, Marat, Saint Just, Couthon, Brissot, Hebert e Desmoulins.
La costruzione dell’uguaglianza come nuovo principio ispiratore di una nuova vita in Francia (e nel resto d’Europa) è lo scopo dei giacobini, è il punto attorno a cui ruota tutta l’esperienze politica di Robespierre: da rappresentante del Terzo Stato a membro del Comitato di Salute Pubblica e Presidente della Convenziona nazionale.
Questo giovane integerrimo ammiratore di Jean Jacques Rousseau e del suo “Contract social“, dalla vita spartana, estraneo a qualunque mondanità ma non incapace di avere relazioni sociali diffuse, di partecipare a pranzi e cene dove poteva unire il piacere del divertimento alla speculazione filosofico-politica, diverrà in pochi anni – proprio come Danton – il capo di una Francia che rincorrerà freneticamente la propria storia senza riuscire a metterle un freno, senza capire per tempo quale corso avrebbe preso la Rivoluzione divenuta una antonomasia.
Di Robespierre sono state scritte tante biografie, eppure per conoscerlo a fondo non c’è nulla di più completo dei suoi scritti, di quello che direttamente ci è arrivato del suo pensiero e della sua politica.
Nei suoi “Studi su Robespierre“, Mathiez è forse tra i primi nel Novecento a riabilitare Maximilien e a restituirgli quel posto nella Storia della Francia e del mondo che davvero gli spetta: perché il Terrore non fu la risposta disperata e necessaria ad un attacco concentrico delle monarchie europee contro la Rivoluzione. Dentro e fuori i confini della giovane repubblica le minacce si moltiplicano. Robespierre intuisce che al processo di cambiamento radicale serve un sostegno popolare, che il governo di tutto questo non può essere impositivo, ma serve una collaborazione anche sociale.
Per questo promuove riforme economiche, sostiene una uguaglianza che alla borghesia non piace, perché lede proprio quei privilegi che erano stati fino ad allora subordinati ai privilegi di una aristocrazia intoccabile, così come di un clero altrettanto protetto dall’assolutismo monarchico.
Ed è per questo che si pone il problema di sfanatizzare la Rivoluzione da un lato, demitizzando i nuovi eroi e, al contempo, isolando il moderatismo compromissorio delle fazioni che vorrebbero arrestare il cambiamento, accontentandosi della più equa redistribuzione fiscale, cercando quella pace sociale che sarebbe la decretazione dell’incompiutezza di un lavoro sovversivo non giunto al suo termine. La rivoluzione giacobina è una rivoluzione nella rivoluzione stessa: non è un comunismo ante litteram, nonostante Babeuf e gli Eguali di pochi anni dopo, ma è la necessità di riconoscere alla stragrande maggioranza del popolo francese quel diritto alla vita degna che fino ad allora gli era stato negato.
Per fare questo, Robespierre e i giacobini devono puntare tutto su una incorruttibilità assoluta, anticipando troppo i tempi: maturi per il passaggio dall’aristrocraticismo al capitalismo borghese, ma non così maturi per un ulteriore salto di qualità da questo ad un “regno dell’eguaglianza” civile e sociale insieme.
Nelle parole del grande rivoluzionario francese potrete trovare tutta l’empatia da lui provata per la causa che ha sostenuto e in cui ha disinteressatamente creduto. La durezza della politica terrorista del Comitato di Salute Pubblica ha allarmato la maggioranza della Convenzione nazionale, costituita per lo più da quei borghesi che ora erano satolli di libertà e appagati quanto bastava per non giustificare più la virulenza rivoluzionaria robespierrista. I nuovi privilegi erano stabiliti e tanto bastava alla nuova “classe media” per mettere fine al governo di eccezione, alla politica di straordinarietà.
Per questo Robespierre viene arrestato e ghigliottinato con Couthon e Saint Just: per aver ritenuto di andare ancora un passo più in là delle leghe percorse fino a quel momento dall’impeto scardinante di uno stravolgimento caotico che iniziava a prendere ordine e a determinarsi come immagine sostanziale di una umanità che aveva osato sfidare istituzioni granitiche, pregiudizi consolidati e abitudini divenute leggi non scritte.
Riprendendo proprio Mathiez, rendendo questa volta omaggio ai suoi studi e al coraggio di infrangere la cortina della condanna preventiva del giacobinismo, soprattutto in Francia, possiamo rileggere i discorsi e gli scritti di Maximilien Robespierre sapendo di avere per le mani documenti di una eccezionale, straordinaria attualità.
IL TERRORE E LA RIVOLUZIONE GIACOBINA
MAXIMILIEN ROBESPIERRE
PGRECO EDIZIONI
€ 15,00
MARCO SFERINI
22 dicembre 2021
foto: particolare della copertina del libro